Tag: etica

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ETICA DEL LAVORO

di Francesco Varanini

In questo articolo si intrecciano due temi. Il primo: la fabbrica come luogo centrale dell’impresa, luogo dove in fondo si misura l’atteggiamento etico di una impresa. Il secondo: il ruolo del Direttore del personale come promotore di atteggiamento etico dell’impresa. I due temi si intrecciano perché, nella doverosa ricerca di un cambiamento che –nel difficile scenario globale– ridia fiato alle nostre imprese, sembra esserci uno spazio d’azione che solo i Direttori del personale possono occupare. Questa azione consiste in buona misura nell’assumersi la responsabilità di fare le cose che gli altri manager sembra non abbiano tempo di fare. Una cosa certamente da fare è tornare a guardare il mondo dal punto di vista della fabbrica. Leggi tutto >

Etica e affari

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Può un’azienda in crisi rifiutare una commessa per ragioni etiche? Fa notizia che la Morellato Termotecnica di Pisa abbia rifiutato una commessa legata all’industria bellica: la realizzazione di un impianto di refrigerazione per una vasca di prova dei siluri militari. C’è qualcosa di epico in questo rifiuto: da una parte un ordine di 30 mila euro, con un margine superiore al 30%, che avrebbe dato una boccata d’ossigeno ai dipendenti in CIGS; dall’altra i valori aziendali. Da una parte un’impresa artigianale piccola ma molto qualificata, dall’altra il colosso Finmeccanica. L’affermazione della propria identità contro la logica finanziaria del business. Davide contro Golia. La vera notizia è che ancora oggi, in un desolante scenario di crisi mondiale che ha smentito i miti del mercato, Davide può almeno rivendicare il suo diritto ad esistere. Con il suo gran rifiuto, la piccola Morellato ha lanciato forse un colpo di marketing, ma anche un colpo di fionda alla ‘normalità’. Anche se non lo pratichiamo, in tanti siamo convinti che non si può uscire dalla crisi restando dentro gli stessi schemi che l’hanno provocata. Immersi fino ad affogare in un mondo in cui la logica di cassa prevarica la gestione industriale, le banche continuano a dettare le regole, le retribuzioni dei top manager a mantenersi scandalosamente sproporzionate rispetto a quelle di chi opera, aspettiamo impotenti l’affacciarsi di una ‘nuova normalità’, di un diverso modello di sviluppo o anche di non-sviluppo1, qualcosa che rompa lo schema. Il modello capitalistico nella sua evoluzione postindustriale sembra essere irreversibile e insensibile ad ogni tentativo di temperarne le contraddizioni, eppure c’è un’impresa che può permettersi di pagare un costo (almeno sociale) e selezionare le proprie commesse non sulla base di un criterio finanziario, ma su ben altri parametri, come quelli della coerenza con la propria vision: “abbiamo una grande sfida davanti. Cambiare