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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

L’azienda era ormai stata ridotta a controllata di una holding internazionale con sede in Lussemburgo, partecipazione in varie consociate estere e nei più diversi settori di business. Una proprietà tanto più diafana, anonima, indecifrabile, quanto più virtuale ed evanescente si faceva la stessa attività dell’impresa: servizi di global service per terzi, gestione di appalti, intermediazione commerciale. Un’azienda derivata, come derivati erano i titoli in cui investiva e con i quali moltiplicava il capitale. Privata dell’anima, quell’impresa che un tempo sentiva battere con ritmo perfetto il suo cuore svizzero, guidata ora dalla sola logica finanziaria, aveva perso il senso del valore, non generava più valore, ma pura speculazione. Era divenuta di carta, ed esposta a ogni vento, prima o poi, come un castello di carte sarebbe crollata. In questa drammatica fase di crisi dell’economia sono molti i manager, ma in particolare quelli che hanno superato la soglia dei 50, che hanno scoperto –spesso anche con stupore– che il re è nudo. L’azienda in cui avevano investito un’intera vita professionale li aveva traditi, il cambiamento del business e dell’assetto societario negli ultimi dieci anni era stato così strisciante da non imporsi all’evidenza. E loro erano rimasti bolliti come rane, nell’acqua fredda via via portata a ebollizione. La gestione guidata unicamente o prevalentemente dal criterio finanziario ha fatto anche di molte imprese ‘aziende derivate’, bacate al pari dei prodotti finanziari che hanno contaminato il mondo dell’economia, fino a portarlo al limite del collasso. Ci sono vite, la mia, quelle di molti che conosco, chiamate necessariamente a ristrutturarsi, affrontando un cammino duro, a volte anche mortificante perché occorre spesso bussare a porte altrui. Ci sono competenze ultradecennali che nel riciclo dei manager andranno disperse. Il PIL, anche se dovesse tornare a crescere, non misurerà questi aspetti. L’esperienza della vita aziendale ci ha necessariamente formati, più di qualunque altra categoria di professionisti, alla gestione del cambiamento. Ma si è trattato di una formazione on the job, maturata nel turnover delle responsabilità, nelle sfide di obiettivi sempre nuovi e spesso contraddittori, nell’adozione di nuove procedure, nell’innovazione di ogni processo. Difficile che ci sia stata offerta l’opportunità di una formazione effettiva, quella capace di concettualizzare l’esperienza, di generare nuovi schemi mentali e provocare un cambiamento personale. Ho conosciuto direttori del Personale che mi hanno detto: questo non è un problema dell’azienda, è un problema personale. Non pensiamo certo di spendere soldi per migliorare la loro capacità di affrontare i cambiamenti, son cavoli loro, d’altra parte è proprio qui che li misuriamo: hinc sunt leones! Bravi, aziendalisti, rampanti! Certo. Ogni manager, più che preoccuparsi solo di tenere la propria cassetta degli attrezzi aggiornata e in ordine, dovrebbe in primis provvedere alla capacità di investire su se stesso, come dire badare alla propria sopravvivenza. Ma l’impresa? Non è chiamata l’impresa, oggi più che mai, a rialzarsi sulle proprie stampelle e a provare a camminare verso la propria ripresa? Non vi è dubbio che le imprese che escono dal tunnel non sono quelle che chiedono provvidenze governative o addebitano i propri problemi ai facili alibi della scarsa flessibilità e produttività dei dipendenti italiani. Ma quelle invece che trovano le stampelle necessarie per rialzarsi proprio nelle qualità umane delle proprie ‘risorse umane’. Neppure però basta dire investire nello sviluppo delle risorse umane, perché non c’è una formazione per tutte le stagioni. Se c’è stato un modello di education adeguato ai tempi di espansione dell’economia, ne occorre oggi uno diverso, nei contenuti e nei metodi, adatto alla fase di endemica instabilità del sistema. Leggi tutto >

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Risonanze musicali – di Mauro De Martini –

