Tag: finanza

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Editoriale – di Francesco Varanini – 

Mi scrive via e-mail un amico che ricopre un importante ruolo manageriale in una grande azienda. “Molte emergenze. E un gran casino. Mercato in caduta libera”. Poche lapidarie parole, scritte, immagino, in gran fretta; ovviamente inviate, come mi informa il messaggio in calce alla e-mail, “dal palmare wireless BlackBerry”. Un primo commento riguarda lo stile di vita. Così siamo, o forse meglio: ci siamo costretti a vivere, e quindi a lavorare. Senza un attimo di respiro, sempre pressati da urgenze che non sappiamo più mettere in ordine di priorità. Sempre di fretta, anzi di corsa, di gran carriera. Mi chiedo: come è possibile prendere decisioni se non ci concediamo il tempo per riflettere, per guardarci intorno, per ascoltare qualche voce amica. E sopratutto: come possiamo decidere se non abbiamo il tempo per parlare con chi, vivendo ben più in basso nella scala gerarchica, ma in contatto proprio per questo con gli eventi, può renderci partecipi di cosa sta realmente accadendo dentro la nostra stessa azienda. Un secondo commento discende dal primo. Come ho cercato di mostrare nel mio libro Contro il management, i manager sono gravemente condizionati nel loro agire dalle aspettative e dalle esigenze e non di rado dall’arroganza degli stakeholder più dotati di strumenti di pressione. La famiglia che vive del reddito prodotto dall’impresa, i fondi di investimento che hanno quote nel capitale della società, sono certo stakeholder di cui tener conto. Possiamo anche dire che sono i primi stakeholder di cui il manager deve tener conto. Ma se il manager si schiaccia sulle aspettative di questi stakeholder, se dedica oltre un certo limite tempo e attenzione alla gestione dei rapporti con questi stakeholder, finisce –paradossalmente– per non poter portare loro i risultati che essi si attendono. Un manager, se vuole ottenere risultati, non può dimenticare che esistono altri stakeholder, e che solo porgendo loro attenzione è possibile ottenere risultati. Se il manager non ha tempo e testa per parlare con chi in azienda lavora, se non ha tempo e testa per mettersi realmente nei panni dei clienti e dei fornitori, non potrà ottenere nessun risultato. Tagliare linearmente i costi non serve a nulla. Significa solo togliere qualcosa di più a lavoratori, clienti e fornitori. Se togliamo loro ancora qualcosa, i tagli –downsizing, spending review, restructuring– non avranno effetti significativi, non serviranno certo ad invertire il trend. Dove sta la speranza? Trovo speranza nell’e-mail di un altro importante manager della stessa azienda, una e-mail giuntami quasi contemporaneamente a quella citata sopra. “Oggi sono particolarmente preoccupato e deluso della situazione”. Cita un fatto grave accaduto, e si chiede: “Ma come si fa a far succedere una cosa del genere?”. Formulata la domanda, si risponde da solo. “So di dire una cosa grave, ma riflettendo sulla situazione penso che siano ormai fatti inevitabili, data la catena di comando (sì, proprio la catena di comando, non più solo le singole persone)” che guida l’azienda. Continua: “La situazione è molto seria. Vedo ormai persone disunite, che vanno a braccio e in ordine sparso, ciascuno ostaggio della propria miope microagenda”. E poi: “Soprattutto, non c’è nessuno che si prenda la cura di controllare il lavoro delle persone – anche di alto grado; tutti guardano gli indicatori e nessuno controlla come si lavora”. Nel dire questo so che questo manager non si sta chiamando fuori, ma al contrario: sta assumendosi responsabilità rispetto a quello che accade. Questo manager, nonostante le pressioni che subisce, nonostante la fretta, si concede –o forse anche: impone a se stesso– di concedere tempo alla riflessione, al ragionamento, all’autocritica. Nel terminare il messaggio –rivolto, credo, non solo a me, ma innanzitutto a se stesso–, scrive: “Non vorrei chiudere senza speranze, ma in questo momento non so che altro fare oltre a impegnarmi per le cose che posso gestire”. In questo sta appunto la speranza. La speranza sta nel fatto che in ogni azienda ci siano manager come questo mio amico. La loro disponibilità a pensare e a guardarsi intorno è la base sulla quale costruire performance migliori. Il loro atteggiamento è il modo efficace per far fronte alle emergenze, al casino, per costruire azioni in grado di far fronte al mercato in caduta libera. Il loro atteggiamento –al contempo– è una salutare testimonianza, che aiuta i manager pressati dall’urgenza. Nessuno mette in dubbio il valore della loro reattività, il valore della capacità di agire subito. Ma altrettanto, o forse più, vale concedersi il tempo per pensare, e per fare le cose con cura, senza saltare necessari passaggi. Leggi tutto >

