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L’educazione sentimentale del manager – di Lauro Venturi – 

L’altra settimana, come di consueto, ho preso il treno per tornarmene a casa dopo la solita settimana di lavoro. Quasi meccanicamente salgo sulla carrozza e cerco il mio posto: eccolo, 8 A (qualcuno mi spiega perché hanno cambiato la numerazione?).
Una signora giovanile ed elegante, che occupa il sedile davanti al mio, mi sorride e mi dice: “Ma lei, scusi, è Lauro Venturi?”. Rispondo di sì e, poiché la mia comunicazione non verbale deve avere trasmesso molto velocemente il messaggio che non mi ricordavo di quel viso, la signora gentilmente mi ricorda di essere un’imprenditrice che aveva partecipato, tanti anni prima, a diversi corsi di formazione, ai quali intervenivo come docente. A quel punto i neuroni iniziano a connettersi e mi viene in mente sia il nome dell’azienda sia del socio della signora, con il quale avevo colloquiato con più frequenza.
Ricordo un’azienda con circa venti dipendenti, leader nei servizi per la modellistica dell’abbigliamento, molto attenta a instaurare rapporti di partnership con i propri clienti, le principali e blasonate firme della moda.
Sì, perché anche questi colossi, quando trovano un’azienda seria e competente, che progetta e realizza modelli, fa sviluppi taglia, piazzamenti, taglio di campionari e confezione prototipi, beh, se la tengono ben stretta. Della signora e del suo socio mi ricordo anche l’attenzione che mettevano alla formazione propria e dei collaboratori, unitamente al monitoraggio continuo della tecnologia. Competenza, motivazione e adeguate tecnologie per garantire al cliente la soluzione a ogni problema di progettazione e industrializzazione del prodotto moda. Perché, care lettrici e cari lettori, vi racconto tutto questo? Perché l’azienda in oggetto è ubicata in quel territorio noto come ‘bassa modenese’, che a fine maggio è stato duramente colpito dal terremoto. L’azienda stava proprio nel paesino epicentro della seconda scossa del 29 maggio, quello andato su tutti i telegiornali perché il Papa vi ha fatto visita per rendere omaggio al sacerdote rimasto ucciso sotto le macerie della chiesa, mentre andava a prelevare la statua della Madonna che doveva essere portata in processione. Il capannone è ovviamente inagibile ma la signora, con una naturalezza impressionante, mentre il treno scorre nelle campagne della Val Padana, mi dice che in poco più di un mese hanno ripreso l’attività. Sono riusciti a salvare i server e le altre tecnologie e le hanno ubicate in un capannone di Carpi, distante poco più di dieci chilometri. In poco più di un mese, senza chiedere a niente a nessuno! Certo, adesso i soci stanno valutando l’investimento necessario per rimettere in sesto l’edificio seriamente ferito dalle scosse telluriche. Certo, sperano che un po’ di aiuto economico prima o poi arrivi. “Sa, Venturi, per me dovrebbero davvero darci una mano, perché in questo modo poi noi glieli restituiamo quei soldi, con l’occupazione, le tasse che paghiamo…”. Verità disarmante. Proprio perché si tratta di concetti semplici e quasi ovvi, il rischio è che non vengano valorizzati o tenuti nella debita considerazione. Quanto vale in termini di PIL o di spread l’insieme di tanti piccoli imprenditori che hanno riavviato l’attività tirandosi su le maniche, con quel misto di orgoglio, di ostinata energia, di visione e di realismo che caratterizza la gente della nostra terra?
Quanto vale questo saper tenere insieme la concretezza delle mani con l’intelligenza del cervello e la passione del cuore?
Tantissimo!
Allora è indispensabile che lo Stato dimostri a queste imprese che le considera una ricchezza preziosa, per il benessere economico e sociale di tutti. È indispensabile che lo Stato dimostri che questa volta si può ricostruire senza finire nelle fauci di faccendieri ignobili che si fregano le mani quando apprendono che c’è stato il terremoto, pensando ai loro loschi affari che lievitano sulle salme ancora calde di chi ha lasciato la pelle sotto le macerie. C’è l’Italia dei furbetti e dei delinquenti, ma c’è anche l’Italia delle persone per bene. Soprattutto adesso che ci chiedono sacrifici draconiani, la politica e le istituzioni devono dimostrarci che sanno premiare la seconda, e colpire duramente la prima. È prima di tutto un fatto di civiltà. Leggi tutto >