Le contraddizioni organizzative mi hanno sempre affascinato, non tanto per una disposizione giudicante o per razionalità logica, ma perché manifestano la complessità dell’animo umano e rivelano le intricate dinamiche del ‘vivere insieme’. Incontro una di queste contraddizioni in alcune organizzazioni che iscrivono i propri collaboratori ai corsi sulla creatività. Ad alcuni ho partecipato personalmente. Posso testimoniare che il più delle volte sono molto ben progettati, i formatori sono bravi, preparati, creativi, appunto. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è che i corsi sono tenuti presso aziende che non lasciano spazio alcuno alla creatività, che sono normate dai piedi fino alla punta dei capelli, sorvegliano ogni minimo dettaglio e seguono procedure rigidissime, partendo dal come svolgere le mansioni e arrivando al modo di vestire, di rispondere al telefono, di scrivere le e-mail. Le regole sono utili. Sono d’accordo, ma mi domando dove può portare un eccesso di regolamentazione. Se ci domandiamo cosa significhi essere creativi, incontriamo modelli che celebrano un modo di pensare ‘non convenzionale’, ‘divergente’, ‘al di fuori degli schemi’, ma la maggior parte delle organizzazioni richiede rispetto delle convenzioni, delle regole, e soprattutto persone ‘allineate’. Qui sta la contraddizione. Si desiderano persone creative, che mettano a disposizione dell’azienda la loro capacità di innovare, ma la creatività deve essere esercitata in modo convenzionale, molto rispettoso delle norme e delle procedure. In questo periodo s’invocano a gran voce creatività e innovazione, come se possedessero un potere magico o messianico, ma è evidente che stiamo attraversando un momento difficile per la libertà, humus indispensabile per la creatività. Da tempo si assiste a una progressiva, ma inesorabile, regolamentazione di ogni attività umana, e non solo negli ambienti aziendali, ma anche in quelli sociali. Per ogni cosa c’è una nuova regola, una legge, un vincolo. Questa deriva, che mi sembra stia diventando sempre più aggressiva, invece di manifestare un progresso segnala un’involuzione, una rinuncia all’autoregolazione della coscienza individuale, della cultura civile e della responsabilità. I motivi addotti per giustificare il ‘nuovo ordine’ sono ‘la mancanza di risorse’, la necessità del ‘convivere pacifico’, il mantenimento di uno standard qualitativo elevato. Ma se scendiamo sotto la superficie, incontriamo protezione di potere e privilegi, paura del cambiamento, difese di casta. Tutto ciò mi ricorda il periodo della vita in cui il grande Bach, in qualità di Director Musices a Lipsia, si scontrò con il potere religioso e civile della città. Le autorità manifestavano un atteggiamento convenzionale e burocratico, che mal si accordava con il temperamento e il genio creativo del compositore. Nonostante un’immagine che ha resistito per anni, e che rappresentava Bach come vittima, il compositore, ben consapevole del proprio valore, non si sottomise facilmente agli obblighi, spesso vessatori, che il suo ruolo prevedeva. Ne nacque un conflitto fatto di lettere, polemiche, scaramucce, colpi bassi, su questioni apparentemente di poca importanza, ma che puntavano a riportare Bach al rispetto dell’autorità. Bach, in una lunga lettera –‘report’ si direbbe oggi−, fece notare ai suoi capi che gli organici erano inadeguati, sia in termini di numero, che di preparazione musicale. Bach si rendeva conto che queste carenze gli impedivano di esprimere pienamente la sua creatività. Lui puntava a un nuovo linguaggio musicale, più complesso rispetto a quello dei suoi predecessori, che richiedeva competenze maggiori e organici adeguati: “Lo status musices attuale è totalmente diverso: la tecnica è molto più complessa, il gusto si è alquanto modificato, e la vecchia maniera di far musica non suona più confacente alle nostre orecchie, di modo che sarebbe necessario poter disporre di un aiuto più considerevole. Si dovrebbero scegliere soggetti che fossero capaci di applicare il nuovo modo di far musica, al tempo stesso costoro dovrebbero essere in grado di soddisfare il compositore nella realizzazione delle sue musiche: e invece quei pochi beneficia, che semmai avrebbero dovuto essere aumentati, anziché diminuiti, ora sono stati tolti al chorus musicus». La richiesta non venne accolta, anzi, scrive Alberto Basso: “si minimizzavano i risultati musicali e per contro si privilegiavano i doveri di ufficio intesi come supina accettazione dei regolamenti, dei patti scritti e di un certo costume imposto dall’alto”. Nihil sub sole novi! Leggi tutto >

Forme d’incontro

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Risonanze musicali – di Mauro De Martini –

