Tag: produttività

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“Io voglio avere la certezza che tu e Mila stiate bene in modo che io possa lavorare tranquillo, perché a me lavorare piace”, mi ha detto una volta il mio compagno, preoccupato per il fatto di saperci chiuse a casa in un luglio caldissimo con l’aria condizionata fuori uso. Quante donne potrebbero permettersi di pronunciare la stessa frase rivolgendola al proprio compagno?

Quante donne pretendono e dichiarano ad alta voce di rientrare al lavoro dopo la maternità semplicemente perché a loro piace lavorare? Come reagirebbe un qualsiasi ascoltatore alla nostra affermazione? Potrebbe capitare che il senso comune (oppure il sempre presente senso di colpa materno) tacci la madre di avere delle pretese un po’ eccessive. Leggi tutto >

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Il calo della produttività? Anche colpa di un ambiente di lavoro rumoroso. Secondo un’analisi sugli effetti del rumore sulla concentrazione delle risorse umane in azienda svolta da Ecophon, società del gruppo Saint-Gobain specializzata nella produzione di prodotti e sistemi acustici fonoassorbenti, le distrazioni accumulate dai dipendenti in un’azienda corrispondono in media a 24 giorni lavorativi persi in un anno. Che tradotto significa -15% in termini di produttività. Inoltre, meno del 28% di coloro che lavorano all’interno di uffici open space risulta soddisfatto delle condizioni acustiche. Leggi tutto >

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di Umberto Buratti e Cristina Galbiati

La risposta legislativa all’acuirsi della crisi finanziaria è stata quella di mettere a stretto regime dietetico l’‘obeso’ sistema pubblico attraverso una riduzione dei suoi costi e una razionalizzazione dei centri di spesa. Ma anche il rigore più razionale e scientifico se non è accompagnato da una visione di lungo periodo rischia di trasformarsi in una scelta poco razionale. La spending review, infatti, è una condizione sì necessaria ma di per sé non sufficiente a riqualificare la struttura organizzativa pubblica. In una fase critica come quella attuale diventa, dunque, utile non solo ricomporre lo sterile quadro normativo quanto indagare quelle politiche manageriali in grado di leggere nel capitale umano non una variabile di scarso peso da porre in secondo piano rispetto alle politiche di rigore, bensì capaci di valorizzare il dipendente pubblico in quanto lavoratore e persona. Non più un semplice soggetto anonimo di una struttura elefantiaca, ma un dipendente le cui competenze sono da porre al centro dell’attenzione. Leggi tutto >

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di Lauro Venturi

Voglio raccontarvi un episodio che contiene alcuni paradossi che non mi vanno giù.
Un mese fa mi reco in posta, a Milano, per chiudere un conto che mi era stato utile nella fase iniziale del commissariamento della struttura che gestisco. Nonostante diversi tentativi della mia responsabile amministrativa, non è stato possibile fissare un appuntamento.
Così, io e la mia collega, ci siamo presentati agli uffici postali e diligentemente abbiamo preso il nostro numero. Un’ora e quarantacinque minuti di attesa, che ci ha stupito perché non c’erano molte persone (per fortuna!). Da imperdonabile esperto di organizzazione mi sono messo a osservare cosa succedeva: perché i tempi di attesa si dilatavano in quel modo? Innanzitutto, su sei sportelli ne funzionavano solamente due. Per la prima mezz’ora, le insegne accese erano quattro, ma due di queste rigidamente ferme sull’ultimo numero relativo all’ultimo cliente servito. Uno dei due sportelli operativi veniva continuamente invaso dalla responsabil che, in un gabbiotto chiuso, stava aprendo un conto deposito a un cliente. Forte della sua autorità, interrompeva l’addetto chiedendo una fotocopia, un po’ di carta, un modulo tal dei tali…
Nell’attesa, ho guardato i locali: espositori per la modulistica vuoti, volantini lasciati disordinatamente sul bancone, avvisi attaccati malamente con lo scotch alle vetrate…
Proseguo con una piccola panoramica sugli addetti. Giuro che non scherzo, uno di questi (uno dei due), imponente come mole e con un barbone da mangiafuoco, aveva una maglietta estiva sopra a un paio di calzoni della tuta. La mia collega sostiene che quest’estate andrà a lavorare in costume e infradito.
Mentre osservavo la situazione, notavo che questa persona prima scriveva su un modulo cartaceo una sfilza innumerevole di dati e di informazioni, poi le ricopiava al computer.
Quando è stato il nostro turno, l’addetto ha voluto tutti i miei dati, nonostante avessero la mia anagrafica digitalizzata, in quanto legale rappresentante con tanto di firma depositata.
Mi ha chiesto carta d’identità e codice fiscale, è andato a fare le fotocopie (la mia collega diligentemente le aveva portate, ma non andavano bene), ha compilato due moduli a mano, ha fatto altre fotocopie e graffettato il tutto.
Poi ha trascritto le informazioni e i dati sul computer. A proposito, con la mia carta di identità in mano, mi ha chiesto luogo, data di nascita e indirizzo.
Quando siamo usciti erano passate due ore e tredici minuti dall’arrivo in questo girone infernale. Nella testa mi frullava questo pensiero: “Ma come, non hanno privatizzato le Poste? E questo sarebbe un servizio da azienda che vuole competere sul libero mercato?” E ancora: “Ma Corrado Passera, prima di approdare a Banca Intesa e al Ministero dello Sviluppo Economico, non si vantava di avere ristrutturato Poste Italiane, creandone un gioiello di efficienza e produttività, una case history per le business school internazionali?” Rientrato in ufficio, vado sul sito delle poste e leggo che “…il profondo rinnovamento che ha coinvolto Poste Italiane nell’ultimo decennio ha portato l’azienda a un innalzamento della qualità dei servizi e ad un ampliamento della gamma dell’offerta”. Ancora: “…un programma di investimenti ha permesso all’azienda di elevare in breve tempo e in maniera significativa gli standard di efficienza, di aumentare ulteriormente il grado di professionalità dei propri addetti…”. Ma ci prendono per i fondelli? Non sarebbe meglio tornare alle vecchie poste pubbliche?
Un tarlo mi consiglia di approfondire ed ecco che il sito ufficiale mi sbatte in faccia che l’assetto proprietario di Poste Italiane SpA vede la partecipazione totalitaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Non ci capisco più niente, dicono che hanno privatizzato ma il socio unico di questa Spa è rimasto lo Stato, leggo di mirabolanti piani industriali e mi scontro con inefficienza e disservizi insopportabili. E non è un caso isolato, quando malauguratamente qualcuno mi manda una raccomandata, al sabato mi sorbetto una lunga fila per ritirarla: anche nell’ufficio postale del mio paese le cose non vanno meglio.
Quanto stride il sito così elegante di Poste Italiane con la brutale realtà dei loro uffici. Caro Presidente e caro Amministratore delegato delle Poste, da quand’è che non ne visitate uno, senza preavviso? Ecco perché le persone si allontanano dalla politica e dalle strutture connesse: perché, spesso, si sentono raccontare balle! Leggi tutto >

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