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

L’azienda era ormai stata ridotta a controllata di una holding internazionale con sede in Lussemburgo, partecipazione in varie consociate estere e nei più diversi settori di business. Una proprietà tanto più diafana, anonima, indecifrabile, quanto più virtuale ed evanescente si faceva la stessa attività dell’impresa: servizi di global service per terzi, gestione di appalti, intermediazione commerciale. Un’azienda derivata, come derivati erano i titoli in cui investiva e con i quali moltiplicava il capitale. Privata dell’anima, quell’impresa che un tempo sentiva battere con ritmo perfetto il suo cuore svizzero, guidata ora dalla sola logica finanziaria, aveva perso il senso del valore, non generava più valore, ma pura speculazione. Era divenuta di carta, ed esposta a ogni vento, prima o poi, come un castello di carte sarebbe crollata. In questa drammatica fase di crisi dell’economia sono molti i manager, ma in particolare quelli che hanno superato la soglia dei 50, che hanno scoperto –spesso anche con stupore– che il re è nudo. L’azienda in cui avevano investito un’intera vita professionale li aveva traditi, il cambiamento del business e dell’assetto societario negli ultimi dieci anni era stato così strisciante da non imporsi all’evidenza. E loro erano rimasti bolliti come rane, nell’acqua fredda via via portata a ebollizione. La gestione guidata unicamente o prevalentemente dal criterio finanziario ha fatto anche di molte imprese ‘aziende derivate’, bacate al pari dei prodotti finanziari che hanno contaminato il mondo dell’economia, fino a portarlo al limite del collasso. Ci sono vite, la mia, quelle di molti che conosco, chiamate necessariamente a ristrutturarsi, affrontando un cammino duro, a volte anche mortificante perché occorre spesso bussare a porte altrui. Ci sono competenze ultradecennali che nel riciclo dei manager andranno disperse. Il PIL, anche se dovesse tornare a crescere, non misurerà questi aspetti. L’esperienza della vita aziendale ci ha necessariamente formati, più di qualunque altra categoria di professionisti, alla gestione del cambiamento. Ma si è trattato di una formazione on the job, maturata nel turnover delle responsabilità, nelle sfide di obiettivi sempre nuovi e spesso contraddittori, nell’adozione di nuove procedure, nell’innovazione di ogni processo. Difficile che ci sia stata offerta l’opportunità di una formazione effettiva, quella capace di concettualizzare l’esperienza, di generare nuovi schemi mentali e provocare un cambiamento personale. Ho conosciuto direttori del Personale che mi hanno detto: questo non è un problema dell’azienda, è un problema personale. Non pensiamo certo di spendere soldi per migliorare la loro capacità di affrontare i cambiamenti, son cavoli loro, d’altra parte è proprio qui che li misuriamo: hinc sunt leones! Bravi, aziendalisti, rampanti! Certo. Ogni manager, più che preoccuparsi solo di tenere la propria cassetta degli attrezzi aggiornata e in ordine, dovrebbe in primis provvedere alla capacità di investire su se stesso, come dire badare alla propria sopravvivenza. Ma l’impresa? Non è chiamata l’impresa, oggi più che mai, a rialzarsi sulle proprie stampelle e a provare a camminare verso la propria ripresa? Non vi è dubbio che le imprese che escono dal tunnel non sono quelle che chiedono provvidenze governative o addebitano i propri problemi ai facili alibi della scarsa flessibilità e produttività dei dipendenti italiani. Ma quelle invece che trovano le stampelle necessarie per rialzarsi proprio nelle qualità umane delle proprie ‘risorse umane’. Neppure però basta dire investire nello sviluppo delle risorse umane, perché non c’è una formazione per tutte le stagioni. Se c’è stato un modello di education adeguato ai tempi di espansione dell’economia, ne occorre oggi uno diverso, nei contenuti e nei metodi, adatto alla fase di endemica instabilità del sistema. Leggi tutto >

