|rubrica| Tentativi ed errori
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di Francesco Varanini
Si dice comunemente, ‘lavorare per tentativi ed errori’. Forse è questa l’essenza del miglioramento continuo. È giusto considerare il rispetto delle procedure −oggi si tende a dire spesso policy− come il requisito minimo necessario per il buon funzionamento organizzativo. Ma questo non basta. Qualsiasi procedura è la risposta a esigenze organizzative che si sono manifestate nel passato. È sano supporre che la situazione che stiamo vivendo qui e ora sia differente da quella che aveva motivato la definizione di quella procedura. In ogni caso dovremmo sempre chiederci, anche di fronde a una modalità di azione che si rivela efficace: non c’è forse, alla nostra portata, una modalità d’azione ancora più efficace?
Tentativi: la parola discende da una radice indeuropea, ten, che ci parla di ‘tendere’. Il progetto è la tensione verso uno scopo. Il processo è ‘sfondamento in avanti’, quindi tensione costante alla soddisfazione del cliente, che si traduce in un continuo affinamento dei modi di fare e del ‘chi fa cosa’.
Mi sembra qui pertinente ricordare qui anche espressioni contigue a tentativo. Intento: ciò che si desidera, proposito, intenzione, mira, e anche: attenzione, sollecitudine. Intenzione: disposizione d’animo, inclinazione della volontà a muoversi in una certa direzione.
Arriviamo così agli errori. Errare è l’andar vagando, il peregrinare, il vagabondare. Si tende vagabondaggio: Ulisse erra nel doppio senso, viaggia qua e là, e al contempo compie scelte che si rivelano sbagliate. Il latino errare, da una radice ers, di valore desiderativo, presente in area germanica, sta propriamente per ‘andare senza una meta’. Non è un vano muoversi, è il considerare sempre possibili movimenti differenti. Non è un rinunciare al raggiungere una meta, è il considerare che la meta raggiungibile non è mai una sola.
Possiamo anche ricordare un verbo latino semanticamente contiguo: experiri: ‘io provo’. In italiano esperienza, esperimento, esperto insistono su questo concetto: non ho una via certa da percorrere, ma divento via via più bravo a trovarla.
Altro verbo latino connesso è agere, alla lettera ‘condurre spingendo’. Il modo agire non è dato a priori, non è già definito; si manifesta invece come tensione verso un comportamento sempre più efficace, saggio, opportuno, adeguato alla situazione.
Nella Vita activa1 –saggio sul lavoro di grande rilievo, che ho già citato in questa rubrica- Hannah Arendt descrive tre diverse forme di lavoro. La prima: il faticare dell’animal laborans: caso esemplare il lavoro costretto da una catena di montaggio, lavoro il cui senso è determinato da un sistema, da una macchina, di cui l’uomo è schiavo. La seconda: il darsi da fare dell’homo faber: l’artigiano è libero, perché lavora senza vincoli dettati dal contesto; è libero di organizzare il lavoro come crede; però è limitato dallo scopo, già assolutamente definito. La sua libertà è limitata dallo scopo. Non può innovare creare: è un fabbro che sta forgiando una spada, un vasaio che sta forgiando un vaso. C’è, ci ricorda Hannah Arendt una terza forma di lavoro, l’agire. Lei stessa fatica a trovare esempi, e non trova di meglio che a fare riferimento all’agire politico del cittadino della Repubblica ateniese. Qui, a differenza sia dell’operaio assoggettato al comando, sia dell’artigiano vincolato da una tecnica, l’uomo è veramente libero di lavorare, scegliendo, per tentativi ed errori, cosa fare, e come farlo.
1 Hannah Arendt, The Human Condition, 1958; in italiano: Vita activa, Bompiani, 1964