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Etica e affari

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Può un’azienda in crisi rifiutare una commessa per ragioni etiche? Fa notizia che la Morellato Termotecnica di Pisa abbia rifiutato una commessa legata all’industria bellica: la realizzazione di un impianto di refrigerazione per una vasca di prova dei siluri militari. C’è qualcosa di epico in questo rifiuto: da una parte un ordine di 30 mila euro, con un margine superiore al 30%, che avrebbe dato una boccata d’ossigeno ai dipendenti in CIGS; dall’altra i valori aziendali. Da una parte un’impresa artigianale piccola ma molto qualificata, dall’altra il colosso Finmeccanica. L’affermazione della propria identità contro la logica finanziaria del business. Davide contro Golia. La vera notizia è che ancora oggi, in un desolante scenario di crisi mondiale che ha smentito i miti del mercato, Davide può almeno rivendicare il suo diritto ad esistere. Con il suo gran rifiuto, la piccola Morellato ha lanciato forse un colpo di marketing, ma anche un colpo di fionda alla ‘normalità’. Anche se non lo pratichiamo, in tanti siamo convinti che non si può uscire dalla crisi restando dentro gli stessi schemi che l’hanno provocata. Immersi fino ad affogare in un mondo in cui la logica di cassa prevarica la gestione industriale, le banche continuano a dettare le regole, le retribuzioni dei top manager a mantenersi scandalosamente sproporzionate rispetto a quelle di chi opera, aspettiamo impotenti l’affacciarsi di una ‘nuova normalità’, di un diverso modello di sviluppo o anche di non-sviluppo1, qualcosa che rompa lo schema. Il modello capitalistico nella sua evoluzione postindustriale sembra essere irreversibile e insensibile ad ogni tentativo di temperarne le contraddizioni, eppure c’è un’impresa che può permettersi di pagare un costo (almeno sociale) e selezionare le proprie commesse non sulla base di un criterio finanziario, ma su ben altri parametri, come quelli della coerenza con la propria vision: “abbiamo una grande sfida davanti. Cambiare uno stile di vita che esaurisce le risorse del pianeta e assicurare alle generazioni che verranno una società migliore, più pulita, più solidale”2. Allora possiamo domandarci: che caratteristiche ha un’impresa del genere, come fa a produrre risultati e a stare sul mercato? Se guardiamo bene dentro un’organizzazione del genere non dovremo discostarci molto dal modello della learning organisation teorizzato da Peter Senge nella prima metà degli anni ’90. L’impresa capace di durare nel tempo e di espandere il proprio futuro la si riconosce immediatamente sulla base di due ‘caratteristiche genetiche’: è ancorata ai propri valori fondanti, è guidata da una stakeholder’s strategy. In altri termini, il ritorno del capitale investito è visto nel medio termine, nella capacità di generare valore per tutti i portatori d’interesse e non solo nell’esclusivo interesse dell’azionista. Alla base del suo vitale sistema di funzionamento vi troviamo un’architettura organizzativa leggera come una conchiglia (Senge la difinisce appunto shell) e una spirale di apprendimento, dominio del cambiamento continuo, alimentata dalle competenze delle sue persone, dalla loro sensibilità e consapevolezza, dalle loro attitudini e convinzioni. Nel modello di Senge, al di là delle competenze tecnico-professionali mantenute allo stato dell’arte grazie alla motivazione dei knowledge workers, l’organizzazione che apprende fa leva su cinque discipline condivise da tutto il personale: la padronanza di se stessi, la capacità di rivedere i propri modelli mentali, la visione condivisa di un futuro cui desideriamo di appartenere, la capacità di apprendere come team e non solo come individui, il pensiero sistemico quale costante coerenza nelle relazioni tra tutte le parti del sistema impresa. Ma guardiamoci ancora più dentro. Troveremo che nel suo quotidiano funzionamento questo strano giocattolo è tenuto insieme da un sistema informativo capace di monitorare e misurare ogni processo, dal riferimento a standard e metodi di qualità, dal modo organico e non discrezionale di fare acquisti come di presentare offerte, da un sistema di controllo interno volto a monitorare sistematicamente gli andamenti e le prestazioni, da obiettivi comunicati e condivisi, da un atteggiamento responsabile dei collaboratori, incompatibile con comportamenti lassisti e poco trasparenti. Un’impresa anomala? Un’impresa etica? Una gestione etica dell’impresa può evidentemente anche produrre business e business di pregio. Ma non è finalizzata a questo, è invece indipendente dal business perché l’etica occupa uno spazio che nessuna logica di calcolo può limitare o sopprimere: uno spazio di libertà che è sostanza delle singole persone e scelta dell’impresa che ricerca il valore. Un’impresa normale. La dimensione etica dell’impresa sembra essere tutta qui: in una vera aziendalizzazione dell’impresa. Leggi tutto >

