Tag: Mauro De Martini

Tra libertà e fedeltà

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di Mauro De Martini

Recentemente ho avuto uno scambio d’idee con un responsabile del personale sul tema dell’interpretazione del ruolo. Mi raccontava che nella sua azienda i compiti non sono ben chiari. Ognuno li interpreta a modo suo. Così si sprecano risorse, le attività vengono svolte due o tre volte, da persone diverse. La gente non si parla e non c’è un vero obiettivo comune. Così le cose non possono che funzionare male. Mi diceva che tutto sarebbe molto più semplice se le aziende funzionassero come orchestre, in cui ogni ruolo è ben chiaro e definito, e in cui c’è una partitura certa, un obiettivo uguale per tutti. Nei giorni successivi, ho continuato a pensare alle sue parole, ragionando su quali siano le problematiche legate all’interpretazione musicale. Un modo piuttosto semplice di affrontare il tema è considerare l’interpretazione una ‘riproduzione sonora’ di quanto è scritto sullo spartito. Fino a qui, tutto sembra comprensibile. Tuttavia, se approfondiamo la nozione di ‘spartito’, le cose si complicano un po’. Nel corso della storia, il modo usato per rendere ‘riproducibile’ la musica è cambiato molto. Interpretare uno spartito del Seicento piuttosto che del Novecento presuppone competenze di contesto non banali, anche molto diverse tra loro. I musicisti si sono trovati sempre –e si trovano anche oggi– nella condizione di dover conoscere cose che non sono ‘scritte’ sulla carta. Leggi tutto >

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Risonanze musicali – di Mauro De Martini –

Le contraddizioni organizzative mi hanno sempre affascinato, non tanto per una disposizione giudicante o per razionalità logica, ma perché manifestano la complessità dell’animo umano e rivelano le intricate dinamiche del ‘vivere insieme’. Incontro una di queste contraddizioni in alcune organizzazioni che iscrivono i propri collaboratori ai corsi sulla creatività. Ad alcuni ho partecipato personalmente. Posso testimoniare che il più delle volte sono molto ben progettati, i formatori sono bravi, preparati, creativi, appunto. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è che i corsi sono tenuti presso aziende che non lasciano spazio alcuno alla creatività, che sono normate dai piedi fino alla punta dei capelli, sorvegliano ogni minimo dettaglio e seguono procedure rigidissime, partendo dal come svolgere le mansioni e arrivando al modo di vestire, di rispondere al telefono, di scrivere le e-mail. Le regole sono utili. Sono d’accordo, ma mi domando dove può portare un eccesso di regolamentazione. Se ci domandiamo cosa significhi essere creativi, incontriamo modelli che celebrano un modo di pensare ‘non convenzionale’, ‘divergente’, ‘al di fuori degli schemi’, ma la maggior parte delle organizzazioni richiede rispetto delle convenzioni, delle regole, e soprattutto persone ‘allineate’. Qui sta la contraddizione. Si desiderano persone creative, che mettano a disposizione dell’azienda la loro capacità di innovare, ma la creatività deve essere esercitata in modo