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Editoriale – di Francesco Varanini –

Il giorno di Sant’Ambrogio, 7 dicembre, ho partecipato con Bruno Bonsignore alla consegna degli Attestati di Civica Benemerenza del Comune di Milano. Tra i premiati, Assoetica, l’associazione con la quale, da dieci anni a questa parte, cerchiamo di fare qualcosa per la diffusione di atteggiamenti etici nelle organizzazioni. Eravamo partiti guardando a modelli anglosassoni. Va ancora bene parlare di Business Ethics e va bene darsi da fare per promuovere la figura dell’Ethics Officer. Ma nel corso di questi dieci anni il capitalismo anglosassone –pur con le sue regole di Governance e con il suo dedicare risorse a politiche di Corporate Social Responsibility– ha mostrato tutte le sue crepe. Più che chiamare i manager al compito di creare valore, troppo spesso le regole di Governance, le strategie e i sistemi premianti chiamano i manager a estrarre valore dalle imprese dedite alla produzione. Estrarre valore per portarlo altrove, per farne risorsa disponibile per speculazione finanziaria. Così, nel corso di questi dieci anni, noi di Assoetica abbiamo via via allargato lo sguardo, parliamo ancora di etica degli affari –lo si può ben dire anche nella nostra lingua–, ma parliamo ormai sempre al contempo di etica del lavoro. Alla fin fine, anche l’attività del manager è un lavoro, un lavoro come gli altri. L’etica del lavoro, in questo senso, comprende l’etica degli affari. Abbiamo dunque, nel corso degli anni, consolidato l’atteggiamento di rispetto e di considerazione per i diversi punti di vista di coloro che contribuiscono alla creazione del valore: conta il punto di vista di chi lavora, dei clienti, dei fornitori, di chi procura le risorse finanziarie… Ognuno dei ‘portatori di interessi’, o per dirla all’anglosassone, ‘stakeholders’, è necessario: tutti sono importanti. Questo è stato non a caso tema ricorrente nei cicli di incontri Risorse Umane & non Umane, proposti dalla nostra rivista. Questo non a caso è anche il tema centrale di Contro il management, libro in cui ho raccolto le riflessioni di questi anni. L’azienda è luogo di incontro dei diversi punti di vista. L’organizzazione funziona, l’impresa produce, laddove gli interessi trovano un’area di convergenza. Ripensavo a queste cose mentre procedeva la premiazione, quando Bruno mi ha interrotto per condividere con me una riflessione. “Mi sento quasi a disagio. Cosa ci facciamo noi tra questi premiati”. Bruno non faceva riferimento a certi premiati, magari anche immeritevoli, troppo tronfi al momento di ricevere l’onorificenza. Faceva riferimento, ne sono certo, ad associazioni o gruppi ‘di base’ strettamente impegnati in attività di rilievo sociale: parrocchie, centri di accoglienza per immigrati, comitati inquilini, comitati dediti alla salvaguardia del territorio, associazioni di volontari per la protezione civile, associazioni sportive… Cosa ci facciamo noi qui? Giusto in ogni caso porsi la domanda. Giusto in ogni caso, sempre, sentirsi spaesati, chiedersi ‘dove siamo’, ‘cosa stiamo facendo’. L’utilità sociale di queste associazioni è immediatamente evidente. Il loro scopo chiaro. Ma noi? In queste occasioni pubbliche non è mai bello estraniarsi parlando sottovoce alla persona che si ha accanto. Ma, dando valore alla domanda di Bruno, mi sono trovato a rispondergli subito. Il percorso formativo che è attualmente l’ossatura della nostra attività ha per titolo: La direzione etica. Direzione etica in un doppio senso. Sguardo proteso in direzione etica, a scorgere il possibile cammino verso un luogo dove i diversi interessi in gioco possano trovare un accettabile terreno comune. E direzione etica come affermazione di un modo di dirigere l’impresa, andando oltre i limiti dell’attuale ‘management’, di quel management