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L’ascolto

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 Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Vale la pena di tornare alla Leggenda del Grande Inquisitore, breve, illuminante narrazione incastonata nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij.
Per parlare al fratello minore Alesa di potere, coscienza e libertà, Ivan Karamazov racconta questa storia.
In una fosca Spagna del 1500, a Siviglia, “i corpi degli eretici –cento in quel solo giorno– ardono sulle piazze infuocate”, “sotto gli occhi della folla strabocchevole e prostrata”. Il cardinale, il Grande Inquisitore, ammantato della sua autorità, domina la scena. Ma “compare in sordina, senza che nessuno sappia dire come e da dove” Lui, Gesù.
Il Grande Inquisitore lo fa arrestare, lo sbatte in carcere. Nella notte, va a trovarlo nella cella buia, e lo aggredisce.
Cosa sei tornato a fare? Con la tua presenza, danneggi il nostro lavoro. “Noi abbiamo preso la spada di Cesare, ce ne siamo fatti carico”.“Noi abbiamo corretto la Tua opera, dandole basi solide: il mistero, appunto, il mistero, il miracolo e l’autorità. E gli uomini naturalmente ci sono grati, perché appunto volevano tornare a essere considerati un gregge, guidati e spinti come un gregge, senza più l’enorme peso della libertà a schiacciare il cuore di ognuno”. Il Cristo resta in silenzio. Il Grande Inquisitore espone febbrilmente le proprie ragioni. I roghi degli eretici sono un male necessario.
Una efficace pedagogia.
Gli uomini, i membri del gregge, “alla fin fine saranno i più fedeli e i più obbedienti. Sapranno apprezzare fino in fondo la nostra capacità di rispondere ai loro bisogni, ci tratteranno come dei, proprio perché noi li guideremo, liberandoli dal peso per loro insopportabile della libertà…”. I leader trovano così giustificazione per ogni loro azione: le persone “hanno tanta paura della libertà; la libertà diventerà la cosa più tremenda per loro, e noi li libereremo dalla libertà mettendoli sotto la nostra protezione!”. Giustificandosi con il sacro obiettivo di ‘fare del bene’, il leader può essere terribilmente crudele. In nome del ‘bene comune’, del complessivo vantaggio dell’organismo sociale, può violentare l’individuo, negandogli la soddisfazione di bisogni e desideri
Trasformando la fiducia in timore; la volontaria sudditanza rispetto a una legge superiore in dipendenza psicologica e materiale. Si sa come si conclude la narrazione di Dostoevskij. Lui, il Cristo, ascolta l’invettiva del Grande Inquisitore senza aprire bocca. Resta in silenzio, ascolta. “Poi gli si avvicina, ancora in silenzio, e lo bacia dolcemente”. Leggi tutto >

