Senza diritti non c’è welfare

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“Mettete insieme i runner aziendali!”. C’è qualche azienda che ha deciso di instaurare, a suo giudizio, e senza nulla dover contrattare con i sindacati, una buona pratica: basta con i pranzi di lavoro per cementare lo spirito di corpo, basta con asili, palestre e lavanderie. Ora è tempo di jogging meeting, tutti insieme a correre nel parco aziendale.

Varie aziende lo hanno già fatto. Immagino una bella comunicazione del Direttore delle Risorse Umane indirizzata a tutti i dipendenti: “Caro collega, da oggi è operativo il nostro parco aziendale, un luogo di aggregazionee di riflessione di cui potrai usufruire quando vorrai, da solo o in compagnia del tuo team. Fuori del tuo ufficio, all’ombra di querce e di tigli, potrai respirare un’atmosfera green, allargare polmoni e orizzonti, magari anche mangiare un frutto e fare una doccia negli spogliatoi. Perché, consentimi di citare Giovenale, la rigenerazione del corpo è la condizione per far star bene la mente. Abbi cura di te!”.

Stiamo assistendo alla conciliazione degli opposti, al disinvolto superamento di ogni contraddizione: da un lato flessibilità selvaggia, lavoro senza regole o addirittura ‘on demand’ secondo i nuovi principi della sharing economy; dall’altro corsi zen, yoga, meditazione per il benessere dei dipendenti. C’è un’evoluzione del welfare, una tendenza strisciante, di chiara importazione americana, che sembra spostare sempre più i benefici dal materiale all’immateriale. Forse perché, inevitabilmente e in fin dei conti, anche il welfare è un business e come ogni prodotto o servizio richiede soluzioni sempre innovative e originali, a fronte di un mercato del wellness reso ipercompetitivo e che con il tempo tende alla saturazione.

“Quarto Stato”, dipinto da Giuseppe Pellizza da Volpedo

Il welfare aziendale ha generato aziende che vendono ogni sorta di servizi. Forse perché toccare la sfera sempre più personale dell’individuo, quella attinente alla libertà, alla salute della mente e non solo del corpo, consente a ciascuno di scoprire il proprio personale modo di star bene, come dice Francesco Varanini. Della serie: “Non t’impongo per accordo sindacale un’assicurazione sanitaria o un servizio di lavanderia a domicilio, non ti tratto da assistito, ma ti metto a disposizione un parco aziendale, e decidi tu se e quando correrci, se in solitudine o incompagnia”.

O forse ancora perché quella che abbiamo descritto come una sfacciata contraddizione del capitalismo nell’era digitale, in fondo contraddizione non è. Proprio perché i diritti sono stati depotenziati e nella vita aziendale dominano i tre mostri della turbolenza, dell’incertezza e dell’arbitrio, la cura della mente sta particolarmente a cuore all’azienda. La finalità di questo welfare sembra essere allora più la ricerca della docilità che della felicità. Nessuna contraddizione dunque. Mandarti a casa senza giusta causa o demansionarti ben si concilia con una corsa sui prati del parco aziendale. La contraddizione che però resta è un’altra: è quella tra il dentro e il fuori dell’azienda, tra dipendenti e non. Laddove l’impresa estesa ha perso ogni confine, e senza distinzioni coinvolge nelle proprie sfide e nei propri team collaboratori e partner, manager e consulenti, lavoratori diretti e somministrati, subordinati e autonomi. Ma solo ai primi sono riservati i benefici del welfare aziendale, che da fonte di benessere diventa, per la diversità degli attori che cooperano nell’azienda estesa, fattore discriminante, un odioso status symbol.

Ben venga il welfare se effettivamente migliora le condizioni di lavoro. Ma non venga a mettere lo stucco sulle crepe. Non venga prima di ristabilire nelle organizzazioni quegli elementari diritti umani che erroneamente diamo per scontati e nascondiamo con la polvere aziendale sotto il tappeto. Diritti resi sempre più vulnerabili dalle tendenze attuali del mercato del lavoro: il diritto alla pari retribuzione tra uomini e donne, in un Paese che presenta ancora un gender gap del 17%; alla pari retribuzione per pari lavoro, vanificato dall’abuso dei contratti a tempo determinato; alla privacy, minacciato da applicazioni informatiche sempre più evolute e invasive; alla previdenza, ormai chimera per la generazione dei Millennial. E, perché no, il diritto di sposarsi e fare famiglia, gravemente compromesso dalla precarietà di lungo periodo. Di fronte a questi clamorosi fattori di disagio la parola welfare è scritta sulla sabbia e difficilmente può tradursi con lo star bene.


Francesco Donato Perillo

Francesco Donato Perillo è formatore manageriale e docente gestione risorse umane, Università Suor Orsola Benincasa.

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