che purtroppo sembra troppo spesso considerare proprio compito lavorare non per la produzione di valore, ma per l’estrazione del valore. Qualcuno giustamente si occupa di indigenti, immigrati, disoccupati, di infanzia abbandonata. Occuparsi di tutto questo è un dovere civico. Noi, con tutti i nostri limiti, ci occupiamo di formare una classe dirigente più responsabile. Anche occuparsi di questo è un dovere civico. C’è molto da fare. C’è da guardare in luce critica gli strumenti e le metriche appartenenti al consueto bagaglio del manager: budget, contabilità, finanza e bilancio; politiche di gestione e sviluppo delle ‘Risorse Umane’; strategie di marketing; governo della comunicazione e delle informazioni. C’è da lavorare insieme affinché ognuno possa prendere piena consapevolezza della propria etica, e possa trovare il modo di viverla e di metterla in pratica nel posto di lavoro che si trova ad occupare. Un’associazione non può che gettare un seme. Ma poi si trovano compagni di strada. Leggi tutto >

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Editoriale – di Francesco Varanini – 

Mi scrive via e-mail un amico che ricopre un importante ruolo manageriale in una grande azienda. “Molte emergenze. E un gran casino. Mercato in caduta libera”. Poche lapidarie parole, scritte, immagino, in gran fretta; ovviamente inviate, come mi informa il messaggio in calce alla e-mail, “dal palmare wireless BlackBerry”. Un primo commento riguarda lo stile di vita. Così siamo, o forse meglio: ci siamo costretti a vivere, e quindi a lavorare. Senza un attimo di respiro, sempre pressati da urgenze che non sappiamo più mettere in ordine di priorità. Sempre di fretta, anzi di corsa, di gran carriera. Mi chiedo: come è possibile prendere decisioni se non ci concediamo il tempo per riflettere, per guardarci intorno, per ascoltare qualche voce amica. E sopratutto: come possiamo decidere se non abbiamo il tempo per parlare con chi, vivendo ben più in basso nella scala gerarchica, ma in contatto proprio per questo con gli eventi, può renderci partecipi di cosa sta realmente accadendo dentro la nostra stessa azienda. Un secondo commento discende dal primo. Come ho cercato di mostrare nel mio libro Contro il management, i manager sono gravemente condizionati nel loro agire dalle aspettative e dalle esigenze e non di rado dall’arroganza degli stakeholder più dotati di strumenti di pressione. La famiglia che vive del reddito prodotto dall’impresa, i fondi di investimento che hanno quote nel capitale della società, sono certo stakeholder di cui tener conto. Possiamo anche dire che sono i primi stakeholder di cui il manager deve tener conto. Ma se il manager si schiaccia sulle aspettative di questi stakeholder, se dedica oltre un certo limite tempo e attenzione alla gestione dei rapporti con questi stakeholder, finisce –paradossalmente– per non poter portare loro i risultati che essi si attendono. Un manager, se vuole ottenere risultati, non può dimenticare che esistono altri stakeholder, e che solo porgendo loro attenzione è possibile ottenere risultati. Se il manager non ha tempo e testa per parlare con chi in azienda lavora, se non ha tempo e testa per mettersi realmente nei panni dei clienti e dei fornitori, non potrà ottenere nessun risultato. Tagliare linearmente i costi non serve a nulla. Significa solo togliere qualcosa di più a lavoratori, clienti e fornitori. Se togliamo loro ancora qualcosa, i tagli –downsizing, spending review, restructuring– non avranno effetti significativi, non serviranno certo ad invertire il trend. Dove sta la speranza? Trovo speranza nell’e-mail di un altro importante manager della stessa azienda, una e-mail giuntami quasi contemporaneamente a quella citata sopra. “Oggi sono particolarmente preoccupato e deluso della situazione”. Cita un fatto grave accaduto, e si chiede: “Ma come si fa a far succedere una cosa del genere?”