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di Lauro Venturi

Nella precedente rubrica promettevo alle lettrici e ai lettori di approfondire l’affermazione “Per me, l’individualismo che caratterizza l’imprenditoria molecolare è un punto di forza”.
Senza quell’individualismo, chi glielo faceva fare a questi artigiani, a questi piccoli imprenditori, di tenere botta con tempi di pagamento impossibili, una burocrazia soffocante che si porta via alcuni mesi del loro lavoro, banche che pongono condizioni a dir poco esose? Hanno tenuto botta perché la loro impresa è la loro vita. Si può anche irridere a quest’affermazione, ma è così: dietro a quest’imprenditoria diffusa, non ci stanno freddi analisti finanziari che sui resoconti del ‘quarter’ decidono se continuare o no a rimanere in quel determinato Paese.
Ci sono persone che nella loro azienda ripongono il progetto di vita d’intere famiglie. Poi ci stupiamo, con ipocrita incredulità, se il capitale aziendale e familiare in queste strutture sono troppo mescolati, quando –da sempre– le banche le hanno affidate in base a un virtuale consolidato tra patrimoni aziendali e personali. L’imprenditoria diffusa, come il turismo, sarebbero il nostro petrolio; solamente che ci divertiamo a ignorarlo e, a volte, a metterne a rischio l’esistenza con fiammiferi superficiali e intrisi di pregiudizio. Senza fare tanti giri di parole: è ancora predominante una ‘cultura industrialista’ che parte dalle università e arriva alla politica, passando per i mezzi di comunicazione. Partiamo dalle università. Queste leggono le Pmi con modelli astratti, in gran parte derivati da altre realtà.
Alla luce dei fatti le aziende micro e piccole non si possono però interpretare con questi modelli e, invece di cambiarli, si dice che sono le Pmi a essere sbagliate. Basti pensare al tormentone della crescita: abbiamo aziende troppo piccole! Che cavolo vuole dire quest’affermazione? Supponiamo che la taglia media delle aziende italiane sia di dieci addetti: se per magia triplicassero la loro dimensione, forse che un’azienda di trenta ha le carte in regola per competere sui mercati internazionali, sviluppare una sistematica attività di ricerca e innovazione, approvvigionarsi con facilità al mercato finanziario? Suvvia, non scherziamo! E la politica? A parole tutti sono a favore della microimprenditorialità, ma nei fatti sonnecchiano ancora nel dialogo tra Governo – Confindustria e Sindacati. Anzi, avverto una sorta di fastidio verso queste realtà, un approccio svalutante e astratto. C’è anche il problema che, per affrontare le micro e piccole imprese, non è possibile attivare il contatto diretto, come invece si può fare con gli industriali che frequentano i talk show.
Bisogna passare dalle loro associazioni, e questo alla politica non piace. Terminata, e per fortuna, la fase in cui le associazioni erano collaterali, e spesso passive, alla politica, adesso quest’ultima vede i loro dirigenti come competitor che possono scalfire il castello della casta. Mi rendo conto della rozzezza dell’analisi, non è mio intento sviluppare qui l’argomento, che però non voglio tralasciare perché credo che in un prossimo futuro sarà territorio fertile per nuove sperimentazioni di relazione tra politica e imprese. Sui mezzi di comunicazione basta solo dire che fanno un tutt’uno tra Confindustria e il mondo delle imprese. Adesso, con l’avvento di Rete Imprese Italia, che raggruppa le organizzazioni leader dell’artigianato e del commercio, non hanno nemmeno l’alibi dell’eccessiva frammentazione, ma continuano a sottostimare il ruolo della micro e piccola imprenditorialità. È cattiveria dire che la causa può essere nel fatto che le Pmi e le loro associazioni non possono tenere a libro paga troppi giornalisti? Auspico che, invece di sognare un mondo di grandi industrie che non c’è, ci si rimbocchi le maniche per individuare concreti strumenti di sviluppo per la nostra imprenditoria diffusa, grazie alla quale su circa dieci cittadini uno decide ogni mattina di giocarsi la propria partita. Perché possa vincerla, deve risvegliarsi una forte cultura del lavoro, aiutata da associazioni imprenditoriali rinnovate, intese come costruzioni comuni d’idee, di speranze, di rabbie e di progetti. Leggi tutto >

