Gig economy, conciliare flessibilità e diritti dei lavoratori

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Di recente si è tornato a parlare di Gig economy, ossia dell’economia dei ‘lavoretti’ a chiamata, come quello svolto dai raider che consegnano cibo a domicilio, nato grazie alla tecnologia, in particolare grazie all’uso delle applicazioni.

Il motivo di questo rinnovato interesse in Italia, dove –è bene ricordarlo – la Gig economy non fa affari d’oro come in altri Paesi, è la sentenza del Tribunale del Lavoro di Torino in merito al ricorso di sei fattorini di Foodora che hanno sostenuto di essere stati licenziati ingiustamente. Il Tribunale ha respinto le accuse dei raider perché sono dei lavoratori autonomi e, in quanto tali, l’azienda può decidere in qualsiasi momento di non avvalersi più della loro collaborazione.

Al di là della cronaca (che non si esaurisce qui visto che i raider hanno dichiarato di voler procedere in appello) la Gig economy continua a far discutere. Anche se in realtà se ne parla già da diverso tempo. Persone&Conoscenze ne aveva parlato a inizio 2017, quando ha dedicato la Storia di copertina del numero 118 proprio al rapporto tra la Direzione del Personale e l’economia dei lavoretti, raccogliendo il parere di alcuni Direttori del Personale che proponevano soluzioni per trovare una ‘terza via’ tra la flessibilità richiesta dal mercato e i diritti dei lavoratori.

Economia on demand: tutti felici, ma chi ci rimette sono i lavoratori

Nata negli Usa, la Gig economy si è rapidamente diffusa in tutto il mondo, Italia compresa. E il modello di business ha incontrato da una parte l’apprezzamento dei consumatori, che pos­sono godere di servizi a prezzi convenienti e dall’altra le profonde trasformazioni di cui è stato oggetto negli ultimi anni il mercato del terziario offline.

“Per esempio nel settore della ristorazione oggi per i lavoratori avere più di un’occupazione è molto frequente”, spiega Daniele Marotta, Direttore Risorse Umane e Organizzazio­ne di Cigierre, compagnia specializzata nello sviluppo e nella gestione di ristoranti tematici multietnici, che poi precisa: “Colpa del sistema-aziende che è cambiato radicalmente nell’ulti­mo periodo per rispondere alle esigenze della clientela. Basti dire che il 75% del nostro fatturato viene realizzato durante i weekend. Lo stesso vale per la GDO e per i cinema. Questo ci porta ad avere un organico base limitato che raddoppia durante i fine settimana. Significa che la mag­gior parte dei lavoratori è costretta a trovarsi altre occupazioni per arrivare alle 40 ore settima­nali o comunque per raggiungere uno stipendio che consenta loro di vivere dignitosamente”.

Così il nuovo modo di consumare ha scardinato le vecchie regole del mercato e anche quelle del lavoro, proiettandoci, apparentemente, indietro nel tempo, quando le tutele per i lavoratori erano una chimera.

Nuovi ‘servi della gleba’?

Le aziende oggi sono costrette a cambiare pelle velocemente per stare la passo con l’evoluzio­ne dei mercati. Questo significa rivedere gli obiettivi frequentemente e, di conseguenza, anche l’organiz­zazione. Il che richiede molta flessibilità e lavoratori versatili disposti ad apprendere nuove competenze per ricoprire nuove mansioni. Dentro e fuori l’azienda”, fa notare Igor Muzzolini, Direttore Risorse Umane di Miko, azienda che produce Dinamica®, la prima microfibra ecologica.

Secondo gli esperti, quello che stiamo vivendo ora sul mercato del lavoro è un periodo di profondo cambia­mento legato alla globalizzazione che porta a muta­menti continui, spesso difficili da prevedere. All’estero, dove la Gig economy è ormai consolidata, la discussione attorno alla necessità di trovare nuove forme contrattuali per i lavoratori del settore è accesa da tempo. In Usa, per esempio, ci sono state diver­se cause legali per capire se questi lavoratori possono essere considerati subordinati e non autonomi.

E in Italia? “Si potrebbe pensare a un nuovo contratto per il settore dei servizi on demand che preveda la massima flessibi­lità. Già in passato, infatti, la nascita di nuovi comparti produttivi ha visto poi la creazione di contratti collet­tivi di lavoro ad hoc”, suggerisce Muzzolini. “Qua­rant’anni fa, per esempio, non esisteva il contratto col­lettivo di lavoro per i servizi legati allo smaltimento dei rifiuti, oggi invece c’è. Per cui uno sviluppo naturale potrebbe essere quello di un contratto collettivo di ri­ferimento per una categoria di lavoratori flessibili, ma non precari. Un tempo la vecchia legge Biagi prevede­va forme flessibili di contrattualizzazione come lo job sharing, che a mio parere potrebbe essere una buona base di partenza per un contratto di lavoro in grado di inquadrare i lavoratori on demand”.