. Formulata la domanda, si risponde da solo. “So di dire una cosa grave, ma riflettendo sulla situazione penso che siano ormai fatti inevitabili, data la catena di comando (sì, proprio la catena di comando, non più solo le singole persone)” che guida l’azienda. Continua: “La situazione è molto seria. Vedo ormai persone disunite, che vanno a braccio e in ordine sparso, ciascuno ostaggio della propria miope microagenda”. E poi: “Soprattutto, non c’è nessuno che si prenda la cura di controllare il lavoro delle persone – anche di alto grado; tutti guardano gli indicatori e nessuno controlla come si lavora”. Nel dire questo so che questo manager non si sta chiamando fuori, ma al contrario: sta assumendosi responsabilità rispetto a quello che accade. Questo manager, nonostante le pressioni che subisce, nonostante la fretta, si concede –o forse anche: impone a se stesso– di concedere tempo alla riflessione, al ragionamento, all’autocritica. Nel terminare il messaggio –rivolto, credo, non solo a me, ma innanzitutto a se stesso–, scrive: “Non vorrei chiudere senza speranze, ma in questo momento non so che altro fare oltre a impegnarmi per le cose che posso gestire”. In questo sta appunto la speranza. La speranza sta nel fatto che in ogni azienda ci siano manager come questo mio amico. La loro disponibilità a pensare e a guardarsi intorno è la base sulla quale costruire performance migliori. Il loro atteggiamento è il modo efficace per far fronte alle emergenze, al casino, per costruire azioni in grado di far fronte al mercato in caduta libera. Il loro atteggiamento –al contempo– è una salutare testimonianza, che aiuta i manager pressati dall’urgenza. Nessuno mette in dubbio il valore della loro reattività, il valore della capacità di agire subito. Ma altrettanto, o forse più, vale concedersi il tempo per pensare, e per fare le cose con cura, senza saltare necessari passaggi. Leggi tutto >

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Editoriale – di Francesco Varanini –

Si parla comunemente di Business Ethics o etica degli affari. Si parla anche, da un diverso punto di vista, di etica del lavoro. Nel primo caso –Business Ethics o etica degli affari– si pone l’accento sul punto di vista di attori ben definiti: l’imprenditore, l’azionista – detentore di una quota di proprietà, e quindi del diritto a una quota di profitto, la ‘Business Community’ e del mercato finanziario in senso lato. L’atteggiamento etico, in questo caso, si sostanzia nel soddisfare innanzitutto gli interessi di questi attori. Perciò il profitto è inteso come metro di tutto: l’impresa che produce profitto è una buona impresa. Ci si può chiedere quale rapporto esista tra l’interesse dell’azionista e gli interessi degli altri attori in gioco: lavoratori dipendenti o collaboratori, clienti, fornitori, comunità all’interno dei quali l’azienda agisce. A questa domanda, si sa, la dottrina liberista e utilitarista fornisce una pronta risposta: dal perseguimento dell’interesse di parte discende l’interesse generale. Dal perseguimento del proprio particolare interesse da parte dell’imprenditore e dell’azionista e delle istituzioni finanziarie discendono vantaggi per tutti, ivi compresi i lavoratori che vivono del lavoro svolto in quell’azienda. Nel secondo caso –etica del lavoro– si guarda invece a un oggetto ben diverso: si guarda al ‘giusto modo’ di guadagnarsi il pane quotidiano di ogni lavoratore. Si connette il lavoro all’amore, innanzitutto per se stessi e poi per gli altri. Si afferma che il lavoro è fonte della vita. Si dice che la relativa felicità a cui un uomo può attingere passa attraverso il lavoro. L’uomo realizza se stesso attraverso il lavoro: oggettiva le pulsioni, costruisce ‘oggetti buoni’ che