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Nuova generazione, nuove esigenze: come gestire i Millennial in azienda

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La formazione delle competenze da sola non basta quando i cambiamenti in atto portano a un ‘nuovo mondo’, che richiede nuove capacità e non solo aggiornamento o adeguamento delle abilità. Quando il cambiamento assume l’aspetto di una vera e propria mutazione culturale (tecnologica, sociale, produttiva) spingendosi oltre le dinamiche di transizione consuete, occorre evolvere la mentalità, la visione di scenario, il progetto d’impresa.

In questa prospettiva Execo –società che si occupa di Ricerca e Selezione, Formazione, Consulenza strategica e organizzativa– lancia una linea dedicata a offrire ai responsabili d’impresa alcuni focus di attenzione a temi cruciali per la mutazione in corso: sintesi narrative, pillole riflessive sul sito, dibattiti e modelli di intervento educativo per la quarta rivoluzione d’impresa.

Una riflessione centrale in questo scenario riguarda i Millennial (i nati tra il 1981 e il 1997), per comprendere meglio il senso delle mutazioni e delle nuove prospettive generazionali in ambito aziendale. È giunto il momento per le imprese di affrontare il tema, anche se questo significa mettere in discussione la propria organizzazione e il proprio modo di lavorare, magari rimasto immutato per decenni.

A spiegarlo è Giovanni Siri, Professore Ordinario di Psicologia Generale, autore dello studio Generazione Millennials. Generazione sperduta o laboratorio di transizione sociale? realizzato con Execo; un quaderno pensato per dare spunti alle aziende su come attrarre, tenere e valorizzare i lavoratori della nuova generazione.

Mobilità estrema e ricerca di sé

La prima caratteristica dei Millennial che spiazza i datori di lavoro è la mobilità a breve termine: entrano in azienda, vengono formati e dopo pochi mesi se ne vanno altrove. Una tendenza riscontrata innanzitutto negli Stati Uniti, dove gli standard di mobilità sono storicamente più elevati di quelli europei, ma che si registra anche nel Vecchio Continente.

L’irrequietezza è un tratto che i Millennial hanno nel loro Dna: si tratta infatti della prima generazione che ha abbattuto le barriere fisiche e virtuali e ha avuto la possibilità di spostarsi e di connettersi con tutto il mondo. I Millennial sono unattached, privi di legami, anche come consumatori: non si fidelizzano a un brand. Nella sfera professionale questo si traduce in priorità diverse rispetto alle generazioni precedenti: per i Millennial, rispetto allo stipendio, conta il tipo di esperienza che un certo lavoro permette di fare.

Sono disposti a barattare un aumento salariale con un ruolo che dia loro soddisfazione, che li faccia sentire presi in considerazione, stimolati, valorizzati, responsabilizzati. Siri è convinto che si tratti di una generazione priva di un’identità definita e che proprio per questo cerca relazioni autentiche, anche in ufficio: il Millennial ha bisogno di crearsi una propria identità attraverso il rapporto con gli altri e il giudizio delle persone che lo circondano, sa di valere, ma ha bisogno di sentirselo dire.

Ne consegue che in azienda il Millennial cerca nel proprio superiore una figura di tutor, che lo guidi e lo aiuti a trovare la propria strada. Più un fratello maggiore che un capo: lo stesso atteggiamento che hanno loro stessi quando si ritrovano a gestire un team di persone.

Una nuova cultura del lavoro

Secondo il rapporto di Execo, con la generazione Millennial si inaugura una nuova fase della cultura del lavoro. La professione viene intesa non tanto come uno strumento finalizzato al raggiungimento di un successo socioeconomico, quanto come un modo per esprimere se stessi e per crescere coerentemente con le proprie potenzialità.

Per questo i Millennial cercano –ma spesso non trovano– ruoli che li appassionino, che rispecchino il loro percorso di studi e le loro ambizioni. Tutto ciò si ritrova nella tendenza, molto forte in Italia, ad aprire startup o a lavorare come liberi professionisti pur di non entrare in un’azienda che non sia in linea con i propri valori e aspettative. Certo –mette in guardia Siri– il confine tra desideri e illusioni è sottile, e in questo i Millennial rimangono un po’ ingabbiati in una eterna giovinezza che può far perdere loro il contatto con la realtà.

Ma potrebbero davvero cambiare per sempre il rapporto tra individuo e lavoro. Lo si vede nel rifiuto della fissità degli ambienti lavorativi, a cui i Millennial sostituiscono la flessibilità, l’innovazione e la personalizzazione. L’equilibrio tra vita privata e professionale, per esempio, è destinato a cambiare: il work-life balance è già superato, la generazione Millennial pretende una integrazione totale tra vita e lavoro.

Infine, all’azienda è richiesta una vision: i professionisti di ultima generazione hanno un’idea fortemente etica del lavoro, vogliono sapere che avrà un impatto positivo sulla società, che servirà a cambiare quanto non va nella realtà attuale. Per poter gestire al meglio questo capitale umano, alle aziende servono gli strumenti per analizzarlo e la voglia di riorganizzarsi sulla base delle nuove esigenze.

Come si legge nello studio, l’azienda deve trasformarsi da “caserma” in “palestra”: bisogna fare rete, lavorare in modo coinvolgente e generativo, ripensare complessivamente il sistema organizzativo e la logica di gestione del personale. Insistere solo sull’engagement dei lavoratori non basta. Serve valorizzare le caratteristiche di ciascuna generazione presente in azienda per favorire una vera conciliazione.

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