Tag: dietro le parole

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di Francesco Varanini

Si dice comunemente, ‘lavorare per tentativi ed errori’. Forse è questa l’essenza del miglioramento continuo. È giusto considerare il rispetto delle procedure −oggi si tende a dire spesso policy− come il requisito minimo necessario per il buon funzionamento organizzativo. Ma questo non basta. Qualsiasi procedura è la risposta a esigenze organizzative che si sono manifestate nel passato. È sano supporre che la situazione che stiamo vivendo qui e ora sia differente da quella che aveva motivato la definizione di quella procedura. In ogni caso dovremmo sempre chiederci, anche di fronde a una modalità di azione che si rivela efficace: non c’è forse, alla nostra portata, una modalità d’azione ancora più efficace? Leggi tutto >

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Editoriale – di Francesco Varanini

Parlavo la settimana scorsa con un’amica. Per decenni nella direzione del personale di una grande azienda, grande lavoratrice, amante del proprio lavoro, ha occupato sempre posti laterali, di supporto: assistente, redattrice di report, amministrazione del personale. Rimpiange forse ora di non aver saputo, o voluto, ‘fare carriera’. I suoi ricordi ripercorrono situazioni note: i soliti discorsi dei capi, maschilisti, implicitamente aggressivi; l’incapacità di andare d’accordo con altre donne più ‘in carriera’. Ma l’aspetto più triste e notevole, della narrazione, è il ripercorrere i passi di una caduta.
Negli Anni Ottanta quell’azienda −e quindi la sua direzione al personale− era un fiore all’occhiello del sistema industriale e culturale del nostro Paese. C’erano manager di stile diverso. Ma comunque, attraversando una gamma ricca e diversificata, si passava da dirigenti provenienti dalla scuola del marketing del largo consumo a dirigenti di solida formazione filosofica. Nonostante il peso non indifferente delle lobby e delle raccomandazioni, si selezionava con cura, si introducevano i nuovi arrivati con attenzione, quale che fosse il loro livello e la loro destinazione. Occuparsi di sviluppo, di formazione, era una cosa normale, giusta e necessaria. Esisteva un ricco catalogo interno di corsi, esistevano percorsi formativi per funzioni, futuri quadri e futuri dirigenti. La direzione del personale era ricca di risorse e articolata in precise aree di attività. Formazione e sviluppo, gestori del personale per ogni area organizzativa… Mi direte: non è cambiato nulla, anche oggi nelle grandi aziende le cose funzionano così. Ma è cambiato tutto, a ben guardare. Quella era una direzione del personale pensata nei tempi della ‘democrazia industriale’, della gestione del consenso e dell’orientamento alla piena occupazione.
Il direttore del personale e i gestori sapevano tutto, o almeno molto, di ciò che accadeva, degli umori e del clima e del potenziale e delle prestazioni. Lo sapevano non tanto perché disponevano di rilevazioni e strumenti predisposti allo scopo. Lo sapeva perché sapere tutto di tutti faceva parte delle aspettative di ruolo, e non solo di una attitudine personale. Poi, con gli Anni Novanta, la progressiva degenerazione. Il direttore del personale non è più il Direttore di tutti, ma solo di poche persone importanti per motivi legati al business, o perché appartenenti a certe lobby, o perché appartenenti a una ristretta cerchia di persone battezzate come talenti solo perché figli qualcuno, o perché usciti da una certa università o una certa business school. Proprio in questo periodo si prende a parlare tanto di ‘centralità della persona’. Se ne parla per nascondere quello che non c’è più. Non c’era bisogno di parlarne quando era naturale, scontato, che la direzione del personale si occupasse delle persone. Questa è la direzione Hr dei tempi del liberismo, dove ognuno deve fare da sé, dove ognuno deve farsi carico da solo della propria formazione, e della propria ‘impiegabilità’ futura. Le persone, lungi dall’essere un investimento sul quale si appoggia il futuro dell’impresa, sono il primo costo da tagliare. La mia amica ricorda ancora con doloroso stupore il gusto con cui i suoi colleghi si gratificavano a vicenda dicendo: ‘l’abbiamo fatto fuori!’. Tagliare, mandar via, diventa il vanto. La mia amica attribuisce, credo con motivo, tutto questo all’atteggiamento individuale dei direttori del personale con i quali si è trovata a lavorare. Ma è vero anche che non è più così importante, per un direttore del personale, l’attenzione alle persone. Non a caso, mentre cresce l’uso enfatico della parola ‘persona’, la parola scompare dalla denominazione della direzione. Che passa a chiamarsi risorse umane.
Cambia la figura e l’atteggiamento di chi copre la posizione perché cambiano le aspettative. Ci si aspetta oggi che il direttore risorse umane riduca i costi; renda flessibile, in ogni istante modificabile, ogni rapporto di lavoro. Ma non ci si aspetta più da lui che, al contempo, guardi allo sviluppo e al lungo periodo. Non ci aspetta più che sappia quello che pensano le persone. Ci si aspetta solo che copra periodicamente questo vuoto di conoscenza con una qualche ‘indagine a 360 gradi’, una qualche ‘analisi di clima’, affidata a una società di consulenza. Sebbene la conoscenza delle persone non possa essere riassunta in nessuna metrica, il direttore del personale, ora, può ben starsene chiuso nel suo ufficio a compulsare presentazioni Power Point e tabelle Excel. Se mi dite: ‘io non sono così’, ‘nella mia azienda non accade questo’, sono contento di sentirvelo dire.
Ma riandate alla rubrica di Roberto Grassilli, sul numero scorso della nostra rivista. O guardate la sua rubrica su questo numero, a p. 10. C’è da riflettere. Siamo diventati tutti un po’ così. Come ci suggerisce l’autore, dovremmo forse ‘disintossicarci’, e tornare a guardare, al di là delle facili parole, alle persone.
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di Francesco Varanini