Non molto tempo fa mi è capitato un episodio che ritengo interessante. Per un po’ sono stato in dubbio se raccontarlo attraverso questa pagina, perché non desidero centrare l’attenzione su un giudizio. Tuttavia la fiducia nei lettori della rubrica mi incoraggia. Così vado avanti, lasciando da parte i dubbi, e do voce all’esperienza personale. Sono stato convocato per un colloquio da un responsabile della formazione. Dopo i primi convenevoli, il manager inizia a raccontare la situazione aziendale e prosegue ininterrottamente per parecchio tempo. Cerco di fare qualche domanda o riformulare qualche concetto, ma è impossibile intervenire. Vengo immediatamente troncato. Il mio interlocutore prosegue nella sua descrizione. Mi viene presentato un ampio documento dove sono spiegate la vision e la mission dell’azienda. Cerco di intervenire per capire meglio. Ma quando parlo, mi rendo conto che l’altra persona stacca completamente l’attenzione, sembra quasi irritata. A un certo momento, pare giunto il mio turno. Il manager chiede la mia opinione. Apro la bocca e dico due parole. Squilla il suo cellulare. Lui si alza, abbandona il tavolo dell’incontro, e risponde. Rimango in silenzio, fino al termine della lunga telefonata. Il manager ritorna al tavolo. Cerco di riprendere il filo del discorso, ma viene nuovamente interrotto dal cellulare. Altri cinque minuti d’attesa. Terminata anche questa telefonata, ricomincio dall’inizio. Mentre parlo, ho la netta impressione di non essere ascoltato. Infatti, dopo un istante, vengo interrotto. A un tratto, mi arriva un messaggio sms. Prendo il telefono per spegnerlo. Subito il manager mi apostrofa: “Beh, io sto parlando, ma mi ascolti o rispondi ai messaggi?”. Come dicevo, non sono intenzionato a esprimere un giudizio. Chi può dire cosa passasse nell’animo del mio interlocutore? Mi sembrava piuttosto in ansia, forse era quello che gli impediva di centrarsi su ciò che cercavo di dire. Mi interessa invece sottolineare un fenomeno che sembra diffondersi e che, talvolta, riguarda anche me. Ho la netta sensazione che sia sempre più difficile trovare, e mettere in atto, atteggiamenti di ascolto autentico. Non so bene quale sia la causa. Me ne accorgo non perché manchino interlocutori disposti ad ascoltare, ma perché colgo un dilagante bisogno d’espressione. Mi sembra che stia aumentando l’urgenza di affermare se stessi, di posizionarsi rispetto alle affermazioni dell’altro. Sarà forse il frangente di crisi che stiamo attraversando? Siamo spaventati e cerchiamo di riaffermare, come un mantra, le nostre convinzioni, le nostre soluzioni salvifiche? Quando affermo che queste sono percezioni mie, intendo relativizzarle. Il mio osservatorio è piuttosto limitato e condizionato dal mio stato d’animo. Inoltre sono consapevole che il mio palato è molto esigente, forse troppo. La ‘colpa’ sta nella mia esperienza musicale, che mi ha fatto apprezzare il ‘gusto dell’ascolto’ o, per meglio dire, la ‘gioia d’ascoltare’. La musica è la dimensione dell’ascolto. Anzi, sono convinto che la musica sia scritta per essere ascoltata. È vero che c’è la musica per la danza, quella d’ambiente, quella per rilassare e così via. Sono forme in cui l’ascolto non è protagonista. Ma anche oggi, in cui possiamo dire che la musica –cosiddetta– classica non è più l’unica musica, la musica è prevalentemente fatta per essere ascoltata. L’esperienza d’ascolto è stupefacente perché è sempre in dialogo. Ci si apre al mondo di chi l’ha scritta e una parte di noi risuona con quanto viene suonato. Ogni ‘ascoltare’ è anche un ‘ascoltarsi’ –può darsi che qui si annidi una paura–. La musica propone un incontro. La stessa musica viene eseguita da vari interpreti. C’è una struttura che non muta, che mantiene la propria identità, e un’altra che muta, in funzione di chi la esegue. Anzi, ogni nuovo ascolto è arricchito dagli ascolti precedenti. Ogni ascolto è un incontro sorprendente, come ogni persona che conosciamo rappresenta una stupefacente possibilità d’incontro. La musica, poi, chiede di essere ascoltata nuovamente, di essere conosciuta meglio. Più la si ascolta, più la si ama. Ciò nondimeno è importante la ‘forma’ di questo incontro. Un requisito fondamentale è il tempo. In una società in cui ‘non c’è più tempo’, come facciamo ad ascoltare e a incontrare? E per incontrare bisogna mettersi in gioco, porre attenzione a chi e a cosa si ascolta. Perciò credo che la ‘formazione’ prima di essere comunicazione di contenuti, o tentativo di cambiare i comportamenti, sia attenzione alla ‘forma’ dei nostri incontri. Leggi tutto >

Vox Humana

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Risonanze musicali – di Mauro De Martini –

