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Editoriale – di Francesco Varanini –

Ci sono frasi che girano nell’aria, e che si ascoltano e riascoltano in contesti differenti. Frasi che in qualche modo sono segni del tempo che si sta vivendo.
Sento dire di questi tempi: “adesso distruggiamo, poi ci occuperemo di costruire”. Più o meno con queste parole qualcuno affronta la situazione politica che sta vivendo il nostro paese. Ma più interessante per me è notare che la stessa frase la si ascolta in aziende che stanno vivendo fasi di cambiamento duro e spiacevole.
Si devono fare operazioni di downsizing, di spending review, di outplacement. Uso consapevolmente le espressioni inglesi per ricordare come le parole tecniche, dette in inglese, finiscano per essere eufemismi. Non si dice ‘dismissione di attività’, ‘tagli’, ‘licenziamenti’, non si dice ‘chiudere’ o ‘tagliare’. L’espressione propria e abituale, quella che si usa nelle sane conversazioni alla macchinetta del caffè, è sostituita dall’espressione tecnica detta in inglese. Il significato ne risulta attenuato.
Così, usando certe parole invece di altre, si nasconde il disagio, la consapevolezza di non riuscire a dire le cose come stanno, e il timore di non saper affrontare le situazioni, per difficili che siano, con atteggiamento costruttivo e orientato al futuro.
Allo stesso modo –sempre, credo, per il timore di non saper affrontare la situazione– si finisce per dire “adesso distruggiamo, poi ci occuperemo di costruire”. È un atteggiamento del tutto comprensibile. Le azioni orientate allo smontare, al ridurre, al tagliare, appaiono del tutto diverse dalle azioni necessarie per costruire qualcosa di nuovo e di durevole. Gli atteggiamenti utili a rapidamente distruggere ci appaiono opposti agli atteggiamenti necessari per creare. Sappiamo quanto è difficile e oneroso distruggere: non distruggiamo solo gli altri, il mondo circostante, stiamo sempre anche distruggendo –anche se cerchiamo di non pensarci– qualcosa di noi stessi. E allora, se non altro per autodifesa, cerchiamo di concentrarci sul compito, non pensando troppo al contesto, non pensando a cosa accadrà dopo.
Eppure, non si vive di sola distruzione. Non si vive di sola ‘terra bruciata’. Dopo aver smantellato il tessuto produttivo italiano, vivremo in un deserto. È questo che vogliamo? Mi pare significativo il fatto che oggi –nel nostro paese, nelle nostre aziende– si parli più di downsizing e di spending review che di cambiamento: cambiare significa ‘sostituire qualcosa con qualcos’altro’. Non basta tagliare.
Schumpeter, l’economista che meglio seppe definire l’imprenditorialità, parlava di ‘perenne bufera di distruzione creativa’. Questo atteggiamento non riguarda solo l’imprenditore, ma ogni manager e ogni lavoratore. Come ci ricorda il sottotitolo che trovate in copertina sotto la testata della nostra rivista, ognuno di noi è chiamato a investire su se stesso, quindi, non solo a distruggere ma anche a costruire.
Credo che una delle principali responsabilità del manager consista proprio in questo: mantenere all’interno dell’organizzazione un atteggiamento costruttivo, anche nei duri tempi in cui si deve tagliare e ridurre. Proprio in questi momenti le persone che lavorano in azienda hanno bisogno di parole chiare, ma anche, nella misura del possibile, confortanti.
E comunque, anche nelle condizioni più difficili si può e si deve cercare di guardare al domani, a cosa servirà fare dopo. E siccome dopo dovremo farlo, tanto vale pensarci fin d’ora. Tanto vale pensare a costruire, anche mentre si sta distruggendo. Proprio perché pensando solo alla distruzione distruggiamo anche noi stessi, dovremmo, potremmo avere sempre anche in mente la costruzione.
Ma posso aggiungere anche questo: i manager che sento dire ‘ora distruggiamo, a costruire ci penseremo dopo’ non stanno bene. Si tratta, credo, di accettare un doppio peso. È già pesante il lavoro consistente nel tagliare e nel licenziare. Ed è pesante, mentre si lavora a tutto questo, pensare a costruire. Eppure, possiamo dire che un peso allevia l’altro. Se abbiamo in mente anche la costruzione, la distruzione ci apparirà meno pesante.
Credo dunque che dobbiamo aiutarci a vicenda nel mantenere vivo l’atteggiamento costruttivo. Trovo che nel mio lavoro di formatore e consulente, sostenere i manager nel far sì che possano mantenere vivo un atteggiamento costruttivo e speranzoso sia l’azione più importante, più necessaria. Spero anche che sia utile per quanto anche la nostra rivista, così come gli incontri di Risorse Umane & non Umane.
È necessario ricordare sempre che distruzione e costruzione sono due facce della stessa medaglia. Leggi tutto >

