Sensi di colpa a ruota libera

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“Io voglio avere la certezza che tu e Mila stiate bene in modo che io possa lavorare tranquillo, perché a me lavorare piace”, mi ha detto una volta il mio compagno, preoccupato per il fatto di saperci chiuse a casa in un luglio caldissimo con l’aria condizionata fuori uso. Quante donne potrebbero permettersi di pronunciare la stessa frase rivolgendola al proprio compagno?

Quante donne pretendono e dichiarano ad alta voce di rientrare al lavoro dopo la maternità semplicemente perché a loro piace lavorare? Come reagirebbe un qualsiasi ascoltatore alla nostra affermazione? Potrebbe capitare che il senso comune (oppure il sempre presente senso di colpa materno) tacci la madre di avere delle pretese un po’ eccessive.

“Dopotutto il figlio l’hai voluto, o no? Non essere egoista, ma come fai a lasciarlo, così piccolo? Ora devi pensare a lui-lei. Quando cresce ne riparleremo”. Così riecheggerebbe il monito dell’imprinting culturale da cui involontariamente ci lasciamo condizionare e che strisciante ci accompagnerà per gli anni a venire. Dal punto di vista morale la mamma si sentirebbe qualcosa di simile a una traditrice, una lavoratrice prestata alla maternità. Una mamma imperfetta.

“Forse non era la mia strada, forse dovevo puntare alla carriera, perché essere mamma non fa per me, sono un essere ignobile io che desidero tornare al mio bell’ufficio (anche se una volta pareva grigio e triste) e ai miei problemi-non-problemi di lavoro (quelli che fino a qualche mese fa non facevano dormire la notte)”. “Ma le altre come fanno?”: questa credo sia la domanda che chiude, lasciandoli in sospeso, la maggior parte degli arrovellamenti delle mamme lavoratrici.

Proseguiamo nel nostro gioco di finzione e, per praticità di metodo, decidiamo di accantonare l’annosa questione morale e di concentrarci sulla gestione operativa della faccenda: come garantire alla mamma e al suo compagno che il loro figlio starà bene e lei contemporaneamente potrà tornare in ufficio a fare quello che le piace? La famiglia ha potenzialmente a disposizione vari aiuti: nonni, baby-sitter, tate, asili nido, asili aziendali, centri estivi. Ma ecco che riappare, gravoso come un macigno, il senso di colpa e ti sussurra lascivo che nessuno è come te, mamma.

Non perché tu sia una madre da manuale (si rilegga deprimente sproloquio soprastante, nel caso si nutrissero false speranze nelle proprie capacità genitoriali), ma perché ti pare di venire meno a una promessa fatta al tuo bimbo e alle aspettative di una società intera. La stessa società in cui operano le aziende che danno lavoro alle mamme e che le ‘graziano’ nell’accoglierle nuovamente al rientro della maternità.

Perché, per l’immaginario comune, una mamma non sarà produttiva e professionale come quando non aveva figli. Se una donna rientra al lavoro a tre mesi dalla nascita di suo figlio, è professionale. Se suo figlio si ammala di rado e lei si assenta poco dal lavoro, è professionale. Se ha a casa una nonna che bada a suo figlio e può permettersi di restare in ufficio oltre l’orario normale, è ‘super’ professionale!

La professionalità è ancora strettamente legata alla variabile tempo. Più ore lavori, più è verosimile che tu sia professionale. Nonostante il tanto decantato ‘lavoro per obiettivi’, la performance viene ancora spesso misurata sulla base del monte ore lavorato, non tanto e non solo dalle aziende, quanto dalle persone che le popolano, siano capi, colleghi o dipendenti.

Tutti figli di una medesima cultura dello sforzo quantificato in ore. Il personalissimo baule di sensi di colpa della mamma si arricchisce quindi anche di quelli verso l’azienda, cui ci sentiamo in dovere di restituire grandi performance cronometriche per riscattare la nostra assenza per maternità. Come se la maternità fosse una breve parentesi di cui occorre cancellare le tracce il prima possibile, per tornare in tempi rapidi alla situazione precedente la gravidanza.

Ancora una volta occorre, di fronte a un cambiamento di vasta portata come è la nascita di un figlio, reagire con uno sguardo altrettanto ‘rivoluzionario’. Occorre, da parte delle istituzioni e delle aziende, un cambio di paradigma deciso, e non un lieve ‘aggiustamento’ delle condizioni precedenti alla gravidanza.

Il rischio che si corre è quello di una rottura tra le parti (vedi tasso di donne che non rientra al lavoro dopo la gravidanza), perché ritmi e obiettivi non coincidono più. Come un vecchio orologio che deve misurare un tempo nuovo. Quello della neonata mamma, che galoppa volitiva lungo la sua carriera insieme con il suo bambino. Senza orologio e sensi di colpa.

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