Partecipazione, Team work, relazioni tra colleghi

Partecipazione non significa fare parte

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“Per loro sono importanti soprattutto l’amore, la co­municazione, la bellezza e i rapporti interpersona­li. Dedicano molto tempo ad aiutarsi e vezzeggiarsi l’una l’altra. Il loro senso del sé si definisce attraverso i sentimenti e la qualità dei rapporti interpersonali. Si sentono realizzate tramite la partecipazione e la rela­zione”.

Così John Gray descrive, nella sua simpatica e semplificante visione manichea, la vita su Venere. Sulla Stella del Mattino non ci sono mai andato né conosco le Venusiane di persona, però un’idea degli umani me la sono fatta. Noi, in fondo, non siamo tanto differenti dalle Venusiane anche se, nell’intenzione dell’autore, le Venusiane sono le donne.

Noi tutti la­voriamo perché di qualcosa dobbiamo pur vivere. Lo facciamo anche perché ci piace lavorare. Diciamolo a bassa voce, sennò ci chiedono di farlo gratis, anzi ci impongono di pagare per farlo, come successe al Ra­gionier Fantozzi…Mi domando quanto contino i sentimenti e la qualità dei rapporti interpersonali, perché un lavoro ci piaccia veramente. Un lavoro, inteso come essere parte di un’organizzazione, un gruppo, una squadra ci motiva se ci sentiamo di partecipare, se ci sentiamo parte.

È chiaro a prima vista che ‘fare parte’ e ‘sentirsi parte’ non sono la stessa cosa. La filosofia antica e quella me­dievale si sono scervellate nella definizione di “partecipazione”, perché utilizzavano la parola per esprimere la reazione di qualcosa con il tutto, con l’essere. Non è il caso di approfondire le varie teorie, i problemi e le soluzioni che hanno impegnato i pensatori per secoli. Una cosa, tuttavia, mi sembra importante riportare. Alcuni ponevano differenze tra oggetti e modi del partecipare.

Se parliamo di cose concrete –perdonatemi la semplificazione terminologica– ossia di oggetti, non ci sono molti problemi. “Partecipare” significa far parte. Prendo una torta e la divido in parti, poi la distribuisco ai convitati, i partecipanti, appunto. Una fetta di torta fa parte della torta intera e la torta esiste prima di cia­scuna fetta. Ognuno è stato fatto partecipe della torta. Invece, quando iniziamo a chiederci come funzionano le cose con la dimensione affettiva, emotiva, etica e psicologica –mi permetto di aggiungere– facciamo un salto enorme e le cose si complicano subito. È il modo e non l’oggetto che conta.

Torniamo al nostro ospite che distribuisce la torta alla festa di compleanno. Possiamo dire che faccia partecipare i commensali alla gioia per la sua festa o che tutti si sentano di partecipare alla sua gioia? In poche parole, noi facciamo parte di organizzazioni e gruppi, ma come partecipiamo? In che modo la collettività ci fa partecipare e come noi ci sentiamo di essere parte? Penso che il nocciolo della questione stia nella realizzazione di noi stessi, del sé, attraverso la relazione e la partecipazione, come per le Venusiane.

Ma come si può motivare qualcuno a partecipare? Da tempo mi occupo di motivazione. È il mio pallino, per­ché desidero tenere alto il mio livello di motivazione e quello delle persone che incontro al lavoro, e perché, come padre, vorrei motivare i miei figli affinché fosse­ro felici. Purtroppo, sinceramente, non ne sono ancora giunto a capo.

Nonostante ciò, sono propenso a rite­nere che la motivazione sia una forza prevalentemente interna e dinamica. Non siamo perennemente motivati e le organizzazioni possono ‘fare numeri da circo’, ma se non troviamo le risorse dentro di noi, la motivazione non nasce. Però –e penso che sia un importante però– si possono generare condizioni di contesto perché la motivazione possa crescere. Così come si possono in­ventare mille modi per ostacolarne lo sviluppo.

Non voglio parlare in astratto né predicare. Riferisco ciò che fa venir voglia a me di partecipare. È quando riesco a dare un contributo personale, quando non sono un numero, quando sono ascoltato, quando la legge applicata a me riguarda tutti, quando faccio pro­poste di miglioramento che non debbano scavalcare mura burocratiche o di potere, quando ognuno fa il suo dovere e non devo remare il doppio per un compagno di voga che sorseggia Coca Cola. Poi, più di tutto, mi piace essere parte di gruppi aperti, di organizzazioni e società aperte, in cui partecipare non significhi anche escludere.

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