Tag: etica

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Editoriale – di Francesco Varanini –

Un amico mi dice: ‘Noi manager ci stiamo muovendo come piloti d’aereo che, in condizioni di difficoltà, decidono immediatamente di cercare un atterraggio di emergenza. La picchiata sembra inevitabile, e il massimo possibile sembra limitare i danni. Nessuno prova nemmeno a cabrare. Nessuno pensa che potremmo cercare un colpo d’ala”.
Non so se è giusto dire ‘nessuno’, ma certo è che prevalgono pessimismo e conformismo. Si preferisce considerare inevitabile il trend. Si preferisce adeguarsi alla situazione. Si disinveste, si taglia, si esternalizza, si riduce, licenzia. Si può far questo con onestà: appunto, limitando i danni.
Ma siamo sicuri di non poter fare di più? Si teme, in cuor nostro, di non riuscirci. Ma siamo sicuri che non sia possibile? Certo, il contesto è difficile e rischioso, ma non per nulla apparteniamo alla classe dirigente. Siamo chiamati a dirigere, non a seguire una direzione. Certo, esistono indirizzi e vincoli. Esiste una gerarchia ed esiste in ogni caso un quadro più vasto, nel quale siamo inseriti, e del quale dobbiamo tener conto. Esisterà sempre una strategia da altri definita, che limita il nostro campo d’azione, e che ci propone, o impone, indirizzi. Esisterà sempre qualcuno che detta l’agenda.
Ma anche in un quadro organizzativo dato, il dirigente l’agenda può e deve dettarsela da solo.
Esistono in ogni caso margini di autonomia, spazi che possiamo occupare. Li stiamo occupando? Questo è vero in ogni caso. Ed è particolarmente vero nell’attuale situazione di diffusa difficoltà, confusione. In queste condizioni gli spazi d’azione si ampliano. Siamo in ogni caso responsabili di quello che succede. Il nostro senso di responsabilità dovrebbe spingerci, può spingerci, a credere che potremmo proprio noi avere il colpo d’ala, potremmo, almeno per quello che ci è possibile, tentare la cabrata. Certo. La motivazione fa difetto. Se avessimo qualcuno che ci motiva, se intorno a noi vedessimo segni che ci rendono meno faticoso progettare e sperare e rischiare… Ma questo manca. Eppure, dobbiamo dire che sì, la motivazione può nascere dal contesto, o da adeguate politiche aziendali, dalla guida attenta e partecipe dei vertici aziendali. Ma può nascere anche dalla nostra personale storia di vita, dalla nostra capacità di trovare stimoli. Anche in questa situazione posso ancora pensare che proprio io, mosso dalla mia etica, mosso dal mio senso personale di dignità, dal mio interesse per il presente e il futuro dell’impresa, mosso dall’interesse per gli altri –le persone che lavorano insieme a me, alle mie dipendenze o in altri luoghi dell’azienda–, mosso dal rispetto per i clienti, per i fornitori proprio io posso compiere qualche atto che è un punto di svolta, che è la sottile differenza che intercorre tra la cabrata e la picchiata. Il modo più evidente di ‘seguire l’onda’, sta oggi nel considerare inevitabile prendere in ogni caso per buone le aspettative che il mercato finanziario vanta nei confronti delle aziende. Remunerare chi investe nell’impresa è un dovere e una necessità. Ma anche qui al posto di un atterraggio di fortuna dove pure si siano limitati i danni, un colpo d’ala, una cabrata, forse è possibile. Ogni manager sa che una azienda non è sana perché genera profitto. Una azienda è sana quando remunera tutti i portatori di interessi, ivi compresa la proprietà e gli investitori. Accettare che proprietà e investitori impongano all’impresa una estrazione del valore data a priori, indipendentemente dall’andamento degli affari e del mercato, significa danneggiare l’azienda, compromettendone il futuro, fino a distruggerla. Tipico modo di muoversi del manager orientato a ‘limitare i danni’ è accettare il prelievo deciso a prescindere dall’andamento degli affari. Certo, a valle del prelievo, il manager si impegna magari a fare del proprio meglio. Ma un buon manager fa qualcosa di più. Un buon manager insiste nel mostrare i vantaggi dell’innovazione e dell’investire delle persone. Un buon manager propone alternative agli appetiti di chi, senza conoscerla e senza rispettarla, guarda l’azienda dall’esterno. Un buon manager scrive da sé la propria agenda, e si impegna nell’imporla ad ogni altro attore, nell’interesse di tutti. Un buon manager non sta lì per fare quello che desidera di chi lo paga. Non sta lì per limitare i danni. Sta lì per fare l’interesse dell’azienda nel suo complesso. Sta lì per cercare e trovare un punto di incontro tra i punti di vista dei diversi portatori di interessi, ivi compresi dipendenti, clienti, fornitori, comunità locale. Sta lì non per contribuire all’estrazione di valore, ma per creare valore. 
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di Luigi Adamuccio*

Le teorie organizzative sono andate evolvendo verso un maggiore riconoscimento del ruolo svolto dalle persone nel sistema aziendale. I nuovi modelli richiedono maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento dei collaboratori, soprattutto di quelli più motivati e competenti, con un top management in grado di supportarli e guidarli, nonché di definire e perseguire veri valori etici. Cominciano ad emergere aziende che considerano le proprie persone chiave come un capitale composto da conoscenze e capacità da tutelare e sviluppare, convinte che solo così possono superare la fase recessiva e garantirsi il successo in un mercato sempre più competitivo. Dopo aver scommesso e investito, come era giusto, molto in tecnologia e spinto oltre misura affinché la finanza si ritagliasse in azienda un ruolo sempre più importante, analizzando le conseguenze della crisi di questi ultimi quattro-cinque anni, ci si sta rendendo gradualmente conto come l’elemento fondamentale delle organizzazioni del futuro, su cui occorre puntare, è rappresentato dalla professionalità e dalla motivazione. Il lavoro, in team o per processi o per progetti, in aziende piccole o medie o grandi, comporta necessariamente la disponibilità, ancorché con modalità gestionali diverse, di risorse umane motivate, valorizzate e coinvolte. Leggi tutto >

