Deriva dei linguaggi

Deriva dei linguaggi in azienda. Prendere le parole alla lettera

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Un recente articolo di Internazionale(1) racconta come le aziende della cosiddetta Gig economy –pensiamo a realtà come Uber e Postmates – che si basano sull’utilizzo di prestazioni lavorative temporanee utilizzino bizzarre locuzioni per definire le relazioni professionali.

Il Financial Times ha invece proposto di recente le linee guida sulle cose da ‘dire e non dire’ in Deliveroo, un’azienda del Regno Unito di consegne a domicilio: tra pagamenti ogni due settimane che diventano ‘fatture dei guidatori processate a cadenza quindicinale’ e divise che diventano ‘kit’, si assiste al trionfo della perifrasi. Siamo alla circonlocuzione, al ‘dire la cosa che si potrebbe dire in modo diverso’, ma nel nostro caso ancora meglio il ‘girare intorno alle parole’, che poi è anche un girare attorno con le parole. C’è sempre una sorta di circonvenzione –un inganno, una manipolazione– nel non voler dire le cose come stanno.

Insomma, lo scenario ci dice che dobbiamo affrontare una sorta di sistematico svuotamento di senso ottenuto a forza di neologismi o formulazioni contorte. Non si tratta però del neologismo come necessaria ricerca della parola giusta per indicare qualcosa che non esisteva fino a oggi, ma, al contrario, la nuova parola diventa tanto più strategica quanto più va a indicare qualcosa che è sempre esistito: che un’azienda chiami i propri dipendenti ‘fornitore indipendente’ o il contratto di lavoro ‘accordo di fornitura’ non è solo un’evidente manipolazione della realtà o una modificazione del senso ordinario di un termine, quanto un’operazione che entra nel corpo della parola per farla diventare qualcosa di diverso da ciò che dovrebbe essere, cioè non un elemento di descrizione della realtà, ma una pura dimensione prescrittiva che, parlando di qualcosa che non esiste, ci dice come la realtà dovrebbe essere vista.

Gig Economy
La Gig economy è dominata da aziende che utilizzano piattaforme digitali per la gestione delle persone: queste ultime non sono più considerate ‘dipendenti’, ma ‘fornitori indipendenti’

Per prima cosa, è interessante notare che proprio la sharing economy, con il suo linguaggio ‘startupparo’ e ricco di richiami all’autoimprenditoria e al libero-professionismo spinto, sia la fucina di questa corsa alle nuove parole, neologismi che suggeriscono, per così dire, dei neopsichismi, degli stati mentali.

Che il linguaggio sia un modo per dar forma alla realtà certo non sorprende; che attraverso la lingua si cerchi di plasmare i comportamenti è forse un elemento meno ovvio. Il fatto che un collaboratore occasionale con un orario estremamente irregolare di un’azienda diventi una sorta di autoimprenditore indipendente –ben contento di costruire la propria giornata lavorativa allocando frammenti di tempo allo svolgimento di attività che, se prese tutte assieme, costruiscono una specie di stipendio minimo– è un quadro che mostra l’estrema erosione dello spazio sociale condiviso che potremmo chiamare ‘mondo del lavoro’.

In definitiva, siamo di fronte a prestazioni lavorative parcellizzate e rivendute come stimolanti avventure autoimprenditoriali, il tutto per l’effetto di un nome o di una formulazione del tutto astratta. Utilizzare perifrasi, dire le cose in un certo modo, scegliere strade tortuose per far scivolare il senso di un’esperienza vissuta attraverso il canale di scolo di un linguaggio talmente raffinato dal riuscire nell’estrema impresa è smettere di significare.

Quello che succede, però, è che sotto questi giri di parole esiste un mondo di relazioni di potere tutt’altro che virtuali. Lo svuotamento di senso del linguaggio sembra corrispondere alla liberazione di una forza immensa: la forza che consiste nell’autorizzare, sotto la trasparenza apparente delle scelte terminologiche, un turbine di relazioni di potere pulviscolari e incontrollabili.

Anzi, relazioni sottratte a una forma di controllo esplicito perché, in modo assolutamente fluido, sono loro stesse i punti di innesco dei sistemi di controllo: svuotare il linguaggio e renderlo autoevidente per lasciare libero corso a comportamenti sregolati. Quanto più il linguaggio diventa un codice trasparente –talmente trasparente da girare a vuoto– tanto più l’opacità dei rapporti reali prolifica. Se è fondamentale intercettare questi fenomeni e renderli espliciti, attraverso un’operazione critica, può però essere interessante mostrare come alla base di questi effetti ci siano logiche che vanno ben al di là dello scenario economico e lavorativo odierno, per connettersi alle modalità di costruzione dello spazio sociale. Per spiegare questo punto farò una deviazione.

Usare le parole per quello che realmente dicono

Dazed and Confused
Una scena del film ‘Dazed & confused’ scritto e diretto dal regista Richard Linklater; tra gli attori un giovane Matthew McConaughey

Pensiamo a un film che di aziendale sembra avere ben poco, Dazed & confused (uscito in Italia con il titolo La vita è un sogno) diretto da Richard Linklater nel 1993: è una commedia generazionale in cui si evocano gli Anni 70 in un liceo di provincia, un luogo topico dell’immaginario americano, che dei film di matrice scolastica o universitaria ha fatto un vero e proprio genere (da American Graffiti alla Rivincita dei nerd, passando per il mitico Animal House).

Il nucleo tematico di fondo che sta alla base di questi film è facilmente inquadrabile: la scuola come rito di passaggio, mo-mento di transito dall’adolescenza alla vita adulta; non a caso sono quasi tutti film in cui un ciclo di studi finisce o inizia (nel nostro caso siamo all’ultimo giorno di scuola del 1975), con una serie di sottotemi comuni, tra cui l’emersione di problematiche di adattamento, la rivincita degli outsider, la rivalsa contro le ingiustizie e le prepotenze di un gruppo avversario, ecc.

Ma, soprattutto, lo sfondo ideologico che emerge con grande evidenza è di tipo puritano: lo studio come preparazione alla vita lavorativa che permette di vivere le esperienze formative ‘eccessive’ che porteranno a formare il carattere. Come dire che il college è il contesto nel quale dedicarsi a tutto quello –fumo, alcool, sesso– che, una volta attraversato come esperienza iniziatica, potrà essere superato in funzione di una piena adattabilità professionale e operativa.

Il sottotesto è quello, tipico per esempio del mito californiano della Silicon Valley, dell’importanza di conformarsi, ma di farlo in modo creativo, preservando il contributo positivo dell’individuo. Questo elemento emerge con forza, dal momento che, di solito, in questi film, accanto agli outsider destinati a integrarsi creativamente, c’è sempre una figura di outsider puro, ben rappresentata da Bluto-John Belushi in Animal House: il dropout non integrabile, il ragazzaccio destinato a non farcela. Fatta questa premessa, torniamo a Dazed & confused.


1 Si veda http://www.internazionale.it/notizie/neha-thirani-bagri/2017/04/12/ lingua-gig-economy-dipendenti

L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di Agosto-Settembre 2017 di Persone&ConoscenzePer leggere l’articolo completo – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419).

 

 

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