Tag: talenti

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di Erica Baroni

Cambia il mondo intorno a noi, cambiano le aziende e cambiano, di conseguenza, anche le modalità con le quali si selezionano le persone che dovranno far parte delle nostre organizzazioni. Uno scenario, quello della ricerca e selezione, che negli ultimi tempi ha visto modificare i propri assetti con l’affermarsi sul mercato dei social network. Perché per trovare i profili giusti si utilizza sempre di più la rete. E i social network professionali si stanno attrezzando: da vetrina a piattaforma integrata per la condivisione di informazioni. In questo articolo approfondiamo, con l’aiuto di Marcello Albergoni, Senior Sales Manager di LinkedIn Italia, il ruolo che i social network professionali possono giocare per i responsabili delle risorse umane. Leggi tutto >

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ETICA DEL LAVORO

di Francesco Varanini

In questo articolo si intrecciano due temi. Il primo: la fabbrica come luogo centrale dell’impresa, luogo dove in fondo si misura l’atteggiamento etico di una impresa. Il secondo: il ruolo del Direttore del personale come promotore di atteggiamento etico dell’impresa. I due temi si intrecciano perché, nella doverosa ricerca di un cambiamento che –nel difficile scenario globale– ridia fiato alle nostre imprese, sembra esserci uno spazio d’azione che solo i Direttori del personale possono occupare. Questa azione consiste in buona misura nell’assumersi la responsabilità di fare le cose che gli altri manager sembra non abbiano tempo di fare. Una cosa certamente da fare è tornare a guardare il mondo dal punto di vista della fabbrica. Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Correva l’anno 1997, e come Calvino nelle sue lezioni americane proponeva le virtù da portare nel nuovo millennio, così dagli Stati Uniti la McKinsey annunciava la nuova era dei talenti, coniando il termine di successo ‘guerra dei talenti’. Il passaggio dall’economia industriale all’economia della conoscenza avrebbe messo l’intangibile al cuore del valore dell’impresa, un nuovo business composto da innovazione e conoscenza alla cui gestione solo i talenti avrebbero potuto provvedere. D’altra parte la grande bolla speculativa dell’Information Technology esplosa a cavallo dei due secoli sembrava sostenere questa visione, di fatto le aziende combattevano per contendersi i migliori, o almeno i buoni laureati in ingegneria elettronica e informatica in un mercato caratterizzato dall’ansia dello ‘skill shortage’ e della ‘retention’ dei neo laureati. Ricordate? Ancora nel 2001 un rapporto McKinsey intitolava: “La guerra dei talenti continuerà e le imprese non sono preparate”, sostenendo che essa avrebbe impegnato “almeno le due prossime decadi”, in quanto le forze che la causano sono profonde e potenti. Siamo dunque ancora in guerra per i talenti, e lo saremo almeno fino al 2020? Ma la realtà sotto i nostri occhi sembra aver decisamente smentito la profezia di Ed Michaels e Helen Handfield-Jones: gli analisti della McKinsey si erano basati su di una previsione demografica che indicava proprio intorno al 2010 la drastica uscita dalle aziende dei baby boomers, dipendenti di età compresa tra i 35 e i 44 anni nel 2000, in cui era inclusa la fascia dei dirigenti/executive. Da qui la necessità di attrezzarsi per tempo per compensare questa emorragia. Certo gli autori non potevano prevedere una crisi che nemmeno gli economisti hanno saputo annunciare, ma è un fatto che negli ultimi anni le direzioni aziendali, almeno in Italia, invece di combattere per rimpiazzare gli executives, abbiano scelto la guerra agli over 50, esodati senza nemmeno troppo badare a spese e a competenze, con l’unico maledetto e concreto obiettivo di ridurre i costi di struttura. Così ai talenti scalpitanti sul mercato del lavoro dell’inizio del millennio si sono sostituite schiere di giovani brillanti precari e di esperti consulenti, interim manager disperatamente pronti ad offrire la propria esperienza per pochi mesi di affitto. Ma la crisi è anche un alibi, e ha comunque cause che non possiamo considerare indipendenti dai comportamenti e dalle scelte del management. Il rapporto McKinsey del 2001 declinava 10 domande ai manager, la cui risposta “no” avrebbe indicato una scoperta vulnerabilità. La prima di queste domande era: “alla valorizzazione dei talenti nella tua organizzazione dai la stessa attenzione che presti ai problemi di budget o di produzione?”. E la seconda incalzava: “investi il 30-40% o più del tuo tempo per allenare il tuo bacino di talenti? Hai fatto del talento il tuo lavoro?”. In quanti possiamo onestamente rispondere “sì”? E così abbiamo attraversato il secolo senza forse porci mai davvero l’obiettivo di costruire una ‘fabbrica dei talenti’, una fabbrica virtuale che è dentro e fuori l’azienda, nell’impresa come nell’Università, un progetto che, come tutti i grandi progetti, è basato su di una mentalità collettiva, un mindset radicato nella cultura sociale come nel modo di fare impresa. Una grande opera, molto più della TAV o del ponte sullo Stretto. Si sono presentati in 80.000 nei mesi scorsi al più grande concorso del Paese. Ottantamila giovani talenti aggrappati al sogno di X Factor. Solo a Bari ad aprile ne erano cinquemila, più che ai test di ammissione a Medicina, più dei questuanti che bloccarono il traffico di Roma per l’inaugurazione del nuovo negozio di Trony. Meno però dei trecentomila che hanno fatto domanda per i 1.995 posti al Comune di Roma. Non è una folla fatua e indistinta, né si partecipa ad una delle tante lotterie con cui la disoccupazione sfida la fortuna. L’anno scorso questi ragazzi erano cinquantamila, avevano studiato, molti avevano fatto il conservatorio o scuola di canto, hanno provato sotto le luci e le telecamere degli studi televisivi a ‘svelare’ il talento che avevano coltivato e che non sapevano a chi altri gridare. È inquietante questa folla che s’ingrossa, come pure l’idea della funzione della televisione come ufficio di collocamento dei talenti. Forse perché la cultura dell’apparire, del successo, della notorietà ha finito per coltivare il seme del talento solo nel canto. Forse perché nelle imprese e nelle organizzazioni non c’è concorso. Il talento non è quello degli spermatozoi, quello dell’uno su mille ce la fa. È altro, ma è una pianta che cresce solo se coltivata con cura e alla luce del sole. Leggi tutto >

