Etica

Modelli organizzativi e dignità: l’etica come strumento di gestione

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La strada per la concezione e concettualizzazione di una Carta etica aziendale mi è stata aperta dalla matematica. Non sorprenda questo percorso. La matematica, infatti, è un linguaggio universale con delle chiavi concettuali che aprono molte porte del sapere. È per questo che ad aprirmi l’accesso all’idea di Carta etica sono stati i due teoremi di incompletezza di Kurt Gödel.

Mi ero lungamente applicato allo studio dei due teoremi, turbato da questa falla nell’assodata perfezione della matematica e della logica. Mi chiedevo se nello stesso edificio matematico potesse esserci una correzione. Purtroppo non l’ho trovata, per la semplice ragione della finitezza intrinseca del sapere umano.

Non mi rassegnavo però ad accettare tale limite e mi tornava in mente il superamento di tante conclamate impossibilità: le Colonne d’Ercole per Colombo e il conseguente paradosso del “buscar el levante por el poniente”; il volo umano reso possibile grazie a un dispositivo più pesante dell’aria; l’immunizzazione raggiunta mediante un’infezione controllata.

Evidente la caratteristica comune: non bisogna fermarsi di fronte al paradosso, se si intuisce che esso possa nascondere una soluzione. Ne esisteva quindi uno per superare la falla di Gödel, con riferimento ai sistemi organizzativi? Qui l’incompletezza ha una caratteristica di grande rilievo gestionale, cioè l’impossibilità di averne il pieno controllo, espressa nella formula: “Chi controlla i controllori?”. Si potrebbe aprire una catena infinita.

Il monachesimo benedettino e l’autoregolazione efficiente

Un uomo di genio, però, Benedetto da Norcia, nel V secolo d.C. trovò la soluzione. Elaborò un sistema organizzativo dove tutti sono controllori di se stessi: nessuno controlla gli altri né è controllato da altri. Tale sistema fu –ed è– quello dell’abbazia benedettina: la prima sorse a Cassino nel 529 d.C., per poi avere una rapida diffusione in Europa e oltre.

Il modello benedettino era caratterizzato da alcune novità: il superamento del monachesimo eremitico a favore di quello cenobitico, collettivo e conviviale, e una nuova visione del lavoro associato alla preghiera e alla meditazione spirituale. In più, una forma di governance del tutto nuova, centrata sul Capitolo, un Consiglio di amministrazione ante litteram, formato da tutti i monaci con pari ruolo e che avevano, appunto, ‘voce in capitolo’.

Lo Statuto, anch’esso documento ante litteram ai tempi della sua istituzione, determinava la Regola, che riguardava sia la vita spirituale sia quella materiale dei monaci. L’abate, elettivo, era responsabile dell’amministrazione, della disciplina e della correttezza morale nella comunità monastica. Se inadeguato, poteva essere destituito. Una democrazia perfetta, insomma, di persone educate e ben disposte al bene comune e in cui a ognuno spettava un voto.

Il monastero era anche un’impresa produttiva multisettoriale. Si cominciava con la bonifica e la regimazione delle acque, poi con l’agricoltura, la falegnameria, la forgia, il Giardino dei Semplici –dove erano coltivate le erbe medicinali– dispensando i farmaci anche nel contado, dal quale venivano attinti lavoratori assistiti anche in vecchiaia.

Il cuore filosofico del modello benedettino, codificato nella Regola, è l’uomo come persona spirituale e il lavoro non più visto come fatica e merce di scambio, ma come gioioso servizio alla comunità ed elevazione morale. Da questi principi emerse la regola più bella dello Statuto benedettino: “Ora et labora et noli contristari in laetitia” (ovvero: “Prega, lavora e non voler essere triste nella gioia”).

L’articolo completo è pubblicato sul numero di Aprile 2019 di Persone&Conoscenze.
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