Robot, Intelligenza Artificiale e occupabilità: le nuove sfide dell’HR

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“Se siamo convinti che il futuro sarà migliore, il futuro sarà migliore davvero, perché sapremo individuare la strada giusta per arrivarci. La tecnologia non si ferma, sta a noi fare in modo che, anziché fagocitarci, diventi un mezzo per migliorare la qualità del lavoro di tutti, anche di quanti si occupano di risorse umane”. Così Isabella Covili Faggioli, Presidente dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale, ha presentato il 23 ottobre 2018 a Roma il Rapporto Aidp-LabLaw su Robot, Intelligenza artificiale e lavoro in Italia, curato da Doxa.

“Il nuovo fa paura, tutti hanno bisogno di certezze e cercano visioni del futuro che diano un’indicazione sulla rotta da seguire. Questo rapporto ci aiuta, fotografando cosa succede nelle aziende e facendoci capire se l’atteggiamento verso questi temi è positivo o se prevale la preoccupazione”, ha aggiunto, lasciando ai dati la conferma che aziende e lavoratori, soprattutto se hanno già sperimentato la rivoluzione portata dalle nuove tecnologie, vedono il bicchiere mezzo pieno.

sfide HR intelligenza artificiale robot

Persone più favorevoli all’AI e ai robot

Le interviste a un campione di 109 imprenditori e 194 manager hanno restituito un 61% favorevole all’introduzione di sistemi di Intelligenza Artificiale (AI) e robot nelle proprie organizzazioni, a fronte di un 11% contrario e di un 28% che si dice né favorevole né contrario. Nelle aziende che hanno già applicato sistemi di quel tipo (chiamiamole ‘robotizzate’), i favorevoli salgono al 75%, contro il 47% che si riscontra tra quelle non ancora robotizzate, un divario che evidenzia una distonia tra realtà e percezione: chi ancora non conosce bene robot e AI, tende a sovrastimare le conseguenze negative.

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L’atteggiamento favorevole viene giustificato soprattutto con diminuzione della fatica e aumento della sicurezza sul lavoro (93%), aumento di efficienza e produttività (90%), possibilità di introdurre innovazioni un tempo impensabili (85%), sostituzione di attività ripetitive e manuali con attività di concetto (81%) o miglioramento della qualità di prodotti e servizi (79%).

Robot e AI si portano dietro, però, anche cambiamenti profondi: l’89% degli intervistati è convinto non potranno mai sostituire del tutto il lavoro delle persone, ma anche che obbligano a ripensare il sistema formativo (85%) e richiedono nuove leggi (85%), causeranno l’esclusione del mercato del lavoro di chi è meno scolarizzato (80%), anche perché sono adatti soprattutto per le mansioni più ripetitive e meno qualificate (79%).

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Le aziende già robotizzate, dicono di aver voluto soprattutto incrementare efficienza (46%) e produttività (45%), diminuire costi di produzione (40%), così come errori, difetti e reclami (37%), migliorare sicurezza e condizioni di lavoro (30%) e migliorare la qualità di prodotti e servizi (28%). Tra le criticità riscontrate, in cima alla lista ci sono necessità di formazione del personale e upgrade delle competenze (37%), ridefinizione complessiva del modello organizzativo (29%), mancanza di adeguate professionalità nell’organizzazione (27%), resistenza culturale al cambiamento (27%), allungamento dei tempi per essere a regime (26).

L’impatto sul business? “Manager e imprenditori prevedono un aumento del 57% del fatturato”, sottolineano Aidp e Lablaw, e “più delle metà dichiara che sono aumentate nel periodo successivo alla robotizzazione: produttività, qualità dei prodotti/servizi erogati, vendite di nuovi prodotti/servizi e relazioni con i clienti”. Riguardo al tema attualissimo della sostituzione, il rapporto svela che nel 70% delle aziende robotizzate le novità hanno portato alla creazione di nuovi ruoli, come production & quality controller, IT specialist, sistemista o automation manager. Il più delle volte, robot e AI “si integrano e forniscono ausilio al lavoro delle persone” (56%), ma hanno anche sostituito mansioni che prima venivano svolte dai dipendenti (42%), oppure svolgono attività nuove che prima non venivano realizzate (33%).

