Pensioni. Fornero versus Quota 100

Pensioni, Fornero versus Quota 100

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È fuor di dubbio che in Italia gran parte delle novità legislative sono avvenute in risposta alla vox populi rappresentata dalla politica; non si può certo dire che a questa tendenza siano sfuggite le norme riguardo le pensioni, su cui il Legislatore ha spesso operato in risposta a ‘pressioni’ esogene alla realtà economica e alla proiezione della stessa a lungo termine.

L’attuale vicenda della “Quota 100” non fa che confermare quanto sopra e, indipendentemente dalle sorti che subirà tale provvedimento, ci preme esprimere alcune considerazioni di carattere tecnico sulla meccanica dell’evoluzione legislativa nel campo di una previdenza che ha acquisito via via una evidente e marcata connotazione ‘sociale’.

Rapporto tra popolazione attiva e popolazione in quiescenza prossimo all’unità

Elsa Fornero
Elsa Fornero

I mali del nostro sistema pensionistico non nascono certo in tempi recenti, ma sono al contrario di lunga data e possono essere fatti risalire sino alla scelta operata dal Legislatore in merito al sistema di finanziamento dei trattamenti pensionistici.

A quel tempo, che ricordiamo essere il periodo del pieno boom demografico, le possibilità –peraltro ancora attuali– potevano essere solo due: capitalizzazione e ripartizione. Nel primo caso le somme versate vengono capitalizzate e servono per il pagamento della prestazione all’atto della maturazione, legate al montante effettivamente accumulato, mentre nel secondo le somme versate quale contribuzione in un anno servono a pagare le prestazioni in corso di pagamento in quel medesimo anno.

Inizialmente, il sistema reggeva in quanto annualmente, una volta determinato il fabbisogno necessario al pagamento delle prestazioni di quell’anno, si determinava l’aliquota da applicare alle retribuzioni per determinare la contribuzione dovuta.

Si interveniva così sulle entrate aumentandole in relazione all’aumentato fabbisogno di cassa; a riguardo infatti alcuni ricorderanno che dagli Anni 70 in poi l’aliquota contributiva del fondo pensione (IVS) ha avuto trend in crescita sino all’attuale 33%, ottenuto attraverso un artificio che ha visto l’assorbimento di aliquote di altre gestioni in attivo.

Nel 1969 infatti, sotto una poderosa spinta delle organizzazioni sindacali, veniva promulgata la Legge 153 che introduceva il calcolo retributivo che di fatto sganciava la prestazione dalla storia assicurativa di un lavoratore legandola alle sole vicende degli ultimi cinque anni.

Un’analisi tecnica di quanto precede non può che evidenziare la sciaguratezza economica di una norma che produceva i suoi effetti nella presenza di un rapporto tra popolazione attiva e popolazione in quiescenza sempre più prossimo all’unità.

Il depauperamento delle rendite e della qualità dei servizi

Facile comprendere il fallimento della norma, molto meno il motivo per cui non vi si è posto rimedio con la sollecitudine necessaria.

Ma nulla… acquisita l’impossibilità di intervenire sulle entrate una volta raggiunto il finanziamento del 33% la soluzione che fu trovata era semplice e immediata: un drastico quanto odioso intervento sulle prestazioni, con il correlato depauperamento delle rendite e della qualità dei servizi.

A quel punto il Legislatore, mosso dall’interesse in veloci soluzioni, decise di applicare la tecnica dei cosiddetti “pannicelli”.

In primo luogo, la riforma Amato del 1992 allargò a 10 anni la base su cui calcolare la retribuzione utile al calcolo della pensione sperando di riproporzionare le rendite con somme più reali rispetto alla carriera retributiva dei lavoratori.

La riforma Dini iniziò –con troppa poca decisione– l’evoluzione verso il sistema contributivo nel 1995, ma si limitò a differenziare l’applicazione del nuovo metodo di computo delle rendite sulla base della presenza o meno di un determinato numero di anni di contribuzione.

I successivi interventi Berlusconi e poi Maroni introdussero le famigerate “finestre” nella logica di operare un recupero di cassa, ‘risparmiando’ alcune mensilità per ogni lavoratore che accedeva alla prestazione pensionistica ritardandone il momento di accesso alla rendita.

Ma fu solo con la Legge 214 del 22 dicembre 2011 (decreto Salva Italia) che al Capo IV introdusse le disposizioni comunemente note come “riforma Fornero” che si incise in modo serio e programmatico sulle anomalie del nostro sistema pensionistico.

In base a tali disposizioni si aumentò il requisito di accesso alla pensione di vecchiaia (67 anni a partire dall’anno 2019), oltre ovviamente al requisito minimo contributivo (43 anni e 3 mesi indipendentemente dall’età anagrafica).

 

Per approfondire le altre novità normative spiegate nell’articolo, leggi il numero di Ottobre-Novembre di Persone&Conoscenze.
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