Tag: cambiamento

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Come le pratiche filosofiche possono ridescrivere la leadership

di Paolo Cervari

Sulla leadership si è detto di tutto e di più, e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della ‘tenuta’ dell’idea di leader –a volte messa radicalmente in questione1– nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla possibilità di produrre e sostenere il costrutto (sostanzialmente innovativo) di leadership filosofica. Leggi tutto >

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di Lauro Venturi

Tempo fa un imprenditore che conosco da anni mi ha chiesto se ero disponibile a partecipare a una riunione con i suoi soci per parlare dell’importanza del ‘mettersi insieme’, in questi tempi così difficili. Ho aderito senza esitazione perché l’argomento delle alleanze tra imprese m’interessa da sempre e perché sono convinto che vada premiato chi non si piange addosso, ma si tira su le maniche della camicia per provare, comunque, a fare qualcosa. Ho passato alcune ore davvero piacevoli, insieme a venti imprenditori che hanno costruito una formale rete d’imprese per approvvigionarsi a condizioni più vantaggiose.
Nel 1987 scrissi uno dei miei primi articoli sul tema, dopo aver ascoltato una conferenza dell’ingegnere De Benedetti. Il giornalista gli fece la classica domanda: “Ingegnere ma… piccolo è ancora bello?”.
Il sornione capitano d’impresa (o di finanza?) rispose: “Piccolo è bello ma grande è meglio”. Ragionai su quelle parole e coniai lo slogan “Diventare grandi restando piccoli”, per significare la necessità di fare convivere la flessibilità delle piccole aziende con la capacità produttiva, finanziaria, commerciale, d’innovazione delle grandi strutture. Come titolo scelsi Dai miti alle alleanze per rilevare il fastidio verso inutili e astratti dibattiti a favore o contro i piccoli imprenditori (in un Paese nel quale oltre il 95% delle aziende ha meno di dieci addetti!), ponendo l’accento sull’esigenza di creare esempi concreti di alleanze per generare co-makership efficaci. Ventiquattro anni dopo, lo scorso 11 novembre, la Camera di Commercio di Milano ha organizzato il convegno “Allearsi per crescere: le nuove reti d’impresa”. In quell’occasione il professor Renato Mannheimer di Ispo ha presentato un’indagine illuminante:
– circa un quarto delle aziende intervistate non sa evidenziare né i vantaggi né gli svantaggi del fare rete;
– ben l’ottanta per cento del campione si dice ‘per nulla interessato’ o ‘poco interessato’ a prendere in considerazione l’ipotesi di mettersi in rete. Già si sapeva, ma ora ci sono evidenze empiriche a dimostrare che, sulle reti d’impresa, tra il dire e il fare, il mare da colmare è oceanico. I termini, nel tempo, si sono evoluti: da alleanze siamo passati a ‘filiere’, poi a ‘reti’ e sicuramente la produzione di neologismi non si arresterà.
La sostanza però è immutata: perché è difficile fare collaborare le piccole e medie imprese? La motivazione che troppo facilmente è chiamata in causa è che i titolari di queste aziende sono eccessivamente individualisti. Per me, l’individualismo che caratterizza l’imprenditoria molecolare è un punto di forza, senza il quale la ‘morìa’ di queste aziende avrebbe raggiunto dimensioni terribili per la nostra economia: ma su questo mi impegno ad approfondire l’argomento in una successiva rubrica. Voglio qui sottolineare che il tema delle alleanze tra le imprese non è assolutamente un problema razionale, di conti e di numeri: è soprattutto un problema di relazioni. Ogni cambiamento induce nelle persone sentimenti, pensieri ed emozioni non necessariamente consapevoli e dichiarati.
Il cambiamento che un imprenditore, titolare di una piccola impresa, attraversa mettendosi insieme ad altri suoi colleghi è molto elevato. Non siamo di fronte a scambi di azioni di aziende forse mai viste, o conosciute solamente attraverso report periodici dei propri manager e analisti. Qui sono storie di vita che si fondono e quindi bisogna muoversi con cautela. È molto facile che i primi sentimenti possano essere di frustrazione, di paura e di giudizio critico: “E se poi non va bene, come mai non ce la faccio ad andare avanti da solo…?”. Trasformare queste energie negative in risorse positive, quali ad esempio l’entusiasmo, il coraggio e la curiosità, non è né automatico né banale. Richiede un lavoro costante, alla pari, se non superiore, a quello analitico sui conti e sui processi. Ecco perché un progetto di alleanza deve vedere figure multidisciplinari che affianchino gli imprenditori intenzionati a fare un cammino insieme ad altri, compresi professionisti di coaching e counseling. Qualsiasi business plan di una futura rete di imprese fallirà sotto i colpi dei timori e delle incertezze degli attori principali. Allora, meno osservatori e più laboratori per sperimentare davvero possibili alleanze tra imprese. Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