convenzionale, molto rispettoso delle norme e delle procedure. In questo periodo s’invocano a gran voce creatività e innovazione, come se possedessero un potere magico o messianico, ma è evidente che stiamo attraversando un momento difficile per la libertà, humus indispensabile per la creatività. Da tempo si assiste a una progressiva, ma inesorabile, regolamentazione di ogni attività umana, e non solo negli ambienti aziendali, ma anche in quelli sociali. Per ogni cosa c’è una nuova regola, una legge, un vincolo. Questa deriva, che mi sembra stia diventando sempre più aggressiva, invece di manifestare un progresso segnala un’involuzione, una rinuncia all’autoregolazione della coscienza individuale, della cultura civile e della responsabilità. I motivi addotti per giustificare il ‘nuovo ordine’ sono ‘la mancanza di risorse’, la necessità del ‘convivere pacifico’, il mantenimento di uno standard qualitativo elevato. Ma se scendiamo sotto la superficie, incontriamo protezione di potere e privilegi, paura del cambiamento, difese di casta. Tutto ciò mi ricorda il periodo della vita in cui il grande Bach, in qualità di Director Musices a Lipsia, si scontrò con il potere religioso e civile della città. Le autorità manifestavano un atteggiamento convenzionale e burocratico, che mal si accordava con il temperamento e il genio creativo del compositore. Nonostante un’immagine che ha resistito per anni, e che rappresentava Bach come vittima, il compositore, ben consapevole del proprio valore, non si sottomise facilmente agli obblighi, spesso vessatori, che il suo ruolo prevedeva. Ne nacque un conflitto fatto di lettere, polemiche, scaramucce, colpi bassi, su questioni apparentemente di poca importanza, ma che puntavano a riportare Bach al rispetto dell’autorità. Bach, in una lunga lettera –‘report’ si direbbe oggi−, fece notare ai suoi capi che gli organici erano inadeguati, sia in termini di numero, che di preparazione musicale. Bach si rendeva conto che queste carenze gli impedivano di esprimere pienamente la sua creatività. Lui puntava a un nuovo linguaggio musicale, più complesso rispetto a quello dei suoi predecessori, che richiedeva competenze maggiori e organici adeguati: “Lo status musices attuale è totalmente diverso: la tecnica è molto più complessa, il gusto si è alquanto modificato, e la vecchia maniera di far musica non suona più confacente alle nostre orecchie, di modo che sarebbe necessario poter disporre di un aiuto più considerevole. Si dovrebbero scegliere soggetti che fossero capaci di applicare il nuovo modo di far musica, al tempo stesso costoro dovrebbero essere in grado di soddisfare il compositore nella realizzazione delle sue musiche: e invece quei pochi beneficia, che semmai avrebbero dovuto essere aumentati, anziché diminuiti, ora sono stati tolti al chorus musicus». La richiesta non venne accolta, anzi, scrive Alberto Basso: “si minimizzavano i risultati musicali e per contro si privilegiavano i doveri di ufficio intesi come supina accettazione dei regolamenti, dei patti scritti e di un certo costume imposto dall’alto”. Nihil sub sole novi! Leggi tutto >