Etica e affari

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Può un’azienda in crisi rifiutare una commessa per ragioni etiche? Fa notizia che la Morellato Termotecnica di Pisa abbia rifiutato una commessa legata all’industria bellica: la realizzazione di un impianto di refrigerazione per una vasca di prova dei siluri militari. C’è qualcosa di epico in questo rifiuto: da una parte un ordine di 30 mila euro, con un margine superiore al 30%, che avrebbe dato una boccata d’ossigeno ai dipendenti in CIGS; dall’altra i valori aziendali. Da una parte un’impresa artigianale piccola ma molto qualificata, dall’altra il colosso Finmeccanica. L’affermazione della propria identità contro la logica finanziaria del business. Davide contro Golia. La vera notizia è che ancora oggi, in un desolante scenario di crisi mondiale che ha smentito i miti del mercato, Davide può almeno rivendicare il suo diritto ad esistere. Con il suo gran rifiuto, la piccola Morellato ha lanciato forse un colpo di marketing, ma anche un colpo di fionda alla ‘normalità’. Anche se non lo pratichiamo, in tanti siamo convinti che non si può uscire dalla crisi restando dentro gli stessi schemi che l’hanno provocata. Immersi fino ad affogare in un mondo in cui la logica di cassa prevarica la gestione industriale, le banche continuano a dettare le regole, le retribuzioni dei top manager a mantenersi scandalosamente sproporzionate rispetto a quelle di chi opera, aspettiamo impotenti l’affacciarsi di una ‘nuova normalità’, di un diverso modello di sviluppo o anche di non-sviluppo1, qualcosa che rompa lo schema. Il modello capitalistico nella sua evoluzione postindustriale sembra essere irreversibile e insensibile ad ogni tentativo di temperarne le contraddizioni, eppure c’è un’impresa che può permettersi di pagare un costo (almeno sociale) e selezionare le proprie commesse non sulla base di un criterio finanziario, ma su ben altri parametri, come quelli della coerenza con la propria vision: “abbiamo una grande sfida davanti. Cambiare uno stile di vita che esaurisce le risorse del pianeta e assicurare alle generazioni che verranno una società migliore, più pulita, più solidale”2. Allora possiamo domandarci: che caratteristiche ha un’impresa del genere, come fa a produrre risultati e a stare sul mercato? Se guardiamo bene dentro un’organizzazione del genere non dovremo discostarci molto dal modello della learning organisation teorizzato da Peter Senge nella prima metà degli anni ’90. L’impresa capace di durare nel tempo e di espandere il proprio futuro la si riconosce immediatamente sulla base di due ‘caratteristiche genetiche’: è ancorata ai propri valori fondanti, è guidata da una stakeholder’s strategy. In altri termini, il ritorno del capitale investito è visto nel medio termine, nella capacità di generare valore per tutti i portatori d’interesse e non solo nell’esclusivo interesse dell’azionista. Alla base del suo vitale sistema di funzionamento vi troviamo un’architettura organizzativa leggera come una conchiglia (Senge la difinisce appunto shell) e una spirale di apprendimento, dominio del cambiamento continuo, alimentata dalle competenze delle sue persone, dalla loro sensibilità e consapevolezza, dalle loro attitudini e convinzioni. Nel modello di Senge, al di là delle competenze tecnico-professionali mantenute allo stato dell’arte grazie alla motivazione dei knowledge workers, l’organizzazione che apprende fa leva su cinque discipline condivise da tutto il personale: la padronanza di se stessi, la capacità di rivedere i propri modelli mentali, la visione condivisa di un futuro cui desideriamo di appartenere, la capacità di apprendere come team e non solo come individui, il pensiero sistemico quale costante coerenza nelle relazioni tra tutte le parti del sistema impresa. Ma guardiamoci ancora più dentro. Troveremo che nel suo quotidiano funzionamento questo strano giocattolo è tenuto insieme da un sistema informativo capace di monitorare e misurare ogni processo, dal riferimento a standard e metodi di qualità, dal modo organico e non discrezionale di fare acquisti come di presentare offerte, da un sistema di controllo interno volto a monitorare sistematicamente gli andamenti e le prestazioni, da obiettivi comunicati e condivisi, da un atteggiamento responsabile dei collaboratori, incompatibile con comportamenti lassisti e poco trasparenti. Un’impresa anomala? Un’impresa etica? Una gestione etica dell’impresa può evidentemente anche produrre business e business di pregio. Ma non è finalizzata a questo, è invece indipendente dal business perché l’etica occupa uno spazio che nessuna logica di calcolo può limitare o sopprimere: uno spazio di libertà che è sostanza delle singole persone e scelta dell’impresa che ricerca il valore. Un’impresa normale. La dimensione etica dell’impresa sembra essere tutta qui: in una vera aziendalizzazione dell’impresa. Leggi tutto >

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