migliorano la persona stessa che lavora, così come migliorano il mondo. Si arriva per questa via a sostenere che perfino in condizioni di sfruttamento e di oppressione –fino alla situazione limite del campo di concentramento o del carcere– l’uomo, per se stesso, per difendere la propria integrità, la propria dignità, la propria autostima, ha motivo di ‘lavorare bene’. E per la stessa via si arriva anche a comprendere che –quando l’uomo vede violata la propria dignità, quando vede vilipeso il proprio impegno e quando vede irrisa la propria dedizione del lavoro– ‘ribellarsi è giusto’. Quando gli affetti e le emozioni che l’uomo mette nel lavorare vengono ripagati con moneta troppo cattiva: con licenziamenti, con trattamenti retributivi e con atteggiamenti relazionali umilianti, allora al lavoratore non resta che rabbia. L’amore per il lavoro si trasforma in odio, l’‘oggetto buono’ si trasforma in simbolo dello sfruttamento subito, la produttività si trasforma in sabotaggio. Ogni manager si trova a dover tener conto di questa doppia visione dell’etica. E si trova anche chiamato ad agire. Situazione non facile, perché la divaricazione tra le due concezioni –da una parte Business Ethics, dall’altra etica del lavoro– si manifesta come doppio comando autocontraddittorio. Lo sanno bene i Direttori del Personale, chiamati ad essere esecutori di scelte dove –nell’ottica delle Business Ethics– il lavoratore è visto come impersonale fattore di un costo da comprimere; e dall’altro invece spesso sinceramente interessati alle persone. Del resto, gli stessi manager sono persone, e in quanto tali si trovano divisi, talvolta intimamente dilaniati. È una situazione di cui troppo poco si parla. I manager si trovano ad essere divisi tra un’etica del ruolo, che li spinge ad essere al servizio degli interessi di imprenditori e azionisti, e una personale etica del lavoro, fondata sul lavoro inteso come autorealizzazione, come creazione di ‘oggetti buoni’, come manifestazione di una dignità personale. Il manager, e innanzitutto il Direttore del Personale, vive la contraddizione implicita nel trovarsi a negare –nel perseguire la Business Ethics– la propria personale etica del lavoro. Possiamo dunque sostenere che di fronte alla distanza tra queste due etiche, il manager è messo peggio di un lavoratore dotato di minori responsabilità. Non può ribellarsi e non può rifiutare e non può chiamarsi fuori. Non può, se vuole restare fedele a se stesso, rinunciare alla proprio etica per asservirsi all’etica degli affari. Una possibile via d’uscita da questa impasse, mi pare risieda nel guardare all’etica dell’organizzazione, o forse anche all’etica come organizzazione. Business Ethics ed etica del lavoro, in fondo, sono ottiche che non possono fare a meno di convivere. Il manager e in special modo il Direttore del Personale possono superare la personale scissione nel farsi fautori dell’emergere di un’etica di fatto, intesa come punto di incontro degli atteggiamenti dei diversi soggetti coinvolti nella vita aziendale. Leggi tutto >

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Editoriale – di Francesco Varanini – 

Siamo tutti il comandante Francesco Schettino. Non possiamo chiamarci fuori. Anche in condizioni difficili determinate da fattori esterni, anche di fronte a vincoli posti dal datore di lavoro o da un qualsiasi portatore di interessi, uno spazio di azione ci è dato. Possiamo, in quello spazio, muoverci con più o meno responsabilità. Possiamo, in quello spazio, muoverci con più o meno attenzione, con più o meno cura. I brutti esempi, i cattivi maestri, l’infelice contesto, la presenza di chi si comporta peggio di noi – niente di tutto questo è sufficiente a giustificare i nostri comportamenti. Ognuno di noi ha il dovere di dire a se stesso: solo se io faccio tutto quello