Si legge nella Premessa dell’Accordo interconfederale tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL del 28 giugno 2011: “È interesse comune definire pattiziamente le regole in materia di rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori”. “È obiettivo comune l’impegno per realizzare un sistema di relazioni industriali che creino le condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni”. Leggi tutto >

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Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Il bello sembra avere spazio nel mondo dell’impresa solo se riferito al design dei prodotti, o in rari casi all’architettura dei luoghi. Lo star bene, alla luce del taylorismo e del fordismo, è ridotto a ergonomia, studio delle posizioni del corpo più consone alla produttività. L’idea di bene comune è subordinata al primato del profitto. La complessiva idea del bene appare solo nel concetto di benessere, welfare, un compito che si intende dovuto allo Stato molto più che all’impresa. Possiamo pensare a buon prodotto o buon processo. Ma l’utilitarismo, l’orientamento alla soddisfazione dei bisogni, ci appaiono in contrasto con la bontà. Eppure non si può pensare all’agire e al produrre, al lavorare senza tener conto del bello, del bene e del buono. Che –come ci mostra il latino– risalgono a una stessa, basilare idea. Su un vasetto di terracotta, risalente probabilmente al VII secolo avanti Cristo, trovato nel 1880 nei pressi del Quirinale si legge: “duenos me fecit”. Si credette inizialmente che Duenos fosse il nome dell’artigiano, ma oggi si preferisce interpretare: “bonus me fecit”, “mi ha fabbricato una persona buona”. Duenos è infatti una versione arcaica del latino bonus. Il diminutivo di duenos è duenolus. Da qui il latino bellus: come dire –citando il titolo del racconto di Raymond Carver, che parla proprio del lavoro come estremo punto di incontro tra etica ed estetica– A Small Good Thing,‘cose piccole ma buone’. Bene è un avverbio. Ci parla del modo di agire, e rafforza il concetto allargandolo a campi differenti: bene vivere; bene mori ‘morire bene’; bene velle: ‘voler bene’, ma anche benevolentia; bene dicere: ‘benedizione’, e quindi anche ‘lavoro come benedizione’; bene facere: ‘beneficenza’, ‘benefattore’, e quindi ‘cura’ nel lavoro, ‘cura’ del proprio lavoro. Sallustio aggiunge senso parlandoci di bene consulendo: “vigilando, agendo, bene consulendo prospera omnia cedunt”. Il consiglio è il luogo dove si prendono decisioni; lo scambio di consigli, il parere del consulente fanno sì che tutto fruttuosamente proceda. Per questa via ci avviciniamo al buongoverno. La bontà è la statura morale che distingue un uomo dall’altro. L’artigiano è consapevole di come il buon manufatto sia conseguenza di un complessivo atteggiamento, che possiamo ben chiamare bontà. Dalla persona – “duenos me fecit” – la bontà si trasferisce all’opera, al processo. Il senso originario sta nella d, radice indeuropea da cui anche il sanscrito duvas: ‘onore’, ‘rispetto’, ‘culto’. Il suffisso -eno- indica il participio. E dunque duenus, bonus, buono significano: ‘dotato di doni e di virtù’. Leggi tutto >

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