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Intelligenza umana e artificiale, superare la razionalità limitata

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A partire dagli Anni 50 del Novecento l’Intelligenza Artificiale (AI) è stata oggetto di studio, spesso evocando la fantascienza e la paura che un giorno i robot possano sostituire gli umani. Queste tecnologie permetteranno, molto probabilmente, un aumento della produttività, soprattutto in alcuni settori e in alcune organizzazioni, ma allo stesso tempo potrebbero implicare una diminuzione degli addetti ad attività di tipo routinario.

Fin dai tempi della Prima Rivoluzione Industriale, l’adozione di qualsiasi nuova tecnologia ha incontrato una certa resistenza dovuta ai possibili effetti sull’occupazione. In realtà, è più probabile che le tecnologie basate sull’AI siano in grado di automatizzare solo specifici compiti.

James Manyika, Direttore del McKinsey Global Institute, sostiene che esseri umani e macchine debbano essere considerati come complementari piuttosto che mutualmente escludenti: le tecnologie basate sull’AI potrebbero offrire alle persone la possibilità di usare maggiormente quelle che sono alcune abilità umane, come le capacità sociali, emotive e creative.

Le aziende hanno oggi l’arduo compito di capire come esseri umani e AI possano interagire in modo da trarre un vantaggio competitivo dai loro rispettivi punti di forza. Per capire quali siano gli impatti organizzativi dell’AI è utile focalizzare la nostra attenzione su alcuni temi: quali sono i benefici che le aziende vogliono ottenere introducendo l’AI all’interno dell’organizzazione?

Come viene gestito il processo di introduzione di queste nuove tecnologie, in particolare per quanto riguarda le competenze necessarie, la resistenza al cambiamento e il rischio di fallire? Qual è la struttura organizzativa che consente di sfruttare al meglio i vantaggi derivanti dall’AI, con particolare riguardo al processo di presa di decisione?

Ricognizione delle esperienze

Nell’esplorazione delle esperienze reali italiane relative all’introduzione dell’AI nelle organizzazioni emergono alcuni aspetti fondamentali. In primis mancano evidenze chiare dell’adozione dell’AI in maniera cross funzionale, congiuntamente a un cambiamento culturale, in grado di mostrarne benefici e problemi.

Si è poi notata una crescente domanda di tecnologie basate sull’AI, anche senza precisi business case. Alcune imprese si focalizzano, inoltre, sullo sviluppo di modelli statistici avanzati utilizzando l’AI, partendo dal Machine learning e, di recente, esplorando anche il Deep learning e le reti neurali. Vi è poi un incremento della numerosità dei Data scientist, anche se ancora non integrati con il resto dell’organizzazione (‘effetto silos’).

Questa visione strettamente tecnologica crea grosse e potenti infrastrutture che non possono, però, essere utilizzate per poterne trarre un vantaggio competitivo. È inoltre emerso che ci si focalizza sull’educazione e la consapevolezza di quello che è effettivamente la scienza dei dati e di come le aziende debbano riorganizzarsi per sfruttarne al meglio i vantaggi, cambiando i processi decisionali.

Ciò porta a un’apertura verso una nuova cultura dell’errore: la capacità di fallire velocemente e conseguentemente di recuperare e andare avanti. Nelle aziende nascono piccoli team di lavoro basati sulle problematiche da affrontare con persone che possiedono tutte le competenze, sia di base sia trasversali, per ogni esigenza.

La squadra deve essere in grado di organizzarsi autonomamente, sia in termini di modo di lavorare sia di strumenti da utilizzare, impegnandosi sempre nella condivisione delle informazioni e delle pratiche. Infine, però, si nota un’ambiguità dei ruoli organizzativi: molti collaboratori si sono trovati spaesati nel non avere chiari quali fossero i propri compiti e obiettivi in un processo fluido.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di giugno 2019 di Persone&Conoscenze.
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