Il morso della mela

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Apple è nel mito, la mela addentata è metafora universale di design ed eccellenza tecnologica, bellezza digitale e tentazione, mentre il suo leggendario fondatore è stato assunto dai media quale stereotipo universale di una leadership visionaria e innovativa, capace di trasformare il mondo con la forza del proprio prodotto. Oggi Apple vale più della Grecia, quanto a forza economica compete con gli Stati, non con le aziende, con numeri impressionanti: in borsa vale 400 miliardi di dollari (più dell’oro custodito a Fort Knox), nella prima trimestrale dell’anno fiscale 2012 ha fatturato 46,3 miliardi di dollari, ha venduto 37 milioni di iPhone, 15,4 milioni di iPad, 5,2 milioni di Mac1. Il grande Steve ci ha lasciato un messaggio chiave, semplice e rivoluzionario: siate folli e affamati di passione, amate ciò che fate, identificatevi col vostro prodotto. Ma se la ricerca del successo mette in moto sin dallo start-up energie straordinarie e sconosciute, la manutenzione del successo è cosa diversa e forse più ardua. Gli stimoli emozionali della fase pionieristica vengono meno, come pure si affievolisce la percezione collettiva delle competenze distintive su cui si è andata costruendo la nuova impresa, il senso del noi rispetto al resto del mondo. Subentra una sorta di ansia da prestazione, la necessità di alzare continuamente gli obiettivi e migliorare le performance. Un errore, anche marginale, può costare lo scivolone dell’impresa, una trimestrale può compromettere anni di risultato. E logiche e stili di gestione inesorabilmente cambiano: il focus manageriale si sposta quasi inconsciamente dalla qualità ai volumi, dal prodotto ai costi di produzione, dall’innovazione al controllo maniacale dei processi, dalla fede nelle proprie capacità all’angoscia del nemico esterno. Anche le ‘virtù’ manageriali ne risentono: più scaltrezza e meno coraggio, più rigore e meno tolleranza, più calcolo e meno ridondanza. E in mezzo a questi passaggi lo stritolamento delle persone e dei talenti. È questa una parabola, un asintoto del destino, col quale tutte le organizzazioni in cui operiamo prima o poi devono fare i conti, come se al di là del punto di massima espansione vi fosse ad attendere il precipizio. Al timone del post-Jobs c’è ora Tim Cook. Sveglia alle 4 e mezzo del mattino, lavora fino a notte, deciso e spietato, pare ingurgiti caffeina e barrette energetiche ad ogni ora del giorno, un capo azienda da 378 milioni di dollari2. Forti le analogie con la figura di Marchionne. Domanda: può e deve esistere una proporzione tra le retribuzioni dei top manager e quelle dei prestatori d’opera? Non si tratta tanto di questione morale, ma di logiche di business: il venire meno del principio di equità, o comunque della percezione di equità all’interno di ogni comunità, mette in crisi il sistema, allontanandolo dall’identità e dall’essenza su cui esso è fondato. Chi si occupa di gestione delle risorse umane sa bene quanto delicata e strategica sia la politica retributiva di un’azienda: può agire da leva della performance, quanto da potente demoltiplicatore della motivazione. Ma i compensi di Tim Cook sono solo la punta di un iceberg. Sì, perché anche le mele hanno un iceberg, o meglio una serie di punti neri in cui si annidano i bachi. Adam Lashinsky, giornalista di Fortune, ha pubblicato un libro-indagine, in cui descrive in modo impietoso l’organizzazione del lavoro all’interno della ‘mela’3. Il quadro che ne emerge è sconcertante: nella casa madre di Cupertino i dipendenti hanno palestra, asilo e mensa, ma tutto rigorosamente a pagamento, non godono di stipendi sopra la media unicamente perché devono sentirsi già retribuiti per il fatto di appartenere al mito. L’imperativo innovare è stato sostituito da ‘secretare’: la consegna prioritaria è la segretezza assoluta sui progetti in cantiere e sugli oggetti su cui si sta lavorando, una confidenza al bar può comportare il licenziamento immediato. Chi opera lavora su di un pezzetto di processo, conosce il dettaglio ma non la visione d’insieme, né l’idea della finalità del proprio lavoro, non sa cosa faccia il proprio compagno di scrivania o di laboratorio. E la produzione? Il successo del Mac si era basato sulla sfida della verticalizzazione integrata, del ‘tutto dentro’, in contrasto con la logica del decentramento spinto perseguita dall’IBM. Oggi Foxconn in Cina è invece il principale partner di fornitura, dà lavoro a 1.200.000 persone, con turni di 24 ore, 12 ore per turno, 6 giorni a settimana. Il prodotto più innovativo del millennio sembra nascere dal ritorno ai tempi moderni dell’operaio Charlot. Organizzazione e gestione delle risorse umane saranno nei prossimi anni arbitri del confine tra il successo e la discesa. Ma l’asintoto è stato raggiunto, il pezzo mancante della mela è rimasto nella bocca di chi vi lavora. Leggi tutto >

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