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Ho avuto recentemente l’occasione di rileggere una ricerca della Georgetown University pubblicata qualche tempo fa dalla Harvard Business Review. Scoprire in tempi di turbo capitalismo che c’è ancora chi si pone la domanda se i dipendenti si sentano rispettati mi ha riportato in qualche modo alle teorie socio-organizzative di Elton Mayo e agli studi condotti presso la Western Electric Co. negli stabilimenti Hawthorne di Chicago. Leggi tutto >

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Sergio Borra, Amministratore delegato e fondatore di Dale Carnegie Italia, racconta ai lettori del nostro portale la filosofia che sottende i processi formativi dell’azienda. Parliamo di sviluppo della persona all’interno dell’organizzazione, di engagement, di leadership, di come va declinata all’interno dell’azienda e di come gestire le relazioni interpersonali. Lo sviluppo della persona non può prescindere dal contesto e la formazione non può prescindere dal modo con il quale le persone lavorano. La nostra riflessione parte da qui per condurci in un’analisi sui bisogni delle persone, sull’efficacia della formazione e il ruolo dei leader.

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di Valentina Casali

Come ragiona il cliente? Quali sono i suoi modelli di consumo? Le organizzazioni hanno orecchie sufficientemente tese all’ascolto dei bisogni e alle aspettative del cliente? Soprattutto sono pronte a ripensarsi in una logica orientata al cliente in modo esperienziale? In questa svolta epocale, come si fa a gestire un cambiamento che interessa tutti i livelli dell’organizzazione e che incide sulle persone? Quali sono, infine, le tecnologie a supporto delle nuove strategie di marketing?
Questi gli interrogativi che ci siamo posti ieri, martedì 2 dicembre, al convegno milanese “Customer Experience: alla ricerca del marketing perfetto”, organizzato dalle riviste Sistemi&Impresa e Sviluppo&Organizzazione.

Con l’avvento dei social media e delle tecnologie 2.0 sono mutate radicalmente le modalità d’accesso degli end user ai servizi e agli articoli di consumo. Non è più il brand a dettare le regole del gioco, bensì il consumatore, che può essere una grande opportunità, ma anche una fastidiosa spina nel fianco. Social network, forum, blog, siti di e-commerce e app di m-commerce: sono solo alcuni dei territori virtuali in cui le aziende combattono la loro lotta quotidiana per cercare di guadagnarsi la fiducia del consumatore. E insieme ai luoghi virtuali, anche una moltitudine di spazi fisici – flagship store, pop-up store, hybrid store –, concepiti per garantire al cliente la miglior esperienza possibile.
Ecco allora che le aziende si trovano a dover affrontare una nuova e importantissima sfida legata alla sopravvivenza nel lungo periodo. Una sfida che in parte si gioca all’esterno, nella relazione con l’utente finale, e in parte all’interno, nella comunicazione con i collaboratori che, per primi, possono rendere la customer experience possibile.

=&0=&L’ecosistema in cui si muovono oggi le aziende è sempre più complesso e in costante evoluzione. Ci troviamo in un “socially enhanced world”, afferma =&1=& – web & social media professor all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttrice del Master in Digital Communications Specialist all’ALMED (Alta Scuola in media, comunicazione e spettacolo) –: “un mondo in cui si confondono e si integrano l’esperienza digitale e quella fisica dei clienti”. Questo produce una trasformazione nel modo in cui si gestiscono i contenuti: dal content management alla content curation, dove si dà ampio spazio alla co-creazione e dove gli utenti costituiscono il reale valore aggiunto. In questa era – cosiddetta del ‘web 3.0’ – è necessario che le aziende capiscano di doversi prendere cura del contenuto dal momento in cui viene reso pubblico e per tutta la durata della sua permanenza in rete.
Ecco allora che le conversazioni assumono un’importanza cruciale in un contesto che però non è ancora sufficientemente pronto a interpretarle e a coglierne l’efficacia, per via di strumenti di misurazione delle performance antiquati. Le aziende hanno ancora tanta strada da percorrere in questo senso e devono imparare a frequentare i luoghi virtuali in cui avvengono queste conversazioni: da Facebook a Twitter. Se Facebook è paragonabile a un ‘club’ – ossia un luogo in cui i clienti possono incontrarsi e aggregarsi intorno a contenuti identitari –, Twitter diventa una sorta di ‘party’ – dove le persone intrattengono brevi conversazioni senza l’obbligo di intessere relazioni durature. Se nel primo caso i clienti premiano un contenuto aggregante da parte dei brand, nel secondo vince il contributo più originale.
Tenere a mente che questi luoghi esistono e che bisogna saper gestire le conversazioni in maniera differente rispetto al contesto e alle aspettative dei clienti è la vera sfida per le organizzazioni.