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 Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Quale è la guida adeguata per una associazione?
Tre parole ci aiutano a riflettere.
La visione è un carisma, un ‘dono divino’, il frutto di uno stato di grazia. È illuminazione, schiudersi improvviso della mente alla conoscenza del vero.
Tutto risale alla radice indoeuropea weid-. Da cui il sanscrito veda: ‘io so’, ‘scienza’, ‘conoscenza’. E in greco eidos, ‘apparenza’; eidôlon (da cui idolo), ‘immagine’; idea, ‘aspetto’; e historia, ‘informazione’.
Da weid- anche il latino videre: ‘percepire con gli occhi’. La concezione vedica del sapere –la partecipazione a una verità cosmica– è riletta all’interno della nostra cultura come esperienza concreta realizzata tramite il senso della vista.
Eppure videre non perde mai del tutto il suo significato di ‘illuminazione’. Visione infatti è già in latino una voce dotta, propria della lingua filosofica, creata a partire da videre per rendere il greco phantasía –che discende dalla radice indoeuropea bha–: ‘luce’, ‘illuminazione’.
Il verbo phánein sta per ‘mostrare’, ‘rendere palese, visibile’. Da qui epifania: ‘festa dell’apparizione’; e phántasma: l’‘immagine che appare’. Dunque: ‘vedere’, ma spingendosi oltre i limiti di ciò che può essere chiaramente visto.
Per questo, più che la ragione serve la saggezza. Da weid- deriva infatti anche wisdom. Altra radice indoeuropea di grande respiro è swer-: ‘vedere’, ‘guardare’, ‘conservare’. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Da swer- deriva il sanscrito varutá, ‘protettore’; il greco horán (‘vedere’); così come il latino observare: ‘ob’ (verso) – ‘servare’, con la duplice accezione di ‘fare attenzione’, ‘adempiere’, e di ‘non togliere mai gli occhi di dosso’. Da swer-, ancora, l’italiano garanzia, e l’inglese warrant. Alla luce della radice swer-, il servizio ci appare manifestazione di apertura e di rispetto per l’altro. Ben lo dimostrano due parole latine legate alla stessa origine: verecundus (appunto, ‘rispettoso’) e reverendus (‘venerabile’).
La radice indoeuropea aug– ci parla invece del ‘far crescere’. Di qui in latino auxilium: termine tecnico militare per ‘accrescimento di forze’, ‘rinforzo’. E augure: chi dà presagi favorevoli, annunciando l’accrescimento di un’associazione o impresa. E augustus: è ‘augusta’ l’associazione o impresa segnata da presagi favorevoli. Un’ulteriore accezione è più importante per noi: è ‘augusto’, ‘accresciuto’, chi sa amarsi, aver cura di sé. L’auctor è ‘colui che attesta, che ‘si fa garante’. L’auctoritas non è necessariamente un attributo individuale.
Può ben riguardare una organizzazione, un gruppo, una intera società: ricordiamo l’‘auctoritas populi Romani’.
Se guardiamo all’associazione come luogo di pari, allora autorevole è ‘chi si fa ‘promotore di una crescita’. Leggi tutto >

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Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Nell’Editoriale mi pongo una domanda: compete o no al manager preoccuparsi del benessere dei lavoratori?
E poi, questo numero, come avrete visto, contiene una parte speciale dedicata al benessere – osservato da un altro punto di vista. Nello stile di questa rubrica, guardiamo alle parole che definiscono il concetto.
Il bello sembra avere spazio nel mondo dell’impresa solo se riferito al design dei prodotti, o in rari casi all’architettura dei luoghi. Lo star bene, alla luce del taylorismo e del fordismo, è ridotto a ergonomia, studio delle posizioni del corpo più consone alla produttività. L’idea di bene comune è subordinata al primato del profitto. La complessiva idea del bene appare solo nel concetto di benessere, welfare. Possiamo pensare a buon prodotto o buon processo.
Ma l’utilitarismo, l’orientamento alla soddisfazione dei bisogni, ci appaiono in contrasto con la bontà. Eppure non si può pensare all’agire e al produrre, al lavorare senza tener conto del bello, del bene e del buono. Che –come ci mostra il latino– risalgono a una stessa, basilare idea. Bello: ‘carino’, diminutivo di buono. Bene: ‘in modo buono’. Buono: secondo l’etimo: ‘fornito di doni o virtù’.
Guardiamo ora all’inglese. Dalla stessa radice wel- wol-, il latino volgare volere, e in inglese will ‘to wish, desire, want’, e well, ‘in a satisfactory manner’. Di qui l’antico inglese wel faran. Faran: ‘progredire’, ‘andare avanti’, ‘viaggiare’. Ne resta traccia in wayfarer, ‘viandante’, seafarer, ‘marinaio’. E in fare: il verbo per ‘viaggiare’, e ‘vitto del viaggiatore’, ‘payment for passage’.Un’idea di spedizione, compagni di viaggio, bagaglio, provvista di cibo. Wel faran, welfare è dunque in origine il ‘buon viaggio’. All’inizio del Ventesimo Secolo, in Gran Bretagna, nel clima di quel peculiare approccio al socialismo cooperativista che fu la Fabian Society, si inizia a parlare di welfare nel senso di social concern, preoccupazione, assistenza, attenzione rivolta al benessere dei lavoratori: “welfare of workers children”. Welfare manager, ‘a preson engaged in looking after the welfare of people working in factories’.
Poi la crisi degli anni ’30, con la disoccupazione, porta il welfare fuori dai luoghi di produzione. All’inizio del 1939, Anthony Eden, uomo politico tra i primi a comprendere le conseguenze della guerra, afferma in Parlamento la necessità di “revolutionary changes in the economic and social life of the country”. Si afferma così l’idea di Welfare State. A coniare il termine è stato forse Alfred Zimmern, storico e political scientist. A scriverne per primo fu però William Temple, predicatore e insegnante, vescovo. “We have seen that in place of the conception of the Power State we are led to that of the Welfare-State” (Citizen and Churchman, 1941).
Il Welfare appare così come l’insieme dei servizi che la società, attraverso lo Stato, è tenuta a fornire ad anziani, poveri, malati, disabili, inabili al lavoro, disoccupati. Previdenza, sanità, istruzione, edilizia popolare, programmi di lavori pubblici. C’è certamente un legame tra questo e le politiche economiche sostenute da John Maynard Keynes – piena occupazione, aumento della spesa pubblica, sostegno della domanda. Ma il Welfare britannico deve molto di più alle proposte di William Henry Beveridge, il cui rapporto Social Insurance and Allied Services del 1942 rappresenta un punto di svolta, e l’origine del laburismo. In quello stesso dopoguerra, Welfare State si afferma come termine più adatto a definire, a ritroso, le politiche adottate in paesi diversi per far fronte alla crisi degli anni ’30. Caso esemplare, il New Deal di Roosevelt. Leggi tutto >

