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 Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Quale è la guida adeguata per una associazione?
Tre parole ci aiutano a riflettere.
La visione è un carisma, un ‘dono divino’, il frutto di uno stato di grazia. È illuminazione, schiudersi improvviso della mente alla conoscenza del vero.
Tutto risale alla radice indoeuropea weid-. Da cui il sanscrito veda: ‘io so’, ‘scienza’, ‘conoscenza’. E in greco eidos, ‘apparenza’; eidôlon (da cui idolo), ‘immagine’; idea, ‘aspetto’; e historia, ‘informazione’.
Da weid- anche il latino videre: ‘percepire con gli occhi’. La concezione vedica del sapere –la partecipazione a una verità cosmica– è riletta all’interno della nostra cultura come esperienza concreta realizzata tramite il senso della vista.
Eppure videre non perde mai del tutto il suo significato di ‘illuminazione’. Visione infatti è già in latino una voce dotta, propria della lingua filosofica, creata a partire da videre per rendere il greco phantasía –che discende dalla radice indoeuropea bha–: ‘luce’, ‘illuminazione’.
Il verbo phánein sta per ‘mostrare’, ‘rendere palese, visibile’. Da qui epifania: ‘festa dell’apparizione’; e phántasma: l’‘immagine che appare’. Dunque: ‘vedere’, ma spingendosi oltre i limiti di ciò che può essere chiaramente visto.
Per questo, più che la ragione serve la saggezza. Da weid- deriva infatti anche wisdom. Altra radice indoeuropea di grande respiro è swer-: ‘vedere’, ‘guardare’, ‘conservare’. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Da swer- deriva il sanscrito varutá, ‘protettore’; il greco horán (‘vedere’); così come il latino observare: ‘ob’ (verso) – ‘servare’, con la duplice accezione di ‘fare attenzione’, ‘adempiere’, e di ‘non togliere mai gli occhi di dosso’. Da swer-, ancora, l’italiano garanzia, e l’inglese warrant. Alla luce della radice swer-, il servizio ci appare manifestazione di apertura e di rispetto per l’altro. Ben lo dimostrano due parole latine legate alla stessa origine: verecundus (appunto, ‘rispettoso’) e reverendus (‘venerabile’).
La radice indoeuropea aug– ci parla invece del ‘far crescere’. Di qui in latino auxilium: termine tecnico militare per ‘accrescimento di forze’, ‘rinforzo’. E augure: chi dà presagi favorevoli, annunciando l’accrescimento di un’associazione o impresa. E augustus: è ‘augusta’ l’associazione o impresa segnata da presagi favorevoli. Un’ulteriore accezione è più importante per noi: è ‘augusto’, ‘accresciuto’, chi sa amarsi, aver cura di sé. L’auctor è ‘colui che attesta, che ‘si fa garante’. L’auctoritas non è necessariamente un attributo individuale.
Può ben riguardare una organizzazione, un gruppo, una intera società: ricordiamo l’‘auctoritas populi Romani’.
Se guardiamo all’associazione come luogo di pari, allora autorevole è ‘chi si fa ‘promotore di una crescita’. Leggi tutto >

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di Lauro Venturi

Nella precedente rubrica promettevo alle lettrici e ai lettori di approfondire l’affermazione “Per me, l’individualismo che caratterizza l’imprenditoria molecolare è un punto di forza”.
Senza quell’individualismo, chi glielo faceva fare a questi artigiani, a questi piccoli imprenditori, di tenere botta con tempi di pagamento impossibili, una burocrazia soffocante che si porta via alcuni mesi del loro lavoro, banche che pongono condizioni a dir poco esose? Hanno tenuto botta perché la loro impresa è la loro vita. Si può anche irridere a quest’affermazione, ma è così: dietro a quest’imprenditoria diffusa, non ci stanno freddi analisti finanziari che sui resoconti del ‘quarter’ decidono se continuare o no a rimanere in quel determinato Paese.
Ci sono persone che nella loro azienda ripongono il progetto di vita d’intere famiglie. Poi ci stupiamo, con ipocrita incredulità, se il capitale aziendale e familiare in queste strutture sono troppo mescolati, quando –da sempre– le banche le hanno affidate in base a un virtuale consolidato tra patrimoni aziendali e personali. L’imprenditoria diffusa, come il turismo, sarebbero il nostro petrolio; solamente che ci divertiamo a ignorarlo e, a volte, a metterne a rischio l’esistenza con fiammiferi superficiali e intrisi di pregiudizio. Senza fare tanti giri di parole: è ancora predominante una ‘cultura industrialista’ che parte dalle università e arriva alla politica, passando per i mezzi di comunicazione. Partiamo dalle università. Queste leggono le Pmi con modelli astratti, in gran parte derivati da altre realtà.
Alla luce dei fatti le aziende micro e piccole non si possono però interpretare con questi modelli e, invece di cambiarli, si dice che sono le Pmi a essere sbagliate. Basti pensare al tormentone della crescita: abbiamo aziende troppo piccole! Che cavolo vuole dire quest’affermazione? Supponiamo che la taglia media delle aziende italiane sia di dieci addetti: se per magia triplicassero la loro dimensione, forse che un’azienda di trenta ha le carte in regola per competere sui mercati internazionali, sviluppare una sistematica attività di ricerca e innovazione, approvvigionarsi con facilità al mercato finanziario? Suvvia, non scherziamo! E la politica? A parole tutti sono a favore della microimprenditorialità, ma nei fatti sonnecchiano ancora nel dialogo tra Governo – Confindustria e Sindacati. Anzi, avverto una sorta di fastidio verso queste realtà, un approccio svalutante e astratto. C’è anche il problema che, per affrontare le micro e piccole imprese, non è possibile attivare il contatto diretto, come invece si può fare con gli industriali che frequentano i talk show.
Bisogna passare dalle loro associazioni, e questo alla politica non piace. Terminata, e per fortuna, la fase in cui le associazioni erano collaterali, e spesso passive, alla politica, adesso quest’ultima vede i loro dirigenti come competitor che possono scalfire il castello della casta. Mi rendo conto della rozzezza dell’analisi, non è mio intento sviluppare qui l’argomento, che però non voglio tralasciare perché credo che in un prossimo futuro sarà territorio fertile per nuove sperimentazioni di relazione tra politica e imprese. Sui mezzi di comunicazione basta solo dire che fanno un tutt’uno tra Confindustria e il mondo delle imprese. Adesso, con l’avvento di Rete Imprese Italia, che raggruppa le organizzazioni leader dell’artigianato e del commercio, non hanno nemmeno l’alibi dell’eccessiva frammentazione, ma continuano a sottostimare il ruolo della micro e piccola imprenditorialità. È cattiveria dire che la causa può essere nel fatto che le Pmi e le loro associazioni non possono tenere a libro paga troppi giornalisti? Auspico che, invece di sognare un mondo di grandi industrie che non c’è, ci si rimbocchi le maniche per individuare concreti strumenti di sviluppo per la nostra imprenditoria diffusa, grazie alla quale su circa dieci cittadini uno decide ogni mattina di giocarsi la propria partita. Perché possa vincerla, deve risvegliarsi una forte cultura del lavoro, aiutata da associazioni imprenditoriali rinnovate, intese come costruzioni comuni d’idee, di speranze, di rabbie e di progetti. Leggi tutto >

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