La reputazione del brand: cos’è e come gestirla=&3=&La reputazione è un elemento fondamentale nel processo di acquisto e nella creazione di fiducia tra brand e cliente. Ma cosa intendiamo di preciso con questo termine? =&5=& – Territory Manager Italia, Grecia, Turchia, Cipro e Malta di=&6=&Trip Advisor – ritiene la reputazione “una sintesi tra una tesi e un’antitesi”. Un po’ come avviene in un procedimento penale, il cliente/giudice procede a recuperare tutte le informazioni su quel dato prodotto/servizio e a sintetizzare in un unico giudizio (oggettivo) le voci soggettive della folla.
Come si passa dalla reputazione alla fiducia nel brand? “La fiducia si crea sulla base di elementi storici – l’insieme delle relazioni già intrattenute con il cliente – e della cosiddetta ‘ombra del futuro’ – ossia la prospettiva di nuovi incontri”, continua Laterza. Ma quando abbiamo a che fare con web e social network non possiamo vedere o conoscere di persona il nostro interlocutore. E la fiducia diventa più difficile da conquistarsi. Come si fa, in queste condizioni, a dialogare col cliente? “Mediante la creazione di community, all’interno delle quali usare lo strumento del passaparola o, se vogliamo essere più internazionali, dello storytelling.” Perché ciò che contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi è proprio la capacità di raccontare delle storie. Saper gestire la reputazione significa “trovare un proprio tratto identitario e saperlo raccontare, calandolo nei diversi contesti con i quali abbiamo a che fare”.

Misurare la relazione
Poiché il mondo in cui si muovono le aziende oggi è complesso, dobbiamo saperlo interpretare al meglio per elaborare strategie vincenti e attivare la comunicazione. Molto si gioca nell’ambito delle neuroscienze perché il cliente – “questo sconosciuto” – segue dei paradigmi che si ripetono in modo meccanicistico e che, in questa complessità, possono costituire un punto fermo. Per esempio, il cliente decide sempre emozionalmente; l’emotività si attiva con il coinvolgimento; il cliente è coinvolto se partecipa, se ha un’esperienza.
I social network sono strumenti aggiuntivi – rispetto ai canali tradizionali –, atti al coinvolgimento esperienziale del cliente. Mettendo a disposizione luoghi in cui accadono cose e si attivano relazioni, i clienti acquistano un ruolo importante nella catena del valore e assumono una funzione centrale nella relazione con le aziende.Misurare questa relazione si può. Come? “Analizzando la ‘relazione richiesta’ – dal cliente – e la ‘relazione offerta’ – dalle aziende”, spiega =&7=&, responsabile dello sviluppo delle metodologie applicate alla comunicazione d’impresa del Gruppo Areté. Ammettendo che A sia la relazione richiesta e B la relazione offerta, se A è uguale a B allora tutto va bene: ossia, le aspettative del cliente sono state del tutto soddisfatte dall’offerta del brand. Ma se A è maggiore di B, allora si ha un problema di retention e di fidelizzazione… l’azienda rischia seriamente di perdere la vendita; viceversa, se A è minore di B, si registra uno spreco per l’azienda, che ha dato di più di quanto richiesto.
Quindi la soluzione è “mantenersi nel giusto mezzo” e soprattutto fare ampio uso di business intelligence, unico modo per misurare la relazione.

Conoscere il cliente per gestirlo
Il cliente è prima di tutto un essere umano e, come tale, un essere dotato di memoria. È nel ricordo che immagazziniamo le nostre esperienze, quelle belle e quelle brutte. Per =&8=& – presidente di AICEX, Associazione Italiana Customer Experience – “parlare di customer experience significa lavorare per rendere il cliente felice, affinché il suo sia un bel ricordo”. In logica vincente anche per le aziende. Perché un cliente felice fa il passaparola, è disposto a pagare di più, acquista di nuovo e acquista nuovi prodotti.Tre sono le fasi del customer journey: la fase delle aspettative (sul futuro); la fase dell’interazione (nel presente); la fase del ricordo (del passato). L’esperienza inizia già quando il cliente vede la pubblicità di un prodotto. È in quel momento che si crea una serie di aspettative sulla base di percezioni meccaniche, funzionali ed emotive. Dare ascolto a queste aspettative è la vera chiave di eccellenza per le aziende. Gestire i passaggi successivi del customer journey è fondamentale per produrre nel cliente un buon ricordo e attivare con lo stesso una relazione duratura.