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Editoriale – di Francesco Varanini –

Il giorno di Sant’Ambrogio, 7 dicembre, ho partecipato con Bruno Bonsignore alla consegna degli Attestati di Civica Benemerenza del Comune di Milano. Tra i premiati, Assoetica, l’associazione con la quale, da dieci anni a questa parte, cerchiamo di fare qualcosa per la diffusione di atteggiamenti etici nelle organizzazioni. Eravamo partiti guardando a modelli anglosassoni. Va ancora bene parlare di Business Ethics e va bene darsi da fare per promuovere la figura dell’Ethics Officer. Ma nel corso di questi dieci anni il capitalismo anglosassone –pur con le sue regole di Governance e con il suo dedicare risorse a politiche di Corporate Social Responsibility– ha mostrato tutte le sue crepe. Più che chiamare i manager al compito di creare valore, troppo spesso le regole di Governance, le strategie e i sistemi premianti chiamano i manager a estrarre valore dalle imprese dedite alla produzione. Estrarre valore per portarlo altrove, per farne risorsa disponibile per speculazione finanziaria. Così, nel corso di questi dieci anni, noi di Assoetica abbiamo via via allargato lo sguardo, parliamo ancora di etica degli affari –lo si può ben dire anche nella nostra lingua–, ma parliamo ormai sempre al contempo di etica del lavoro. Alla fin fine, anche l’attività del manager è un lavoro, un lavoro come gli altri. L’etica del lavoro, in questo senso, comprende l’etica degli affari. Abbiamo dunque, nel corso degli anni, consolidato l’atteggiamento di rispetto e di considerazione per i diversi punti di vista di coloro che contribuiscono alla creazione del valore: conta il punto di vista di chi lavora, dei clienti, dei fornitori, di chi procura le risorse finanziarie… Ognuno dei ‘portatori di interessi’, o per dirla all’anglosassone, ‘stakeholders’, è necessario: tutti sono importanti. Questo è stato non a caso tema ricorrente nei cicli di incontri Risorse Umane & non Umane, proposti dalla nostra rivista. Questo non a caso è anche il tema centrale di Contro il management, libro in cui ho raccolto le riflessioni di questi anni. L’azienda è luogo di incontro dei diversi punti di vista. L’organizzazione funziona, l’impresa produce, laddove gli interessi trovano un’area di convergenza. Ripensavo a queste cose mentre procedeva la premiazione, quando Bruno mi ha interrotto per condividere con me una riflessione. “Mi sento quasi a disagio. Cosa ci facciamo noi tra questi premiati”. Bruno non faceva riferimento a certi premiati, magari anche immeritevoli, troppo tronfi al momento di ricevere l’onorificenza. Faceva riferimento, ne sono certo, ad associazioni o gruppi ‘di base’ strettamente impegnati in attività di rilievo sociale: parrocchie, centri di accoglienza per immigrati, comitati inquilini, comitati dediti alla salvaguardia del territorio, associazioni di volontari per la protezione civile, associazioni sportive… Cosa ci facciamo noi qui? Giusto in ogni caso porsi la domanda. Giusto in ogni caso, sempre, sentirsi spaesati, chiedersi ‘dove siamo’, ‘cosa stiamo facendo’. L’utilità sociale di queste associazioni è immediatamente evidente. Il loro scopo chiaro. Ma noi? In queste occasioni pubbliche non è mai bello estraniarsi parlando sottovoce alla persona che si ha accanto. Ma, dando valore alla domanda di Bruno, mi sono trovato a rispondergli subito. Il percorso formativo che è attualmente l’ossatura della nostra attività ha per titolo: La direzione etica. Direzione etica in un doppio senso. Sguardo proteso in direzione etica, a scorgere il possibile cammino verso un luogo dove i diversi interessi in gioco possano trovare un accettabile terreno comune. E direzione etica come affermazione di un modo di dirigere l’impresa, andando oltre i limiti dell’attuale ‘management’, di quel management che purtroppo sembra troppo spesso considerare proprio compito lavorare non per la produzione di valore, ma per l’estrazione del valore. Qualcuno giustamente si occupa di indigenti, immigrati, disoccupati, di infanzia abbandonata. Occuparsi di tutto questo è un dovere civico. Noi, con tutti i nostri limiti, ci occupiamo di formare una classe dirigente più responsabile. Anche occuparsi di questo è un dovere civico. C’è molto da fare. C’è da guardare in luce critica gli strumenti e le metriche appartenenti al consueto bagaglio del manager: budget, contabilità, finanza e bilancio; politiche di gestione e sviluppo delle ‘Risorse Umane’; strategie di marketing; governo della comunicazione e delle informazioni. C’è da lavorare insieme affinché ognuno possa prendere piena consapevolezza della propria etica, e possa trovare il modo di viverla e di metterla in pratica nel posto di lavoro che si trova ad occupare. Un’associazione non può che gettare un seme. Ma poi si trovano compagni di strada. Leggi tutto >

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Come le pratiche filosofiche possono ridescrivere la leadership

di Paolo Cervari

Sulla leadership si è detto di tutto e di più, e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della ‘tenuta’ dell’idea di leader –a volte messa radicalmente in questione1– nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla possibilità di produrre e sostenere il costrutto (sostanzialmente innovativo) di leadership filosofica. Leggi tutto >

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