uno stile di vita che esaurisce le risorse del pianeta e assicurare alle generazioni che verranno una società migliore, più pulita, più solidale”2. Allora possiamo domandarci: che caratteristiche ha un’impresa del genere, come fa a produrre risultati e a stare sul mercato? Se guardiamo bene dentro un’organizzazione del genere non dovremo discostarci molto dal modello della learning organisation teorizzato da Peter Senge nella prima metà degli anni ’90. L’impresa capace di durare nel tempo e di espandere il proprio futuro la si riconosce immediatamente sulla base di due ‘caratteristiche genetiche’: è ancorata ai propri valori fondanti, è guidata da una stakeholder’s strategy. In altri termini, il ritorno del capitale investito è visto nel medio termine, nella capacità di generare valore per tutti i portatori d’interesse e non solo nell’esclusivo interesse dell’azionista. Alla base del suo vitale sistema di funzionamento vi troviamo un’architettura organizzativa leggera come una conchiglia (Senge la difinisce appunto shell) e una spirale di apprendimento, dominio del cambiamento continuo, alimentata dalle competenze delle sue persone, dalla loro sensibilità e consapevolezza, dalle loro attitudini e convinzioni. Nel modello di Senge, al di là delle competenze tecnico-professionali mantenute allo stato dell’arte grazie alla motivazione dei knowledge workers, l’organizzazione che apprende fa leva su cinque discipline condivise da tutto il personale: la padronanza di se stessi, la capacità di rivedere i propri modelli mentali, la visione condivisa di un futuro cui desideriamo di appartenere, la capacità di apprendere come team e non solo come individui, il pensiero sistemico quale costante coerenza nelle relazioni tra tutte le parti del sistema impresa. Ma guardiamoci ancora più dentro. Troveremo che nel suo quotidiano funzionamento questo strano giocattolo è tenuto insieme da un sistema informativo capace di monitorare e misurare ogni processo, dal riferimento a standard e metodi di qualità, dal modo organico e non discrezionale di fare acquisti come di presentare offerte, da un sistema di controllo interno volto a monitorare sistematicamente gli andamenti e le prestazioni, da obiettivi comunicati e condivisi, da un atteggiamento responsabile dei collaboratori, incompatibile con comportamenti lassisti e poco trasparenti. Un’impresa anomala? Un’impresa etica? Una gestione etica dell’impresa può evidentemente anche produrre business e business di pregio. Ma non è finalizzata a questo, è invece indipendente dal business perché l’etica occupa uno spazio che nessuna logica di calcolo può limitare o sopprimere: uno spazio di libertà che è sostanza delle singole persone e scelta dell’impresa che ricerca il valore. Un’impresa normale. La dimensione etica dell’impresa sembra essere tutta qui: in una vera aziendalizzazione dell’impresa. Leggi tutto >