L’azienda era ormai stata ridotta a controllata di una holding internazionale con sede in Lussemburgo, partecipazione in varie consociate estere e nei più diversi settori di business. Una proprietà tanto più diafana, anonima, indecifrabile, quanto più virtuale ed evanescente si faceva la stessa attività dell’impresa: servizi di global service per terzi, gestione di appalti, intermediazione commerciale. Un’azienda derivata, come derivati erano i titoli in cui investiva e con i quali moltiplicava il capitale. Privata dell’anima, quell’impresa che un tempo sentiva battere con ritmo perfetto il suo cuore svizzero, guidata ora dalla sola logica finanziaria, aveva perso il senso del valore, non generava più valore, ma pura speculazione. Era divenuta di carta, ed esposta a ogni vento, prima o poi, come un castello di carte sarebbe crollata. In questa drammatica fase di crisi dell’economia sono molti i manager, ma in particolare quelli che hanno superato la soglia dei 50, che hanno scoperto –spesso anche con stupore– che il re è nudo. L’azienda in cui avevano investito un’intera vita professionale li aveva traditi, il cambiamento del business e dell’assetto societario negli ultimi dieci anni era stato così strisciante da non imporsi all’evidenza. E loro erano rimasti bolliti come rane, nell’acqua fredda via via portata a ebollizione. La gestione guidata unicamente o prevalentemente dal criterio finanziario ha fatto anche di molte imprese ‘aziende derivate’, bacate al pari dei prodotti finanziari che hanno contaminato il mondo dell’economia, fino a portarlo al limite del collasso. Ci sono vite, la mia, quelle di molti che conosco, chiamate necessariamente a ristrutturarsi, affrontando un cammino duro, a volte anche mortificante perché occorre spesso bussare a porte altrui. Ci sono competenze ultradecennali che nel riciclo dei manager andranno disperse. Il PIL, anche se dovesse tornare a crescere, non misurerà questi aspetti. L’esperienza della vita aziendale ci ha necessariamente formati, più di qualunque altra categoria di professionisti, alla gestione del cambiamento. Ma si è trattato di una formazione on the job, maturata nel turnover delle responsabilità, nelle sfide di obiettivi sempre nuovi e spesso contraddittori, nell’adozione di nuove procedure, nell’innovazione di ogni processo. Difficile che ci sia stata offerta l’opportunità di una formazione effettiva, quella capace di concettualizzare l’esperienza, di generare nuovi schemi mentali e provocare un cambiamento personale. Ho conosciuto direttori del Personale che mi hanno detto: questo non è un problema dell’azienda, è un problema personale. Non pensiamo certo di spendere soldi per migliorare la loro capacità di affrontare i cambiamenti, son cavoli loro, d’altra parte è proprio qui che li misuriamo: hinc sunt leones! Bravi, aziendalisti, rampanti! Certo. Ogni manager, più che preoccuparsi solo di tenere la propria cassetta degli attrezzi aggiornata e in ordine, dovrebbe in primis provvedere alla capacità di investire su se stesso, come dire badare alla propria sopravvivenza. Ma l’impresa? Non è chiamata l’impresa, oggi più che mai, a rialzarsi sulle proprie stampelle e a provare a camminare verso la propria ripresa? Non vi è dubbio che le imprese che escono dal tunnel non sono quelle che chiedono provvidenze governative o addebitano i propri problemi ai facili alibi della scarsa flessibilità e produttività dei dipendenti italiani. Ma quelle invece che trovano le stampelle necessarie per rialzarsi proprio nelle qualità umane delle proprie ‘risorse umane’. Neppure però basta dire investire nello sviluppo delle risorse umane, perché non c’è una formazione per tutte le stagioni. Se c’è stato un modello di education adeguato ai tempi di espansione dell’economia, ne occorre oggi uno diverso, nei contenuti e nei metodi, adatto alla fase di endemica instabilità del sistema. Leggi tutto >

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