E Marotta, incal­za: “A dire il vero in Italia un contratto per inquadrare questo tipo di lavoratori e dare loro maggiori tutele e una retribuzione corretta esiste già e si chiama Lavoro a chiamata. Si tratta di un contratto che si può attivare qualora si presenti la necessità di utilizzare un lavora­tore per prestazioni con una frequenza non predeter­minabile, permettendo al datore di lavoro di servirsi dell’attività del lavoratore, chiamandolo all’occorren­za.

Sono spesso assunti con questa tipologia contrat­tuale, oltre agli addetti della ristorazione, i lavoratori dello spettacolo, gli addetti al centralino, i guardiani, i receptionist. La disciplina normativa è contenuta nel Decreto legislativo di riordino delle tipologie contrat­tuali (D.l. 81/2015)”. Una formula corretta? “A mio avviso sì, perché dà alla risorsa le stesse tutele del la­voro dipendente riproporzionate per le ore lavorate”, argomenta il manager.

“Certo, dal punto di vista del lavoratore rimane il problema di un limitato impiego lavorativo, ma almeno dal punto di vista economico il trattamento è equo: la retribuzione è quella del con­tratto nazionale del settore di riferimento riproporzio­nata però per le ore effettivamente lavorate. Esistono due formule di questo contratto: una con obbligo di risposta e una senza obbligo. La facilità di incontro tra domanda e offerta porta la maggior parte delle aziende a usare la seconda soluzione che consente di non paga­re l’indennità di disponibilità”. Quindi, dal punto di vista della precarietà il problema resta perché quando una risorsa non viene chiamata resta disoccupata.

Il ruolo delle imprese e degli HR Manager

Per risolvere la questione ci vorrebbero una serie di condizioni a partire da una maggiore responsabilità da parte delle imprese, non sempre disposte a inquadra­re nel modo corretto le persone e ancora troppo spesso sbilanciate verso il risparmio sul costo della manodo­pera che le porta a ricorrere frequentemente alle scap­patoie che offre loro il mercato: basta vedere cosa sta succedendo con i voucher per rendersene conto.

E qui entra in gioco anche il ruolo e l’etica dell’HR Manager. “Lavoriamo con il futuro e con le vite delle persone e delle loro famiglie, per questo è importante esse­re sinceri, schietti e trasparenti in fase di colloquio”, dice Marotta. “Non bisogna camuffare una proposta per un’altra. Questo significa informare chiaramente i candidati sull’opportunità lavorativa e permettere loro di valutare se questa è accettabile o meno. E poi l’HR Manager deve fare il possibile per essere consulente della società per cui lavora, consigliare per il meglio la proprietà in base al budget a disposizione. Personal­mente ho fatto parecchie battaglie per fare in modo che non venissero mai superati i limiti imposti dalla nor­mativa. Far tornare i conti è uno dei nostri compiti, ma questo non significa giocare sulla vita delle persone”.

Anche l’HR manager, d’altra parte, è un dipendente come tutti gli altri: “Si trova in una posizione molto delicata”, aggiunge Muzzolini. “Intermediare costa fatica e i risultati non sono mai certi perché molto dipende dalla organizzazione aziendale. In una piccola società il Diret­tore delle Risorse Umane è abbastanza autonomo, ma in una multinazionale la sua libertà di azione è limitata e poi dipende dal clima aziendale e dai sindacati. Certo è che a noi spetta trovare soluzioni per fare stare in piedi il business aziendale nel rispetto delle persone”.

La necessità di un mercato del lavoro dinamico

Ma per risolvere il problema della precarietà e della flessibilità del lavoro ci vorrebbe anche un mercato più dinamico, “capace di fare incontrare in modo più proficuo e velocemente domanda e offerta”: “Significa essere in grado di fare matching tra lavori complemen­tari”, sottolinea Marotta. “Per esempio far lavorare un cameriere durante la settimana negli alberghi per ser­vire le colazioni oppure nelle mense e il weekend nei ristoranti. I settori vanno trattati in maniera verticale non orizzontali”.

Per fare questo ci vogliono politiche statali mirate e precise come fa notare anche Muzzoli­ni. “Basterebbe guardare a ciò che avviene all’estero e prendere esempio”, dice l’HR Manager di Miko. “In Danimarca, per esempio, se un lavoratore perde il suo posto di lavoro c’è un sistema di riqualificazione che si prende cura di lui, lo segue, lo riforma su misura delle reali esigenze del mercato del lavoro. Una riqualifi­cazione continua e retribuita”.

In pratica quello a cui aspira il sistema di politiche attive per il reinserimento del singolo disoccupato nel mercato del lavoro prevista dal Jobs Act con il nuovo “assegno di ricollocazione” che affianca l’interessato nella ricerca di una concreta e adeguata offerta di lavoro tramite un Centro per l’im­piego o una agenzia accreditata. Funzionerà? Troppo presto per dirlo.

Il tema della Gig economy è stato trattato sulla Storia di copertina del numero 118 di Persone&Conoscenze.
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