Job Shortage

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

La drammatica mancanza del lavoro oggi non riguarda tutti indistintamente, ha un preciso identikit a due facce: ha il volto pallido dei giovani compresi tra i 18 e i 30 anni, ancora più se laureati, donne e meridionali; la faccia tesa e ruvida di coloro che avendo perso il lavoro dopo i 50 anni, ancor più se professionalizzati, incontrano insormontabili difficoltà di ricollocazione perché ritenuti vecchi da una società vecchia. Nel guado di una crisi che non sembra ancora poter offrire una nuova normalità, la società della vecchia Europa sta denunciando la propria impotenza a includere giovani e anziani nel tessuto produttivo: nessuna progettualità, nessuna politica mirata a costruire le condizioni per bonificare la palude in cui stanno affogando proprio le due generazioni più distanti. La mancanza di futuro è assenza di speranza, forse il segno più evidente di un errore di sistema dell’economia postindustriale. Se c’è una ‘mano invisibile’ all’opera, è quella della finanza tossica che regge le sorti del mercato globale e neutralizza ogni visione di un mondo nuovo. Quali politiche perseguono i governi? Quali piazze mobilitano i sindacati per sostenere un programma? E la visione di un nuovo modello di sviluppo che nasca dalla crisi dov’è? Qualcuno ha raccolto le idee di Rifkin, La civiltà dell’empatia, le riflessioni di Darhendorf sulla fine della democrazia o la Caritas in veritate di Benedetto XVI sull’economia della gratuità? “Lo sviluppo ha bisogno della verità” –sostiene Ratzinger– “bisogna mobilitarsi affinché l’economia evolva verso esiti pienamente umani”. Ma nessuno, tanto meno la Chiesa, si è mosso. E in azienda? Anche qui, in questo luogo-non luogo generatore di valore, non sembra ci si sia interrogati abbastanza sulla natura dei fallimenti, sull’incapacità di reggere le spallate di un mercato in grave contrazione, sulla possibilità di trovare una nuova via al modo di fare impresa. Forse proprio qui, nel fortino degli shareholders, governato esclusivamente dai risultati di cassa, vanno ricercate le cause prime della riduzione del lavoro: il rigido blocco del turnover e il dimensionamento degli organici, molto più dell’innovazione e della cura del cliente, sono stati i postulati su cui si è retta finora la gestione della crisi. In ingresso le porte del fortino sono state chiuse in faccia alle nuove generazioni; in uscita sono stati esiliati ed esodati i più anziani, perché più costosi e più vicini alla pensione. Questa la ferrea logica di un modello di business basato sulla gerarchia e sul controllo, sul potere indiscusso dei supermanager e sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, un modello certamente nemmeno scalfito dal maquillage delle varie ‘carte dei valori’, codici etici, bilanci di sostenibilità. Aidp –Associazione Italiana per la Direzione del Personale– ha recentemente comunicato di aver aderito a Parks – Liberi e Uguali, associazione che si propone di promuovere luoghi di lavoro ‘inclusivi’ e rispettosi di tutti dipendenti, “indipendentemente dal loro orientamento sessuale o dalla loro identità di genere”, per realizzare al massimo nelle aziende socie le opportunità di business legate alla valorizzazione delle diversità (www.parksdiversity.eu). Rosa Parks nel 1955 rifiutò di alzarsi e cedere il suo posto in autobus a un passeggero bianco. Un semplice piccolo gesto da cui partì un movimento che liberò l’America dalla segregazione razziale. A Parks hanno aderito aziende come Ikea, Telecom, Roche, Johnson & Johnson, IBM. Mi chiedo se, oltre a convenire di evitare che il lavoro venga negato ai gay, queste aziende si pongano anche l’obiettivo di evitare la discriminazione sul mercato del lavoro degli anziani ‘high skilled’ e dei giovani, in particolare laureati, donne e meridionali. Lo stato di fatto è che ormai i giovani ‘né studio né lavoro’ vivono ancora a casa oltre i 30 anni, apatici, passivi, computerizzati, e cominciano a godere anche della asfissiante compagnia dei loro genitori ‘né lavoro né pensione’. Ma se le imprese non evolvono verso una nuova cultura industriale, molto possono però fare le Istituzioni locali e le Università. Non certo per creare lavoro, ma per meglio attrezzare i giovani e i senior a espandere il proprio futuro. L’allenamento a sviluppare essenziali competenze d’intelligenza emotiva, dalla self-leadership alla comunicazione, all’influenza e alla resilienza, l’educazione all’autosviluppo, la conoscenza del mercato del lavoro e delle sue regole, non sono materia di studi né scolastici né universitari, eppure rappresentano tasselli portanti per pavimentare la strada che collega lo studio al lavoro, e costruire future possibilità di placement. Nei lontanissimi primi anni ’60 John Kennedy, se non sbaglio, disse agli Americani pressappoco questo: se non possiamo costruire un futuro ai nostri figli, possiamo almeno costruire i nostri figli per il futuro. Cominciamo a farlo. Alcune Università come Luiss e Suor Orsola Benincasa (private!) hanno cominciato ad accompagnare i giovani ad attraversare il confine. Leggi tutto >

Il morso della mela

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L’Impresa imperfetta – di Francesco Donato Perillo –

