Rinnovare la formazione riflettendo sui metodi

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La questione delle metodologie formative mi pare complessa almeno quanto il cogito cartesiano, con il suo singolare procedere argomentativo.

Ogni giorno cerco nuove soluzioni di metodo per rispondere ai fabbisogni delle aziende e dei partecipanti, e costantemente vivo la frustrazione nel tornare alle solite soluzioni, ai sentieri già battuti, all’asticella bassa. Mi interrogo sulla ragione di ciò e finisco con l’aggrovigliarmi in un nodo di lana caprina.

Come capire dove va, se va, la formazione in questo mondo in continuo mutamento? Si può analizzare la situazione di oggi per intuire la trama futura o conviene affidarsi alle divinazioni per immaginare come sarà la formazione di domani?

L’attuale processo di trasformazione digitale sta rivelando la propria natura tutt’altro che virtuale. Al contrario, è molto concreta e tangibile. Le ricadute in termini sociali, economici, produttivi e organizzativi appaiono evidenti a tutti.

Anche senza affrontare i ‘massimi sistemi’, ma limitandosi al contesto della formazione, mi sembra che questo ‘nuovo mondo digitalizzato’ stia cambiando i confini degli ambiti disciplinari in modo così radicale da far dubitare che quelli futuri possano consolidarsi. Le professionalità ci appaiono obsolete molto velocemente.

Non bastano più le competenze tradizionali. I programmi scolastici progettati pochi anni fa vengono velocemente superati. Faccio un paio di esempi da divulgatore, non da esperto. Le aziende che frequento cercano manutentori. Quando lavoravo in azienda, più di 20 anni fa, la richiesta era chiara e il mio compito di selezionatore era piuttosto semplice.

Oggi un manutentore meccanico, elettrico o elettronico deve attingere a nuovi bacini di competenza. Si cerca la manutenzione a distanza, l’uso della realtà aumentata, la capacità di fare previsioni sui grandi numeri provenienti da macchine e impianti. Servono competenze ICT assieme ad abilità manutentive.

Il nuovo profilo sarà un informatico, un meccanico o un elettronico? Probabilmente, tutto e nulla di ciò. Sarà una nuova figura che oggi sta nascendo e domani cambierà ancora. La cybersecurity domanda competenze da informatico ‘mescolate’ –mi perdonino gli specialisti– a quelle da giurista, fatto che mi sarebbe sembrato impensabile solo pochi anni fa.

Rappresentiamo questo fenomeno come necessità di competenze ‘ibridate’, leggendo con occhi che osservano ancora dal passato. Forse non c’è ibridazione, c’è solo il divenire del sapere umano. La categorizzazione, questa tranquillizzante ‘nottola di Minerva’, può levarsi in volo a tarda ora, in un ideale, ma irreale, universo immobile.

Perciò, mi domando quale formazione e quali metodi sperare per affrontare lo scenario attuale. La risposta che vorrei accennare passa attraverso alcune proposte che rivolgo, prima di tutto, a me stesso, come formatore e progettista. La prima è cercare di andare oltre un lessico formativo fossilizzato e stereotipato, per intraprendere un cammino verso un nuovo linguaggio.

Aula, training on the job, action learning, learning by doing, project work, outdoor training, e così via, sono belle parole, che talvolta riflettono un modo di pensare che ci ingabbia e ci ostacola, se va bene e, se va male, produce il teatro della lezione frontale camuffata da qualcos’altro.

Il nuovo linguaggio potrebbe invece prendere le mosse dal senso della formazione, non come esercizio di tecnicalità metodologica, trasferimento di contenuto e competenza, ma come luogo o ‘dimora’ di sviluppo personale, sempre diveniente; una formazione intesa come spazio in cui si offre una prospettiva, una speranza per il futuro.

Così i metodi trarrebbero nuova linfa vitale, perché verrebbero scelti non in funzione di una fantomatica innovatività intrinseca, ma tenendo conto della congruenza –anche etica– con l’essenza dell’itinerario formativo. La seconda proposta presenta un criterio secondo cui i metodi potrebbero essere utilizzati.

Se il fine della formazione fosse quello dello ‘sviluppo personale in continuo divenire’, l’approccio metodologico dovrebbe essere guidato dall’inclinazione del formatore all’aiuto, alla ricerca del valore personale del partecipante, allenando lo spirito critico e la capacità di indagare il modo in cui l’essere umano possa vivere nell’odierno mondo del lavoro.

Da qui scaturisce l’ultima idea, che allude a un’ulteriore, possibile, funzione della formazione. Se la formazione potesse essere riconosciuta come spazio di speranza per il futuro, questo suo modo di esistere potrebbe effettivamente avere un ruolo nella costruzione di un benessere personale e organizzativo, non domani, ma subito!

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