Motivazione: una sublimazione della nostra aggressività

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di Marco Buti

La qualità di un prodotto o di un servizio è in ragione della qualità della prestazione; e la qualità della prestazione è immancabilmente legata alla motivazione che chi opera mette in ciò che fa.
In questo articolo vengono illustrate le leve utili e possibili per favorire e mantenere la motivazione.

Durante la pausa di un convegno, un collega relatore, General Manager di un’importante azienda lombarda, mi disse che, secondo indagini che aveva letto, i dipendenti delle aziende toscane si caratterizzano per essere fra i più difficili da coinvolgere nelle dinamiche o nelle iniziative aziendali; e che si caratterizzano marcatamente per il fatto di essere particolarmente inclini a cercare fuori dall’azienda gli elementi per la propria realizzazione personale.
Non approfondii e non saprei dire se me lo indicasse come una caratteristica o come un difetto.
La cosa mi condusse però immediatamente al pensiero che anche se non avessi saputo di essere nato a Firenze, quella sua affermazione mi avrebbe dato una bella indicazione se non sulla provincia, almeno sulla mia regione.
Sono profondamente convinto che a impegnarsi nell’esercizio di cercare e di raggiungere e poi di valutare la propria realizzazione personale, ci s’impegna in una faccenda complicata e di molto utile. Potrei dire inevitabile; quasi fatale. Anzi, perché non manchi nulla, aggiungo che la tentazione di leggere la propria realizzazione personale solo o prevalentemente in relazione all’attività professionale che si svolge, benché fatto comprensibile come umana debolezza, porta con sé il rischio della parzialità o dell’alienazione; o se no di un rimarcarsi insopportabile di distrazione e superficialità.
Quella di approssimare stime e temperatura della propria realizzazione personale in base ai verdetti che ci somministriamo sulla qualità della nostra vita professionale è una malaugurata tentazione che coglie prevalentemente coloro che, per un incastro di vicissitudini derivanti dalla combinazione fra capacità personali, impegno, provenienza sociale e buona sorte, si trovano avviati su strade maestre di carriera a rivestire ruoli di concetto, di coordinamento, di responsabilità, di gestione di cose e persone, e così via.
Ruoli dai quali si intende o si ricava più facilmente la logica del prevalere: seduzione d’aggressività appiccicata, con forme di sublimazione più o meno efficaci, alle sostanze pulsionali dell’uomo. Ma su questo tema, centrale per le argomentazioni che desidero riportare, tornerò meglio più avanti.
Si può forse dire che questa tentazione coglie invece meno, tipicamente, coloro che, per vicissitudini differenti, si trovano a riflettere nello specchio un’immagine di sé meno coccolabile con elementi di prestigio professionale. Penso a quelli che passano la loro giornata dietro a lavori di manovalanza: ad attaccare bottoni ai capi d’abbigliamento, a grattare cilindri d’acciaio col dente di una fresa, a quelli che trafilano tubi, che controllano i biglietti su un treno, a quelli che fanno le pulizie degli uffici. A pensarci ne vengono in mente alla svelta anche degli altri; diciamo pure: viene a mente il grosso della truppa nell’esercito dei lavoratori. In ogni caso, che si tratti di gente che vive percorsi professionali da truppa o da quartier generale, è gente alla quale una nutrita schiera di motivatori, di leader e di gestori delle risorse umane continua a predicare che il fare d’eccellenza passa anche e soprattutto per la misteriosa energia della motivazione interiore a condursi come meglio non si può nell’impegno a cui si è chiamati.
Ecco qua: la motivazione.
Si sente, oramai da decenni, recitare un sillogismo di solidità tetragona del quale la motivazione è proprio lo snodo centrale: “La qualità di un prodotto o di un servizio è in ragione della qualità della prestazione; e la qualità della prestazione è immancabilmente legata alla motivazione che chi opera mette in ciò che fa”.
Per l’amor di Dio, parole sante.
La via è spianata affinché se ne desuma dell’altro: ad esempio che la propulsione motivazionale genera energia positiva, e su questo non vi è dubbio; e anche che quell’energia porta a giudicare in positivo la qualità del tempo che si passa e, con qualche approssimazione, della propria realizzazione, del proprio essere.
Dunque motivati si vive meglio. Si produce anche meglio. Quale di queste due opzioni rimarcare per prima dipende, casomai, dal fatto che se sia dipendenti o imprenditori, ma può essere conveniente rimarcarla in entrambi i casi.
Quando, giovane psicologo clinico fresco di laurea, ebbi la mia prima esperienza di lavoro in una grande multinazionale, era di moda il concetto di Total Quality, importato dal Giappone.