Eccellenza

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Risonanze musicali – di Mauro De Martini –

Da un po’ di tempo noto la diffusione di un’espressione che nella mia testa definisco ‘retorica dell’eccellenza’. Durante le riunioni, le convention, alla televisione, ma anche nei ‘rituali fervorini organizzativi’, è frequente sentire espressioni di questo tipo: “siamo un’organizzazione d’eccellenza”, “dobbiamo creare una scuola d’eccellenza”, “noi mettiamo l’eccellenza al primo posto”. Queste espressioni vanno a braccetto con altre come: “siamo un’azienda leader”, “gli Stati Leader”, “i grandi dell’economia” –di cui l’Italia fa parte, ovviamente, e lo diciamo con un sorriso che assomiglia a un rictus–. Qualche giorno fa, nel corso di una convention in ‘un’azienda leader’ del proprio mercato, parlava l’Amministratore Delegato e declamava una serie di frasi proprio di questo genere: “noi abbiamo una tradizione di leadership che dobbiamo difendere”, “la nostra è un’azienda d’eccellenza mondiale” ecc. Purtroppo quel mercato è in forte difficoltà, più di molti altri che in questo momento stanno soffrendo la crisi economica. Osservavo la platea di tecnici cui il manager si rivolgeva. Sui loro volti era dipinta un’espressione sgomenta. Quelle parole risuonavano in un silenzio assoluto, ma avevano il timbro di una campana rotta. Ad un certo momento, il relatore chiede: “Vi domando: cosa potete fare voi per mantenere l’eccellenza che ci ha sempre contraddistinto?”. Dopo questa domanda vi assicuro che si poteva ‘vedere il silenzio’. Nessuno parlava. Non si sentiva neanche il respiro delle persone. Sembrava che tutti trattenessero il fiato. Improvvisamente si alza un tipo, in fondo alla sala e dice: “Non so se come soluzione va bene, ma il valore che ho sempre cercato di seguire è stato fare ogni giorno il meglio che potevo, il più onestamente possibile. Sa, quelle cose lì dell’eccellenza e della leadership mi sembrano troppo americane e a me non convincono molto”. Subito dopo è scoppiata la bagarre. Tornando a casa, ho pensato alla cultura italiana, che è stata caratterizzata proprio dall’eccellenza. Tutto il mondo ci ha invidiato l’ingegno e la creatività. Noi abbiamo avuto artisti, architetti, scienziati, filosofi, industriali tra i più grandi che la storia dell’umanità abbia conosciuto. Mi domando: erano guidati dal desiderio di eccellere? Sono convinto di no, almeno per la maggior parte. Credo che il lavoro di chi eccelle non sia mosso dalla ricerca d’eccellenza, che richiama il gusto della competizione. Ritengo che la molla motivazionale fosse più simile al valore definito dal tecnico intervenuto alla convention: fare il meglio e onestamente, nel quotidiano. Voglio portare un esempio concreto tratto dalla storia della musica. Questa volta non parlerò di musicisti, ma di costruttori di strumenti musicali. Mi riferisco in particolare ai liutai. Se pensiamo a quello che è avvenuto dal 1700 a Cremona, con Amati, Stradivari, Guarneri del Gesù, Bergonzi, e altri, fino ad oggi, troviamo creazioni meravigliose, ai vertici della liuteria di tutti i tempi. Stiamo parlando di violini, viole, viole da gamba, chitarre, mandolini e tantissimi altri straordinari strumenti che hanno fatto la storia della musica. Oggi, alcuni studiosi, dopo anni d’indagini approfondite, attribuiscono la ragione di tale qualità a certe sostanze con cui gli strumenti venivano trattati. Altri hanno pensato al legno, alla forma, alle tecniche di assemblaggio e a mille altre cose. Fatto sta che quegli strumenti hanno rappresentato ‘eccellenze’ per schiere di musicisti. Spiegare il motivo dal punto di vista tecnico mi è impossibile, perché non me ne intendo e perché credo sia molto complesso, oltre a sembrare un intricato groviglio di rovi pericolosi. Il motivo probabilmente abita in un luogo d’incontro imprecisato tra scienza e gusto. Ciò che si può cogliere però è la storia di un grande ingegno, di uno spirito di ricerca volto a fare il meglio, con grande passione, forse con l’obiettivo di creare qualcosa che abbia valore ‘in sé’. Voler eccellere non basta, bisogna trovare motivazioni interne, qualcosa su cui valga la pena scommettere la propria vita. Non è sufficiente puntare a superare i cinesi! Penso che, ancora oggi, se vogliamo raccogliere il testimone spirituale di questa scuola straordinaria –e non necessariamente nello stesso settore– siamo chiamati a seguire gli stessi valori: apprendimento continuo, conoscenza della tradizione e interesse per l’innovazione, attitudine al fare accompagnata da una solida cultura, cura del dettaglio e della qualità, comprensione del contesto e tanto amore per il proprio lavoro. L’eccellenza verrà di conseguenza, ma ce ne potremo infischiare. Leggi tutto >

Forme d’incontro

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Risonanze musicali – di Mauro De Martini –

