Romeo Sacchetti, il coach di basket come il Direttore del Personale: le persone dietro ai successi

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di Dario Colombo
@Dario_Colombo

Gestione delle persone, obiettivi da raggiungere, tecnologia per valutare le performance, motivazione e talenti. Normali tematiche della Direzione del Personale. Ma pure attività all’ordine del giorno per un allenatore di basket, che, nel suo ruolo di guida delle persone, svolge senza sosta. E che possono metterlo a dura prova. Persino se sei un omone di due metri, ti chiami Romeo Sacchetti e, almeno all’apparenza, sei in grado di trasmettere un pizzico di timone.
Il coach di Brindisi, ex Dinamo Sassari, si è raccontato in occasione dell’evento HR Global Summit – Il futuro delle organizzazioni e della funzione HR di Ambrosetti: palcoscenico scelto per svelare alla platea di dirigenti d’azienda i ‘segreti’ della sua strategia di gestione delle persone che l’hanno portato dalla Legadue di pallacanestro al Triplete (Scudetto, Supercoppa Italiana e Coppa Italia) nell’arco di sette anni.
“Di certo ci sono stati momenti difficili, ma una squadra e una società hanno bisogno di affrontare queste situazioni per comprendere le loro reali possibilità”, ha esordito Sacchetti, che si è svelato recentemente in Il mio basket (Add Editore, 2016) dove ripercorre una carriera fatta di tanti successi.
Nel mio basket libero tutti possono fare cose straordinarie”, ha proseguito il coach di Brindisi, precisando di “allenare, ma senza stressare”: “Ogni giocatore deve poter esprimere il proprio talento per essere in armonia con se stesso”. E c’è da credergli, visto che nella sua ventennale carriera in panchina ha allenato campioni del calibro di Gianmarco Pozzecco, Travis Diener e Shane Lawal: “Quando devo scegliere un giocatore, vado a cercare l’uomo e solo dopo penso al talento che può esistere dietro l’uomo”, è la sua strategia per creare un team coeso e vincente. Anche perché al talento, il coach deve “far capire che la squadra si mette a sua disposizione, ma poi ci sono anche gli altri componenti del team che permettono al talento di avere la sua performance”.

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Romeo Sacchetti all’evento di Ambrosetti: HR Global Summit – Il futuro delle organizzazioni e della funzione HR

Il coach di basket è come un direttore d’orchestra”, ha continuato Sacchetti, ricorrendo a una metafora spesso utilizzata anche in ambito aziendale: “Deve essere una guida che non condiziona i rapporti, ma deve aumentare la flessibilità della squadra”. Che tradotto significa che l’allenatore è chiamato a “tirare fuori il meglio delle persone”, confrontandosi con il loro potenziale: “Se uno ha certo potenziale, allora devo tirargli fuori quello”. L’importante, però, è che “non si giochi con la paura”: “Ogni giocatore deve essere libero di svolgere il suo ruolo ed essere sicuro di potersi esprimere”. Per esempio, se c’è chi è abile in un certo tiro, allora questa persona non deve temere di giocare in un certo modo. Ecco perché Sacchetti ha ribadito che “il coach deve fare in modo che i giocatori facciano le scelte giuste”. Che non sempre vanno a braccetto con gli schemi: “Il basket è fatto di grande tattica, ma spesso gli avversari ti impediscono di seguire un determinato gioco e per questo il giocatore deve saper leggere la situazione e prendere una decisione che va fuori dagli automatismi degli schemi”. Insomma, il talento è importante perché è ciò che fa la differenza, ma è fondamentale che il leader consenta alla sue risorse la possibilità di esprimersi, per il bene del team s’intenda.
In questo anche la tecnologia è un valido aiuto, un po’ come nel caso dei manager che possono affidarsi a software sempre più puntuali per gestire le persone. “Un tempo nel basket c’erano le video cassette per analizzare le partite, oggi ci sono programmi informatici che permettono uno scouting completo di ogni giocatore e sono gestiti da analisti in grado di estrarre numerose informazioni”, ha chiarito il coach di Brindisi. E questo tema si ricollega alla ‘squadra allargata’, quella fatta non solo dell’allenatore, ma pure dal suo staff: “Mai sottovalutare le persone che lavorano intorno al team”, ha argomentato Sacchetti, precisando che “ognuno ha il suo ruolo, e il coach è chiamato a controllare che ognuno lo rispetti.

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Alla fine, quindi, la decisione finale spetta all’allenatore che, nonostante l’introduzione della tecnologia per analizzare potenziali e criticità di ogni persona, è anche chiamato a motivare la sua squadra e a fare scelte per qualcuno dolorose: “È una situazione normale, perché nello sport la scelta è inevitabile; a Sassari sono riuscito a trovare ragazzi in grado di capire le decisioni. È importante che ogni giocatore abbia chiaro fin dall’inizio il suo ruolo”. Anche perché, “il basket è fatto di occasioni e uno deve essere sempre pronto perché può esserci sempre un’opportunità da cogliere”, ha continuato Sacchetti. Aggiungendo: “Nel mio ruolo sono chiamato a portare sempre esempi positivi di giocatori che sono stati in grado di dare una svolta alla loro carriera in una determinata situazione”.
Quindi l’ex coach di Sassari ha chiarito che, a differenza del mondo aziendale, nel basket sono due le leve su cui puntare: “Da una parte la remunerazione perché ci sono giocatori che scendono in campo per poter guadagnare di più; poi c’è chi punta a obiettivi come l’Eurolega, l’Olimpiade, l’Nba… se mancano queste due leve, allora è difficile motivare una risorsa, perché non ha più il ‘fuoco’ dentro”. Ma non è finita, perché c’è sempre il rapporto umano: “Se costruisci un rapporto diretto e franco con le persone, saprai che anche nei momenti difficili ti daranno tutto; opprimere con l’obiettivo non aiuta la persona ed è ecco perché è necessario liberare dallo stress”.
Certo, non sempre le cose vanno per il verso giusto. Come ogni manager, anche l’allenatore di basket può, infatti, doversi confrontare con persone ‘non allineate’: “I giocatori che cercano lo scontro in modo non diretto lasciano intendere che c’è una crepa insanabile nel rapporto e tutto è destinato a rovinarsi”. E a volte a rimetterci è proprio il leader: “L’esonero fa parte del lavoro, come nel caso dell’esperienza di Sassari dove l’addio non è stato a causa dei risultati, ma del feeling ormai rotto con la società e il presidente; era inevitabile che finisse così”, ha ammesso Sacchetti.

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