che posso fare, senza aspettare che qualcun altro si muova prima di me, cambierà qualcosa nell’azienda in cui lavoriamo, nel nostro paese, nel mondo del lavoro, nei rapporti tra economia produttiva e finanza. E poi, siamo comunque responsabili di ciò che ci accade intorno. Siamo responsabili delle situazioni che vivono i nostri colleghi, i nostri dipendenti, i nostri superiori, i clienti e i fornitori. Siamo responsabili di ciò che pensano e fanno i nostri familiari, i nostri amici. Siamo responsabili di ciò che fanno i nostri rappresentanti, coloro che abbiamo eletto in Parlamento, o che abbiamo delegato ad agire per noi in qualsiasi ambito societario ed associativo. Siamo responsabili anche di ciò che accade nel mondo. Perciò, ognuno di noi è anche Direttore del Personale della Foxconn, quell’azienda cinese dove tutti –simbolicamente– contribuiamo ad esportare la fabbrica, i crudi rapporti di lavoro, il lavoro duro, al confine con lo sfruttamento che lede i diritti della persona. Basta con i distinguo, con le giustificazioni, con i compromessi, le contestualizzazioni. Basta anche con la tolleranza, con il quieto vivere e il lassismo. In questo alla fin fine sta l’etica. Non possiamo chiederla agli altri, e non facciamo forse mai abbastanza per mettere in campo la nostra. Non possiamo permetterci di dire ‘non vale la pena’. Non c’è giustificazione che tenga. Dobbiamo mettere in campo la nostra etica innanzitutto per noi stessi. Dobbiamo farlo per i nostri figli, per il mondo futuro. Non abbiamo neanche la giustificazione che ‘non serve’. È facile dirsi che il nostro scarso potere, il luogo marginale in cui viviamo e agiamo, fa sì che il nostro operare sia ininfluente. Ma non è vero. La complessità del mondo in cui viviamo ci dice il contrario. La nostra vita personale sta lì a dimostrarci che gli effetti dell’azione si possono osservare solo con ‘senno di poi’. Così, guardando a ritroso, ci apparirà evidente che una semplice scelta ha provocato conseguenze grandi e imprevedibili. Così funziona, su scala più vasta, il cambiamento sociale. Non è l’azione precisa, programmata, pianificata, che ha effetti. Gli effetti nascono dal continuo tentare, dalle scelte fatte per passione, dall’autostima, che ci porta a dare valore al nostro agire. Per tutto questo è importante dare spazio all’etica. Non un’etica di principi astratti, ma un’etica che si manifesta nel nostro senso di responsabilità. Non una Corporate Social Responsibility buona per riempire rapporti patinati da allegare al bilancio, ma una responsabilità sociale che si manifesta in scelte precise, coraggiose. Di questo parliamo in questo numero della nostra rivista, nella sezione speciale nelle pagine da 46 a 59, ma in fondo spero che questo atteggiamento –mettersi in gioco personalmente, non rinunciare– appaia come tratto che accomuna gli articoli che pubblichiamo su Persone&Conoscenze. E questo atteggiamento è anche il filo conduttore delle testimonianze personali che proponiamo negli incontri del ciclo Risorse Umane & non Umane, prossime tappe: Napoli, 9 febbraio; Ancona, 1 marzo; Bari, 14 marzo. Naturalmente non siamo tutti uguali. Il manager ha sulle sue spalle un maggior carico di responsabilità. Dal comandante Schettino abbiamo diritto di aspettarci di più che dall’ultimo membro dell’equipaggio. Ma poi, vale la pena di ridirlo, l’ultimo membro dell’equipaggio è chiamato comunque a fare la sua parte. Proprio per dar simbolicamente voce a ‘tutti i membri dell’equipaggio’, anche a coloro che di solito nessuno ascolta e nessuno vede, con questo numero Persone&Conoscenze si arricchisce di una nuova rubrica. Roberto Grassilli, illustratore e fumettista, al quale dobbiamo dal gennaio 2009 i disegni di copertina della nostra rivista. Leggi tutto >

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