Apple è nel mito, la mela addentata è metafora universale di design ed eccellenza tecnologica, bellezza digitale e tentazione, mentre il suo leggendario fondatore è stato assunto dai media quale stereotipo universale di una leadership visionaria e innovativa, capace di trasformare il mondo con la forza del proprio prodotto. Oggi Apple vale più della Grecia, quanto a forza economica compete con gli Stati, non con le aziende, con numeri impressionanti: in borsa vale 400 miliardi di dollari (più dell’oro custodito a Fort Knox), nella prima trimestrale dell’anno fiscale 2012 ha fatturato 46,3 miliardi di dollari, ha venduto 37 milioni di iPhone, 15,4 milioni di iPad, 5,2 milioni di Mac1. Il grande Steve ci ha lasciato un messaggio chiave, semplice e rivoluzionario: siate folli e affamati di passione, amate ciò che fate, identificatevi col vostro prodotto. Ma se la ricerca del successo mette in moto sin dallo start-up energie straordinarie e sconosciute, la manutenzione del successo è cosa diversa e forse più ardua. Gli stimoli emozionali della fase pionieristica vengono meno, come pure si affievolisce la percezione collettiva delle competenze distintive su cui si è andata costruendo la nuova impresa, il senso del noi rispetto al resto del mondo. Subentra una sorta di ansia da prestazione, la necessità di alzare continuamente gli obiettivi e migliorare le performance. Un errore, anche marginale, può costare lo scivolone dell’impresa, una trimestrale può compromettere anni di risultato. E logiche e stili di gestione inesorabilmente cambiano: il focus manageriale si sposta quasi inconsciamente dalla qualità ai volumi, dal prodotto ai costi di produzione, dall’innovazione al controllo maniacale dei processi, dalla fede nelle proprie capacità all’angoscia del nemico esterno. Anche le ‘virtù’ manageriali ne risentono: più scaltrezza e meno coraggio, più rigore e meno tolleranza, più calcolo e meno ridondanza. E in mezzo a questi passaggi lo stritolamento delle persone e dei talenti. È questa una parabola, un asintoto del destino, col quale tutte le organizzazioni in cui operiamo prima o poi devono fare i conti, come se al di là del punto di massima espansione vi fosse ad attendere il precipizio. Al timone del post-Jobs c’è ora Tim Cook. Sveglia alle 4 e mezzo del mattino, lavora fino a notte, deciso e spietato, pare ingurgiti caffeina e barrette energetiche ad ogni ora del giorno, un capo azienda da 378 milioni di dollari2. Forti le analogie con la figura di Marchionne. Domanda: può e deve esistere una proporzione tra le retribuzioni dei top manager e quelle dei prestatori d’opera? Non si tratta tanto di questione morale, ma di logiche di business: il venire meno del principio di equità, o comunque della percezione di equità all’interno di ogni comunità, mette in crisi il sistema, allontanandolo dall’identità e dall’essenza su cui esso è fondato. Chi si occupa di gestione delle risorse umane sa bene quanto delicata e strategica sia la politica retributiva di un’azienda: può agire da leva della performance, quanto da potente demoltiplicatore della motivazione. Ma i compensi di Tim Cook sono solo la punta di un iceberg. Sì, perché anche le mele hanno un iceberg, o meglio una serie di punti neri in cui si annidano i bachi. Adam Lashinsky, giornalista di Fortune, ha pubblicato un libro-indagine, in cui descrive in modo impietoso l’organizzazione del lavoro all’interno della ‘mela’3. Il quadro che ne emerge è sconcertante: nella casa madre di Cupertino i dipendenti hanno palestra, asilo e mensa, ma tutto rigorosamente a pagamento, non godono di stipendi sopra la media unicamente perché devono sentirsi già retribuiti per il fatto di appartenere al mito. L’imperativo innovare è stato sostituito da ‘secretare’: la consegna prioritaria è la segretezza assoluta sui progetti in cantiere e sugli oggetti su cui si sta lavorando, una confidenza al bar può comportare il licenziamento immediato. Chi opera lavora su di un pezzetto di processo, conosce il dettaglio ma non la visione d’insieme, né l’idea della finalità del proprio lavoro, non sa cosa faccia il proprio compagno di scrivania o di laboratorio. E la produzione? Il successo del Mac si era basato sulla sfida della verticalizzazione integrata, del ‘tutto dentro’, in contrasto con la logica del decentramento spinto perseguita dall’IBM. Oggi Foxconn in Cina è invece il principale partner di fornitura, dà lavoro a 1.200.000 persone, con turni di 24 ore, 12 ore per turno, 6 giorni a settimana. Il prodotto più innovativo del millennio sembra nascere dal ritorno ai tempi moderni dell’operaio Charlot. Organizzazione e gestione delle risorse umane saranno nei prossimi anni arbitri del confine tra il successo e la discesa. Ma l’asintoto è stato raggiunto, il pezzo mancante della mela è rimasto nella bocca di chi vi lavora. Leggi tutto >

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