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di Lauro Venturi

Tempo fa un imprenditore che conosco da anni mi ha chiesto se ero disponibile a partecipare a una riunione con i suoi soci per parlare dell’importanza del ‘mettersi insieme’, in questi tempi così difficili. Ho aderito senza esitazione perché l’argomento delle alleanze tra imprese m’interessa da sempre e perché sono convinto che vada premiato chi non si piange addosso, ma si tira su le maniche della camicia per provare, comunque, a fare qualcosa. Ho passato alcune ore davvero piacevoli, insieme a venti imprenditori che hanno costruito una formale rete d’imprese per approvvigionarsi a condizioni più vantaggiose.
Nel 1987 scrissi uno dei miei primi articoli sul tema, dopo aver ascoltato una conferenza dell’ingegnere De Benedetti. Il giornalista gli fece la classica domanda: “Ingegnere ma… piccolo è ancora bello?”.
Il sornione capitano d’impresa (o di finanza?) rispose: “Piccolo è bello ma grande è meglio”. Ragionai su quelle parole e coniai lo slogan “Diventare grandi restando piccoli”, per significare la necessità di fare convivere la flessibilità delle piccole aziende con la capacità produttiva, finanziaria, commerciale, d’innovazione delle grandi strutture. Come titolo scelsi Dai miti alle alleanze per rilevare il fastidio verso inutili e astratti dibattiti a favore o contro i piccoli imprenditori (in un Paese nel quale oltre il 95% delle aziende ha meno di dieci addetti!), ponendo l’accento sull’esigenza di creare esempi concreti di alleanze per generare co-makership efficaci. Ventiquattro anni dopo, lo scorso 11 novembre, la Camera di Commercio di Milano ha organizzato il convegno “Allearsi per crescere: le nuove reti d’impresa”. In quell’occasione il professor Renato Mannheimer di Ispo ha presentato un’indagine illuminante:
– circa un quarto delle aziende intervistate non sa evidenziare né i vantaggi né gli svantaggi del fare rete;
– ben l’ottanta per cento del campione si dice ‘per nulla interessato’ o ‘poco interessato’ a prendere in considerazione l’ipotesi di mettersi in rete. Già si sapeva, ma ora ci sono evidenze empiriche a dimostrare che, sulle reti d’impresa, tra il dire e il fare, il mare da colmare è oceanico. I termini, nel tempo, si sono evoluti: da alleanze siamo passati a ‘filiere’, poi a ‘reti’ e sicuramente la produzione di neologismi non si arresterà.
La sostanza però è immutata: perché è difficile fare collaborare le piccole e medie imprese? La motivazione che troppo facilmente è chiamata in causa è che i titolari di queste aziende sono eccessivamente individualisti. Per me, l’individualismo che caratterizza l’imprenditoria molecolare è un punto di forza, senza il quale la ‘morìa’ di queste aziende avrebbe raggiunto dimensioni terribili per la nostra economia: ma su questo mi impegno ad approfondire l’argomento in una successiva rubrica. Voglio qui sottolineare che il tema delle alleanze tra le imprese non è assolutamente un problema razionale, di conti e di numeri: è soprattutto un problema di relazioni. Ogni cambiamento induce nelle persone sentimenti, pensieri ed emozioni non necessariamente consapevoli e dichiarati.
Il cambiamento che un imprenditore, titolare di una piccola impresa, attraversa mettendosi insieme ad altri suoi colleghi è molto elevato. Non siamo di fronte a scambi di azioni di aziende forse mai viste, o conosciute solamente attraverso report periodici dei propri manager e analisti. Qui sono storie di vita che si fondono e quindi bisogna muoversi con cautela. È molto facile che i primi sentimenti possano essere di frustrazione, di paura e di giudizio critico: “E se poi non va bene, come mai non ce la faccio ad andare avanti da solo…?”. Trasformare queste energie negative in risorse positive, quali ad esempio l’entusiasmo, il coraggio e la curiosità, non è né automatico né banale. Richiede un lavoro costante, alla pari, se non superiore, a quello analitico sui conti e sui processi. Ecco perché un progetto di alleanza deve vedere figure multidisciplinari che affianchino gli imprenditori intenzionati a fare un cammino insieme ad altri, compresi professionisti di coaching e counseling. Qualsiasi business plan di una futura rete di imprese fallirà sotto i colpi dei timori e delle incertezze degli attori principali. Allora, meno osservatori e più laboratori per sperimentare davvero possibili alleanze tra imprese. Leggi tutto >

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