Job Shortage

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

La drammatica mancanza del lavoro oggi non riguarda tutti indistintamente, ha un preciso identikit a due facce: ha il volto pallido dei giovani compresi tra i 18 e i 30 anni, ancora più se laureati, donne e meridionali; la faccia tesa e ruvida di coloro che avendo perso il lavoro dopo i 50 anni, ancor più se professionalizzati, incontrano insormontabili difficoltà di ricollocazione perché ritenuti vecchi da una società vecchia. Nel guado di una crisi che non sembra ancora poter offrire una nuova normalità, la società della vecchia Europa sta denunciando la propria impotenza a includere giovani e anziani nel tessuto produttivo: nessuna progettualità, nessuna politica mirata a costruire le condizioni per bonificare la palude in cui stanno affogando proprio le due generazioni più distanti. La mancanza di futuro è assenza di speranza, forse il segno più evidente di un errore di sistema dell’economia postindustriale. Se c’è una ‘mano invisibile’ all’opera, è quella della finanza tossica che regge le sorti del mercato globale e neutralizza ogni visione di un mondo nuovo. Quali politiche perseguono i governi? Quali piazze mobilitano i sindacati per sostenere un programma? E la visione di un nuovo modello di sviluppo che nasca dalla crisi dov’è? Qualcuno ha raccolto le idee di Rifkin, La civiltà dell’empatia, le riflessioni di Darhendorf sulla fine della democrazia o la Caritas in veritate di Benedetto XVI sull’economia della gratuità? “Lo sviluppo ha bisogno della verità” –sostiene Ratzinger– “bisogna mobilitarsi affinché l’economia evolva verso esiti pienamente umani”. Ma nessuno, tanto meno la Chiesa, si è mosso. E in azienda? Anche qui, in questo luogo-non luogo generatore di valore, non sembra ci si sia interrogati abbastanza sulla natura dei fallimenti, sull’incapacità di reggere le spallate di un mercato in grave contrazione, sulla possibilità di trovare una nuova via al modo di fare impresa. Forse proprio qui, nel fortino degli shareholders, governato esclusivamente dai risultati di cassa, vanno ricercate le cause prime della riduzione del lavoro: il rigido blocco del turnover e il dimensionamento degli organici, molto più dell’innovazione e della cura del cliente, sono stati i postulati su cui si è retta finora la gestione della crisi. In ingresso le porte del fortino sono state chiuse in faccia alle nuove generazioni; in uscita sono stati esiliati ed esodati i più anziani, perché più costosi e più vicini alla pensione. Questa la ferrea logica di un modello di business basato sulla gerarchia e sul controllo, sul potere indiscusso dei supermanager e sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, un modello certamente nemmeno scalfito dal maquillage delle varie ‘carte dei valori’, codici etici, bilanci di sostenibilità. Aidp –Associazione Italiana per la Direzione del Personale– ha recentemente comunicato di aver aderito a Parks – Liberi e Uguali, associazione che si propone di promuovere luoghi di lavoro ‘inclusivi’ e rispettosi di tutti dipendenti, “indipendentemente dal loro orientamento sessuale o dalla loro identità di genere”, per realizzare al massimo nelle aziende socie le opportunità di business legate alla valorizzazione delle diversità (www.parksdiversity.eu). Rosa Parks nel 1955 rifiutò di alzarsi e cedere il suo posto in autobus a un passeggero bianco. Un semplice piccolo gesto da cui partì un movimento che liberò l’America dalla segregazione razziale. A Parks hanno aderito aziende come Ikea, Telecom, Roche, Johnson & Johnson, IBM. Mi chiedo se, oltre a convenire di evitare che il lavoro venga negato ai gay, queste aziende si pongano anche l’obiettivo di evitare la discriminazione sul mercato del lavoro degli anziani ‘high skilled’ e dei giovani, in particolare laureati, donne e meridionali. Lo stato di fatto è che ormai i giovani ‘né studio né lavoro’ vivono ancora a casa oltre i 30 anni, apatici, passivi, computerizzati, e cominciano a godere anche della asfissiante compagnia dei loro genitori ‘né lavoro né pensione’. Ma se le imprese non evolvono verso una nuova cultura industriale, molto possono però fare le Istituzioni locali e le Università. Non certo per creare lavoro, ma per meglio attrezzare i giovani e i senior a espandere il proprio futuro. L’allenamento a sviluppare essenziali competenze d’intelligenza emotiva, dalla self-leadership alla comunicazione, all’influenza e alla resilienza, l’educazione all’autosviluppo, la conoscenza del mercato del lavoro e delle sue regole, non sono materia di studi né scolastici né universitari, eppure rappresentano tasselli portanti per pavimentare la strada che collega lo studio al lavoro, e costruire future possibilità di placement. Nei lontanissimi primi anni ’60 John Kennedy, se non sbaglio, disse agli Americani pressappoco questo: se non possiamo costruire un futuro ai nostri figli, possiamo almeno costruire i nostri figli per il futuro. Cominciamo a farlo. Alcune Università come Luiss e Suor Orsola Benincasa (private!) hanno cominciato ad accompagnare i giovani ad attraversare il confine. Leggi tutto >

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