Personalizzare l’offerta
Dare ascolto ai desiderata del cliente e alle sue aspettative è alla base di una buona strategia di marketing, che faccia della personalizzazione dell’offerta il suo cavallo di battaglia. “Fare customer experience management significa comprendere l’unicità del cliente e proporgli contenuti ad hoc”, commentano =&10=&, direttore clienti di DMGROUP e =&11=&, direttore clienti di DMTARGET. Raccogliere le informazioni che giungono da più canali di vendita (on e offline), segmentare il target e costruire una comunicazione multi-step e in real time sono i passaggi fondamentali per elargire un’ottima customer experience.

Quando il centralinista diventa un eroe
Dare ascolto al cliente, ingaggiare una comunicazione multicanale e differenziata con l’utente finale: ok, ma chi se ne occupa in azienda? Sono i dipendenti, i collaboratori che per primi possono regalare al cliente un’ottima esperienza di acquisto del prodotto o fruizione del servizio. È il centralinista che risponde al telefono; è il commesso che ti confeziona un abito: sono loro i veri eroi della customer experience. Perché per =&13=& – presidente e Chief Experience Officer di Wayout Consulting – “non è tanto importante cosa fai ma come lo fai; se oggi nessuno può essere insostituibile, almeno qualcuno può cercare di diventare irresistibile”. E in questo processo di creazione dell’appeal desiderato, tanto si gioca sul piano delle risorse umane. “Se ci si prende cura dei collaboratori questi, a loro volta, si prenderanno cura dei clienti; funziona così per via dei neuroni a specchio”. Mettere al centro il cliente significa valorizzare l’elemento umano prima ancora di quello tecnologico. Valorizzarlo con una formazione emozionale che utilizzi il gioco e il divertimento come dimensioni in cui si può superare la logica del giudizio, lasciando agli altri la libertà di esprimersi e di scoprire i propri talenti.

Per un ‘enorme’ dato ci vuole una grande ‘intelligenza’
Philip Kotler, pioniere nel marketing sociale, già da diverso tempo teorizza l’avvento del marketing 3.0, che porrebbe al centro non più il prodotto (modello delle 4P) o il cliente (modello delle 4C), ma addirittura l’essere umano; colui che acquista, sì, ma nel farlo non rinuncia ai propri valori e dunque cerca di riconoscersi nell’identità, nell’immagine e nell’integrità del brand (modello delle 3I). “Questo è un tipo di marketing che parla all’anima del cliente”, quota =&15=&, professoressa di Unit Sistemi Informativi alla SDA Bocconi.
“In questa nuova dimensione la tecnologia, che è causa del cambiamento, può diventare anche un fattore abilitante per la gestione della complessità via via crescente”, continua la Perego. Diventa quindi fondamentale per le funzioni marketing dotarsi di nuove competenze, prime tra tutte quelle analitiche e digitali. Big data, business intelligence, piattaforme integrate a supporto di più canali, ottimizzazione dei processi di back-end: questi concetti, ignorati fino a poco tempo fa, devono diventare i migliori amici del marketing strategico. “Solo interpretando adeguatamente il mondo che ci circonda possiamo davvero fare la differenza.”

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Come sta cambiando il ruolo del direttore risorse umane che oggi deve necessariamente fare i conti con un mercato del lavoro in difficoltà? Quali canali utilizza per cercare i migliori ‘talenti’? Quali strategie adotta per aumentare il livello di soddisfazione dei dipendenti? Michael Page, società leader nel recruitment specializzato in ambito middle e top management, ha realizzato un’indagine che ha analizzato tra settembre e novembre 2012 il ruolo di ben 4348 leader nelle risorse umane di ogni parte del mondo, di cui 500 in Italia, impiegati in diverse tipologie di aziende per dimensioni e settore. Leggi tutto >

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