Qualche anno fa ho partecipato a un corso di formazione tenuto da una direttrice di coro. Il tema non era il canto corale. Era uno dei tanti corsi di crescita personale, un po’ improbabili, a cui mi sono iscritto negli ultimi vent’anni. Succede così: quando sto correndo in modo esagerato e l’ansia dilaga, scatta un interruttore automatico che mi costringe a rallentare. Sento un impulso di fare un po’ di pausa, prendere un po’ di tempo per me e interrompere la frenesia degli impegni quotidiani. Cerco di pensare a quello che mi sta capitando. La maestra di coro era stata invitata dall’ente che organizzava i seminari e sembrava piuttosto irrequieta, non a proprio agio. Probabilmente non era abituata a fare queste cose. Ma passati pochi istanti si dimostrò bravissima. Ci mise in cerchio e ci fece semplicemente respirare, prendendo consapevolezza del nostro respiro –quante volte in un giorno ci concentriamo su come respiriamo?–. Ci stava introducendo alla base del canto, che non è esclusivamente emissione del suono, è anche respirazione. Lei girava per l’aula ascoltando il nostro respiro, invitandoci a chiudere gli occhi, a rilassare i muscoli e a concentrarci sul ritmo. Poi ci chiese di emettere ‘la nostra nota’. Questa domanda un po’ bizzarra fece sorridere qualcuno. “Che vuol dire emettere la ‘nostra nota’?”, chiese uno. Lei imperturbabile rispose: “una nota che sentite vostra, che esprima il vostro modo di essere”. In questi casi il mio lato razionale si agita. Avrei voluto sollevare qualche obiezione, ma forse per la lunga abitudine all’obbedienza scolastica o per il lato irrazionale che spinge nella direzione opposta –ma buttati una volta tanto!–, feci come aveva chiesto. Con poco sforzo emisi una nota che conoscevo già da molto tempo, perché mi piace e perché so che in quel registro suona bene. Sentii che altri attorno a me stavano facendo la stessa cosa. Il risultato fu una divertente, e un po’ imbarazzata, cacofonia. La ‘maestra’ continuava a girellare tra noi, avvicinando l’orecchio ora a uno, ora a un altro. Facendo un gesto con la mano, come fosse normale, faceva un intuibile gesto per controllare l’intensità della nostra emissione sonora. L’indicazione successiva fu di cambiare nota. Come accade sempre, iniziarono dei naturali ‘aggiustamenti’ e ‘accordature’. Quello che era nato come un clangore di campane, lentamente, ma in modo chiaramente percepibile, diventò un suono piacevole da sentire. Ci stavamo intonando. Che meraviglia cantare insieme! Da quando studio musica lo strumento che mi affascina di più è proprio la voce umana. Ci sono mille strumenti fantastici, tutti hanno un suono incantevole e hanno una storia incredibile da raccontare, ma la voce ha qualcosa in più, qualcosa di magico. Per me il canto umano è un modo particolare di entrare in relazione con gli altri e con noi stessi, che ha legami profondi con il nostro modo di relazionarci in generale. Ogni persona emette un suono con un’identità propria, irripetibile. Questa constatazione, per quanto ovvia, ci fa apparire l’ascolto della voce umana come un’esperienza percettiva ricchissima e dovrebbe far sorgere qualche dubbio a chi pensa che le persone sono tutte intercambiabili, e ciò che conta sono le funzioni. Per un direttore di coro invece è un fatto ovvio. Ogni volta che entra a far parte del coro un nuovo cantore, o uno se ne va, il ‘suono’ del coro cambia. Cantare in coro significa quindi fare andare d’accordo persone che emettono suoni, in un certo senso, ‘diversi’. L’esperienza di canto corale forma all’accoglimento della differenza. La differenza è massimamente valorizzata perché è il valore aggiunto di ogni individuo. Allo stesso tempo, c’è la volontà di cantare tutti insieme la stessa musica, e quindi di ‘andare d’accordo’, rinunciando al potere di prevalere, per raggiungere un risultato collettivo. Inoltre, cantare insieme ci mette a confronto con la nostra stessa voce. Chi lavora sulla propria voce sa che attività incessante sia trovare ‘la propria voce’ e valorizzarla al meglio. In parte è attività tecnica ed esercizio, ma credo sia anche un percorso spirituale, legato profondamente alla realizzazione di sé. Alcuni riescono a far percepire questo agli ascoltatori: “Ecco, questa è la mia voce, io sono fatto così, non ho paura di esprimerla davanti a te e insieme a te”. È evidente la congruenza tra quello che comunicano con la voce e ciò che sono. Può piacere o non piacere, ma qui siamo nel regno del gusto. Per questo penso che l’unione di persone che fanno questo percorso insieme genera forme bellissime e altissime d’espressione umana. E non mi riferisco solo al canto corale. Leggi tutto >

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