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Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Il bello sembra avere spazio nel mondo dell’impresa solo se riferito al design dei prodotti, o in rari casi all’architettura dei luoghi. Lo star bene, alla luce del taylorismo e del fordismo, è ridotto a ergonomia, studio delle posizioni del corpo più consone alla produttività. L’idea di bene comune è subordinata al primato del profitto. La complessiva idea del bene appare solo nel concetto di benessere, welfare, un compito che si intende dovuto allo Stato molto più che all’impresa. Possiamo pensare a buon prodotto o buon processo. Ma l’utilitarismo, l’orientamento alla soddisfazione dei bisogni, ci appaiono in contrasto con la bontà. Eppure non si può pensare all’agire e al produrre, al lavorare senza tener conto del bello, del bene e del buono. Che –come ci mostra il latino– risalgono a una stessa, basilare idea. Su un vasetto di terracotta, risalente probabilmente al VII secolo avanti Cristo, trovato nel 1880 nei pressi del Quirinale si legge: “duenos me fecit”. Si credette inizialmente che Duenos fosse il nome dell’artigiano, ma oggi si preferisce interpretare: “bonus me fecit”, “mi ha fabbricato una persona buona”. Duenos è infatti una versione arcaica del latino bonus. Il diminutivo di duenos è duenolus. Da qui il latino bellus: come dire –citando il titolo del racconto di Raymond Carver, che parla proprio del lavoro come estremo punto di incontro tra etica ed estetica– A Small Good Thing,‘cose piccole ma buone’. Bene è un avverbio. Ci parla del modo di agire, e rafforza il concetto allargandolo a campi differenti: bene vivere; bene mori ‘morire bene’; bene velle: ‘voler bene’, ma anche benevolentia; bene dicere: ‘benedizione’, e quindi anche ‘lavoro come benedizione’; bene facere: ‘beneficenza’, ‘benefattore’, e quindi ‘cura’ nel lavoro, ‘cura’ del proprio lavoro. Sallustio aggiunge senso parlandoci di bene consulendo: “vigilando, agendo, bene consulendo prospera omnia cedunt”. Il consiglio è il luogo dove si prendono decisioni; lo scambio di consigli, il parere del consulente fanno sì che tutto fruttuosamente proceda. Per questa via ci avviciniamo al buongoverno. La bontà è la statura morale che distingue un uomo dall’altro. L’artigiano è consapevole di come il buon manufatto sia conseguenza di un complessivo atteggiamento, che possiamo ben chiamare bontà. Dalla persona – “duenos me fecit” – la bontà si trasferisce all’opera, al processo. Il senso originario sta nella d, radice indeuropea da cui anche il sanscrito duvas: ‘onore’, ‘rispetto’, ‘culto’. Il suffisso -eno- indica il participio. E dunque duenus, bonus, buono significano: ‘dotato di doni e di virtù’. Leggi tutto >

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Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Siamo HR Specialist. Siamo ormai abituati alla sigla HR, sintesi dell’inglese Human Resource.
Spero che giocando con le parole, dicendo quindi: ‘Risorse Umane e non Umane’ –come facciamo con il titolo degli eventi che questa rivista organizza– si sia stimolati a ragionare sul senso.
Concordo in ogni caso con chi sostiene che avremmo molti motivi per rivalutare l’espressione Direzione del Personale. Per fare un passo in avanti, si potrebbe però forse fare ancora un passo indietro, tornando a dire, come si faceva negli Anni Cinquanta del secolo scorso, Ufficio del Personale.
I due esemplari luoghi di lavoro, l’ufficio e l’officina, sono in origine lo stesso luogo. Dietro sta la radice op, che esprime l’idea del ‘lavorare con le proprie mani’. Di qui opus, ‘opera’. Il lavoro è ‘fare l’opera’.
Il latino officina, contrazione di un precedente opificina, discende da opifex, ‘colui che fa l’opera’,‘operaio’, ‘artigiano’. L’espressione officium ha la stessa origine, ma passa presto dal designare il ‘luogo del lavoro’ al significare il ‘senso del lavoro’. Impleo officium: ‘compiere il proprio dovere’. Officio fungor: ‘fare il proprio dovere’. E dunque: funzione, carica, servizio, compito, impegno. Dovere, in senso filosofico e morale, ma anche politico, sociale, ed anche religioso: l’ufficio è ‘funzione liturgica’; si celebrano gli ‘uffici divini’.
Il significato del lavoro contribuisce a ricordarci che l’ufficio è una cosa seria, che non possiamo prendere alla leggera. Per questa via arriviamo al significato profondo del ‘lavorare al Personale’, significato che svanisce se ci contentiamo di essere ‘HR specialist’.
C’è in gioco uno speciale obbligo morale legato alla funzione esercitata. Nell’idea dell’officium, più che nell’idea della direzione, sta forse il senso profondo del compito “arduo, spesso incompreso” –sono parole di Adriano Olivetti– che il Direttore del Personale è chiamata ad assolvere: creare le condizioni perché ognuno possa lavorare nel modo più fruttuoso, ma anche più dignitoso Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