Imprenditori e manager delle aziende robotizzate tracciano nell’83% dei casi un bilancio positivo dell’impatto dei nuovi sistemi, per il 15% non è né positivo né negativo e appena per il 3% è negativo. E i lavoratori? Da mille interviste condotte dai ricercatori, viene fuori che il 54% è favorevole all’introduzione di robot e AI, con la percentuale che sale al 67% in aziende già robotizzate e scende al 48% nelle altre. Complessivamente, anche il bilancio tracciato dai lavoratori delle aziende robotizzate è positivo (69%), solo il 3% vede un impatto negativo, ma rispetto a manager e imprenditori salgono gli ‘indecisi’, 28%.

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Ciò non toglie che nel 51% del campione, le parole robot e AI suscitano associazioni semantiche negative, come “preoccupazione”, ‘perplessità’, ‘timore’ o ‘incertezza’.  Di fatto, però, sottolineano ancora Aidp e LabLaw, “l’AI e i robot migliorano molti aspetti intrinseci del lavoro dipendente”, perché in parallelo alla loro introduzione le aziende hanno introdotto misure riguardanti: flessibilità in entrata e uscita (38%); riorganizzazione degli spazi di lavoro-uffici (35%); promozione di servizi di benessere e welfare (31%); lavoro a distanza e Smart working (26%); riduzione dell’orario di lavoro (22%).

Curare la propria employability 

“Il rapporto tra uomini e macchine è complicato da almeno tre secoli, oggi anche i professionisti delle Risorse Umane hanno paura che le macchine sostituiscano quello che fanno e come lo fanno, sottraendo umanità. Da tre secoli vediamo, però, che la tecnologia ci aiuta, diminuendo fatica, pericoli e possibilità di errore”, ha commentato Covili Faggioli, invitando a guardare a tutte le opportunità di questi nuovi scenari.

“Credo sia giusto che anche i Direttori del Personale si mettano positivamente in gioco senza perdere mai di vista le necessità delle persone, il loro benessere e quindi il loro ingaggio in azienda. Abbiamo compiti che non potranno mai essere sostituiti dalle macchine, a cominciare dalla comprensione di quali competenze servano davvero al mercato e dal raccordo con le scuole perché formino davvero quelle professionalità”.

Altrettanto fondamentale, sottolinea la presidente Aidp, è l’adeguamento continuo di quelle competenze: “Ogni lavoratore dovrebbe avere a cuore la sua employability, l’unico modo per restare allineato con le aziende indipendentemente dal rapporto di lavoro. Sarà sempre l’HR Manager e non la macchina a capire le attitudini e a non concentrarsi sui punti di debolezza, ma a enfatizzare i punti di forza, anche attraverso la costruzione di percorsi formativi davvero utili all’azienda e al lavoratore”.

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Per Francesco Rotondi, Giuslavorista e Co-founder dello studio legale LabLaw, questi temi permeeranno necessariamente le relazioni industriali. “Non si può più pensare di improntarle solo allo sviluppo e alla tutela del salario, bisogna tutelare la professionalità nel corso del rapporto di lavoro. Al di là di un impianto legislativo più o meno chiuso o volto al passato, la vera sfida del lavoratore è l’occupabilità, cioè poter mantenere, ‘nonostante un posto di lavoro’, la possibilità di cambiare”. Il posto di lavoro potrebbe, insomma, diventare un limite alla possibilità di cambiamento: “Se per troppo tempo non sviluppo all’interno di quel posto una nuova professionalità, rischio di mettermi automaticamente fuori dal mercato”.

Ecco perché il diritto alla formazione continua e l’esigenza di garantirne l’effettività e la gratuità sono per Rotondi e per Luca Failla, l’altro giuslavorista Co-fondatore di LabLaw, il ‘nuovo articolo 18’. “In Francia è legge, in Germania pure, noi speriamo di avere parti sociali all’altezza, perché sicuramente non lo è il Legislatore”, denuncia Rotondi. “Saranno le parti sociali a dover fare in modo che nelle aziende si sviluppi questa garanzia occupazionale. Non è necessariamente collegata al luogo della prestazione, ma è il luogo che mi dà la possibilità di immaginare uno sviluppo anche al di fuori”.

E che dire della possibilità di ritrovarsi controllati in azienda da un’AI? “Credo che segni definitivamente la chiusura di un discorso Otto-Novecentesco sui controlli disciplinari e gerarchici. Il controllo fine a sé stesso non serve a nessuno, ma se è un controllo positivo non mi interessa che a farlo sia un uomo, una macchina o un algoritmo. Il tema vero è che il controllo va governato: i dati rilevati da questo eventuale robot saranno poi comunque gestiti con la straordinaria discrezionalità e intelligenza che l’uomo ogni tanto tira fuori”.

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