Blog

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Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Sappiamo che il nodo è la misura della velocità di un’imbarcazione.
Dal ponte si faceva scorrere in acqua una corda, con un certo numero di nodi posti a distanza costante –47 piedi e 33 pollici, cioè circa 16 metri– l’uno dall’altro.
Per tenere la corda tesa, all’estremità filata in mare era fissato un pezzo di legno, detto in inglese, già tra il 1200 e il 1400, log. Il cavo veniva fatto scorrere per 28 secondi, dopodiché si contavano i nodi finiti in acqua, che indicavano la velocità in miglia/ora.
Log è dunque ancora oggi il nome tecnico con cui si denominano i contamiglia marini. Da log, che allarga il senso a ‘registrazione’, ‘annotazione’, logbook, ‘libro di bordo’, libro nel quale vengono registrate giorno dopo giorno velocità, distanza percorsa, posizione della nave.
Di qui, anche al di fuori del lessico marinaresco, logbook nel senso di “a compilation of the known facts regarding something or someone”. Giungiamo così attorno alla metà degli anni ’90 del secolo scorso: si afferma l’abitudine a tenere sul World Wide Web una sorta di diario in pubblico.
Per questo si sviluppano apposite piattaforme, destinate appunto a permettere –anche a persone poco avvezze alla tecnologia– di tenere un ‘journal’ dove si potessero pubblicare quotidianamente “entries about their personal experiences and hobbies”. Una denominazione precisa sarebbe stata: weblogbook. Ma la parola è subito contratta in weblog, e quindi in blog. Raccontata la storia della parola, possiamo notare come ci sia una bella differenza tra ‘tenere un blog’ e registrare invece le proprie annotazioni in un luogo già costruito, che tutto prevede e incasella, come è Facebook.
Mentre tenendo un blog ci assumiamo la responsabilità di contribuire, in modo personale, ad una rete di narrazioni e di conoscenze, usando Facebook limitiamo la nostra creatività, la nostra capacità di costruire storie e discorsi. La limitiamo accettando di usare strumenti e spazi già definiti.
Le differenze sono enormi.
Il blog è uno spazio di libertà, il mio sguardo sul mondo, il nodo di una rete di spazi di libertà. Facebook, invece, ci chiude in un mondo-giocattolo, dove tutti siamo ridotti alla misera apparente, falsa libertà della quale poteva godere il povero Truman Burbank chiuso nel suo universo di cartapesta, come nel film Truman Show. Una rivista su carta ha tanti pregi, ma anche inevitabili limiti. Impone vincoli di lunghezza ai testi, colloca i testi in un’unica sequenza, impedisce l’interattività.
Mentre Facebook, con i suoi vincoli, ripropone in fondo, in un diverso contesto tecnologico, i limiti della rivista su carta, il blog si presenta come un completamento della rivista, una prosecuzione oltre i suoi confini. Così, andando lungo una strada iniziata dalla rubrica Dirigenti disperate, che da anni appare sulla nostra rivista, il blog Dirigenti disperate (dirigentidisperate.it) di Chiara Lupi va oltre. Leggi tutto >

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