Non molto tempo fa mi è capitato un episodio che ritengo interessante. Per un po’ sono stato in dubbio se raccontarlo attraverso questa pagina, perché non desidero centrare l’attenzione su un giudizio. Tuttavia la fiducia nei lettori della rubrica mi incoraggia. Così vado avanti, lasciando da parte i dubbi, e do voce all’esperienza personale. Sono stato convocato per un colloquio da un responsabile della formazione. Dopo i primi convenevoli, il manager inizia a raccontare la situazione aziendale e prosegue ininterrottamente per parecchio tempo. Cerco di fare qualche domanda o riformulare qualche concetto, ma è impossibile intervenire. Vengo immediatamente troncato. Il mio interlocutore prosegue nella sua descrizione. Mi viene presentato un ampio documento dove sono spiegate la vision e la mission dell’azienda. Cerco di intervenire per capire meglio. Ma quando parlo, mi rendo conto che l’altra persona stacca completamente l’attenzione, sembra quasi irritata. A un certo momento, pare giunto il mio turno. Il manager chiede la mia opinione. Apro la bocca e dico due parole. Squilla il suo cellulare. Lui si alza, abbandona il tavolo dell’incontro, e risponde. Rimango in silenzio, fino al termine della lunga telefonata. Il manager ritorna al tavolo. Cerco di riprendere il filo del discorso, ma viene nuovamente interrotto dal cellulare. Altri cinque minuti d’attesa. Terminata anche questa telefonata, ricomincio dall’inizio. Mentre parlo, ho la netta impressione di non essere ascoltato. Infatti, dopo un istante, vengo interrotto. A un tratto, mi arriva un messaggio sms. Prendo il telefono per spegnerlo. Subito il manager mi apostrofa: “Beh, io sto parlando, ma mi ascolti o rispondi ai messaggi?”. Come dicevo, non sono intenzionato a esprimere un giudizio. Chi può dire cosa passasse nell’animo del mio interlocutore? Mi sembrava piuttosto in ansia, forse era quello che gli impediva di centrarsi su ciò che cercavo di dire. Mi interessa invece sottolineare un fenomeno che sembra diffondersi e che, talvolta, riguarda anche me. Ho la netta sensazione che sia sempre più difficile trovare, e mettere in atto, atteggiamenti di ascolto autentico. Non so bene quale sia la causa. Me ne accorgo non perché manchino interlocutori disposti ad ascoltare, ma perché colgo un dilagante bisogno d’espressione. Mi sembra che stia aumentando l’urgenza di affermare se stessi, di posizionarsi rispetto alle affermazioni dell’altro. Sarà forse il frangente di crisi che stiamo attraversando? Siamo spaventati e cerchiamo di riaffermare, come un mantra, le nostre convinzioni, le nostre soluzioni salvifiche? Quando affermo che queste sono percezioni mie, intendo relativizzarle. Il mio osservatorio è piuttosto limitato e condizionato dal mio stato d’animo. Inoltre sono consapevole che il mio palato è molto esigente, forse troppo. La ‘colpa’ sta nella mia esperienza musicale, che mi ha fatto apprezzare il ‘gusto dell’ascolto’ o, per meglio dire, la ‘gioia d’ascoltare’. La musica è la dimensione dell’ascolto. Anzi, sono convinto che la musica sia scritta per essere ascoltata. È vero che c’è la musica per la danza, quella d’ambiente, quella per rilassare e così via. Sono forme in cui l’ascolto non è protagonista. Ma anche oggi, in cui possiamo dire che la musica –cosiddetta– classica non è più l’unica musica, la musica è prevalentemente fatta per essere ascoltata. L’esperienza d’ascolto è stupefacente perché è sempre in dialogo. Ci si apre al mondo di chi l’ha scritta e una parte di noi risuona con quanto viene suonato. Ogni ‘ascoltare’ è anche un ‘ascoltarsi’ –può darsi che qui si annidi una paura–. La musica propone un incontro. La stessa musica viene eseguita da vari interpreti. C’è una struttura che non muta, che mantiene la propria identità, e un’altra che muta, in funzione di chi la esegue. Anzi, ogni nuovo ascolto è arricchito dagli ascolti precedenti. Ogni ascolto è un incontro sorprendente, come ogni persona che conosciamo rappresenta una stupefacente possibilità d’incontro. La musica, poi, chiede di essere ascoltata nuovamente, di essere conosciuta meglio. Più la si ascolta, più la si ama. Ciò nondimeno è importante la ‘forma’ di questo incontro. Un requisito fondamentale è il tempo. In una società in cui ‘non c’è più tempo’, come facciamo ad ascoltare e a incontrare? E per incontrare bisogna mettersi in gioco, porre attenzione a chi e a cosa si ascolta. Perciò credo che la ‘formazione’ prima di essere comunicazione di contenuti, o tentativo di cambiare i comportamenti, sia attenzione alla ‘forma’ dei nostri incontri. Leggi tutto >

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