La ferrea indifferenza dell’azienda verso i propri collaboratori ricorda quella della signora Fermina Daza nel celebre romanzo di Marquez. Ricordate? Dovranno trascorrere “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese” prima che ella conceda il suo amore a Florentino Ariza. Se consideriamo che il loro primo incontro possa essere avvenuto in adolescenza, probabilmente intorno ai 14 anni, l’età in cui il malinconico Florentino corona il suo sogno raggiunge i fatidici 67 anni del nuovo requisito pensionistico. Troppo tardi. Quando nasce in azienda l’amore verso le proprie persone? La realtà sembra condannare il rapporto di lavoro a lunghi anni di indifferenza, in cui né l’individuo né l’organizzazione riescono a compiere un passo l’uno in direzione dell’altro. Nel racconto di Marquez l’ambita e impassibile Fermina sposa un altro, un uomo di potere, compiendo una scelta basata su di un calcolo di convenienza, salvo poi pentirsene quando ormai il tempo è finito. In tante imprese –con l’eccezione forse delle Pmi in cui l’imprenditore ha un volto e una voce e i rapporti con i suoi collaboratori sono di profonda conoscenza interpersonale– il feeling non c’è. L’amore di questi collaboratori verso l’azienda non è corrisposto quando i criteri di gestione non sono chiari né compresi, quando la comunicazione esclude l’ascolto, quando lo sviluppo delle persone è estraneo agli obiettivi dei capi e gli Mbo li schiacciano unicamente a perseguire la logica della soddisfazione dell’azionista, quando la caccia ai costi diventa l’unica ossessiva filosofia di gestione e il valore del lavoro diventa costo. I tempi della crisi, nella più devastante depressione dal dopoguerra che ha investito l’Occidente, sono come i tempi del colera: la mortalità delle aziende è epidemica, e con essa quella del lavoro. Chi riesce a sopravvivere deve vaccinarsi per evitare il contagio. Nel clima del ‘si salvi chi può’ la tentazione di mollare e dismettere è forte. Chi resiste cade spesso nell’errore fatale di smantellare tutto ciò che non è ritenuto direttamente produttivo, nell’illusione che guidare un’impresa sia come pilotare una mongolfiera in cui basti liberarsi della zavorra per riprendere quota. È così che ai nostri tempi le relazioni con le Università, le scuole, il territorio, i centri di ricerca, la cura del knowledge management, le corporate university e le faculty interne, gli stage, le borse di studio e altro ancora, vengono buttati via come ciarpame che fa solo peso. Anche nelle migliori aziende, quelle riconosciute come ‘best innovator’ o ‘Top employer’ da ambìti premi internazionali, quelle operanti sulla frontiera delle tecnologie nei settori più avanzati, come ad esempio l’Elettronica, lo Spazio, l’Automazione, l’Ingegneria dei sistemi, l’Amministratore Delegato avveduto come prima azione tira la leva della riduzione del personale e del blocco di ogni ragionevole turnover, poi cancella per decreto tutto ciò che attiene all’employer branding, ignorando quanto sia costato costruirlo, e quanto alto per l’impresa è il costo della perdita di reputazione e di identità collettiva. A far questo son buoni tutti, non occorre essere grandi manager, ma come davanti all’argomento del ‘rischio default’ tutto appare coerente, giustificato e necessario. È constatazione comune quanto profondo sia da alcuni anni il taglio dei budget della formazione all’interno delle aziende, col paradosso di una aumentata disponibilità dei fondi europei e interprofessionali cui corrisponde una riduzione drastica delle attività, se non una vera e propria renitenza alla partecipazione dei dipendenti alla formazione benché finanziata, ma percepita come dispersione produttiva, costo immediato a fronte di un ritorno incerto in un futuro improbabile. Il punto è che anche la formazione dev’essere messa in discussione nelle sue modalità e nei suoi rituali. Ai tempi del colera occorre vaccinarsi e creare un cordone sanitario. La via può essere quella di fare della formazione la pratica per costruire un ‘patto sul futuro’, e rimettere al cuore dell’impresa la motivazione all’autosviluppo. Non più una formazione a sportello, usa e getta, basata su pianificazioni top-down e analisi dei bisogni condotte con salottiere interviste ai top manager, ma una leva che identifichi le competenze distintive e di trend dell’impresa, e faciliti sull’umile campo del day by day lo sviluppo di comunità di pratica tra gli attori delle diverse famiglie professionali. Saranno essi a progettare la formazione che serve per trainare l’uscita dal guado. Leggi tutto >

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