Rammento la partecipazione di impiegati e operai ai cosiddetti ‘Circoli di qualità’. Erano per l’appunto circoli che si riunivano, in tempi rigorosamente fuori dall’orario di lavoro, allo scopo di trovare soluzioni a problemi professionali nell’ottica di un ‘miglioramento’ da intendere buono solo a condizione che lo si intendesse abbinato allo sprone, ansiogeno, derivante dall’avvisaglia che lo seguiva: “Continuo”.
Benché volta al miglioramento di questioni di lavoro, la partecipazione delle persone ai circoli doveva essere spontanea e rigorosamente non retribuita, affinché si rimarcasse proprio la determinazione interiore dei partecipanti a vivere l’azienda come se fosse la loro famiglia (anzi forse un briciolo di più visto il tempo che i circoli toglievano a quest’ultima). L’ambizione che veniva suggerita era quella di ottenere l’approvazione della proprietà a dare avvio al progetto di miglioramento che si era studiato nel circolo. Non che fosse cosa da poco: dopo settimane o mesi di studi e di riunioni l’operaio aveva l’onore di presentare agli imprenditori o ai loro manager più importanti il progetto ultimato dal suo circolo; lo avrebbe fatto dinanzi a una platea di colleghi e mogli e figli e amici e parenti, e, in caso di approvazione, il cerimoniale prevedeva un applauso dal palco degli imprenditori, la consegna di un orologio di poco valore, o di una penna, o di qualche altro oggetto simbolo dell’azienda. Ma la ricompensa più significativa era, e doveva essere, la soddisfazione personale che il partecipante ricavava dall’aver partecipato.
In definitiva: questi signori dovevano lavorare gratis e il riconoscimento che veniva loro propinato come compenso, era sostanzialmente il beneficio della loro motivazione verso il lavoro stesso, la motivazione a migliorare l’immagine di sé arricchendola di senso di appartenenza e spingendola a miglior coincidenza con quella dell’azienda. Con l’idea che questo potesse migliorare anche la qualità della loro vita in ragione della sensazione di un’accresciuta realizzazione personale. Ricordo che per circa un paio di anni la cosa ebbe entusiasmi ed eco in ogni angolo dell’organizzazione.
Poi, forse perché l’azienda si trovava in Toscana, smise. Improvvisamente e in odore di bestemmie (ne rammento certe di qualche operaio, anche sillabate).
Questa è storia di 25 anni fa, ma rappresenta benissimo un andamento che da allora non è più smesso. Il coinvolgimento anche emotivo del dipendente (dovrei dire della risorsa umana) è rimasto un punto di riferimento ogni qual volta si ragiona di eccellenza qualitativa del prodotto.
Non c’è imprenditore o manager evoluto che non attribuisca importanza agli elementi motivazionali dei suoi dipendenti e che non si ingegni nella realizzazione di iniziative per un loro coinvolgimento emotivamente partecipativo.
Particolarmente lo strumento è quello dei corsi di formazione. Sono tipicamente diretti ai primi livelli aziendali, impiegati, quadri, dirigenti. Gente che poi deve gestire altra gente.
La loro efficacia è molto spesso garantita da metodologie di derivazione psicologica. Le più differenti: ho visto interventi di formazione a stampo cognitivista, relazionale, psicodinamico, comportamentista, di programmazione neurolinguistica. Ve ne sono poi altri che si sviluppano su logiche di rappresentazione teatrale. E poi ci sono quelli che si svolgono in barca a vela, in alta montagna, su un campo di rugby, in un setting di racing; quelli che ci accostano a testimonianze di sportivi, di allenatori, e ultimamente, vedo, anche di cuochi.
Si accomunano sostanzialmente tutti per la solita cosa: il dipendente fa un’esperienza, (cercando di non affogare, di non cadere in un crepaccio o di non rompersi un osso), racconta poi al gruppo dei colleghi discenti le emozioni e i pensieri che ha prodotto nel mentre dell’esperienza e infine si trova accanto il ‘formatore’ (tipicamente uno psicologo o un sedicente tale) che procede nel tentativo di elaborare quell’esperienza emotiva riconducendola in qualche maniera ad argomentazioni proprie del lavoro di chi l’ha raccontata.
Lo fa attraverso le cosiddette attività di debriefing; attività sostanzialmente interpretative la cui consistenza è (fortunatamente) pari a quella delle nuvole e, laddove siano dirette alla rivelazione di caratteristiche della personalità di chi le riceve, anche di dubbia correttezza deontologica, visto che sono forzosamente dirette a nient’altro che non sia rinforzare o favorire l’identità del gruppo dei colleghi e la motivazione ad appartenervi. Quelli a cui ho partecipato o che ho sentito presentare, non pochi devo dire, mi hanno sempre suscitato prima sentimenti di ilarità, poi di irritazione.

Per leggere l’articolo completo (totale battute: 27000 circa – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419)

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