Lo zen e il benessere sul posto di lavoro

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di Claudio Baccarani, Vittorio Mascherpa, Marco Minozzo

Parlare di benessere sul posto di lavoro significa pensare a come le persone possono ‘stare bene’ nel lavoro che fanno. Ma quale significato si può associare all’ampio concetto dello ‘stare bene’, ossia al vivere bene il tempo di lavoro? Un’analisi dei significati associabili alla parola ‘bene’, può aiutarci a svelare i tratti di questa condizione con l’insuperabile potenza della semplicità.

 

L’importanza del benessere sul posto di lavoro

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Meditazione in una fabbrica giapponese

Qualificando con la sua etimologia la parola bene, si apprende che per ‘stare bene’ sul posto di lavoro le persone dovrebbero vivere un tempo di lavoro ‘buono, giusto, retto, piacevole, utile’. Invero, questi aggettivi possiedono la forza dirompente di ciò che è sempre stato e di ciò che era evidente, al di là di tutte le dotte costruzioni metodologiche che gli studiosi e le varie società di consulenza propongono per produrre un check up del benessere dell’organizzazione. Certo il problema sta nel riempire di significati e di azioni gli spazi tracciati dagli aggettivi indicati, e anche qui il percorso etimologico ci aiuta a delinearne i tratti, per lasciare alla singola realtà la costruzione del proprio percorso-profilo di benessere. Così si scopre che buono richiama alla mente la cortesia e il rispetto, giusto propone l’equità di giudizio, retto introduce alla lealtà e all’onestà, piacevole chiama in causa il diletto e utile conclude parlando di ciò che procura un vantaggio morale o materiale, in questo caso a chi presta il proprio lavoro in un’azienda. In questa prospettiva, si può dire che un posto in cui ci sia rispetto per le persone, ci si muova secondo equità, si adottino comportamenti guidati da lealtà e onestà, in cui ci si diverta a lavorare e si ottenga soddisfazione alle proprie esigenze morali e materiali, un posto nel quale in sostanza corra fiducia nelle relazioni, è un posto nel quale le persone possono stare bene e quindi ad elevato potenziale di benessere. Ovviamente di potenziale si tratta perché il benessere di una organizzazione dipende dalle condizioni di contesto, ma anche dalle interpretazioni che i singoli individui danno del loro stare nell’organizzazione. E in ogni caso va sottolineato come la condizione di benessere non sia acquisita una volta per tutte, ma debba essere accudita di continuo. Ciò detto, è importante richiamare alla mente la relazione diretta che esiste tra benessere e performance, il che significa che maggiori gradi di benessere portano a migliori risultati e viceversa minori gradi di benessere conducono a un peggioramento delle performance, ossia dei risultati prodotti dall’organizzazione. Anche se questa relazione è intuitivamente corretta e legata a un’opzione di buon senso, è bene osservare come sia dimostrato dalle indagini condotte dal Great Place to WorkInstitute che le imprese a maggior benessere tendono a realizzare performance migliori rispetto a quanto accade alle imprese nelle quali contenuta risulta la diffusione di benessere sul posto di lavoro. Allo stesso modo, per parte sua, la letteratura scientifica sul tema sottolinea i positivi effetti del benessere sulle performance delle organizzazioni in termini di produttività, vendite e creatività . In realtà, i risultati dell’azione di un gruppo non si basano solo sulla disponibilità di risorse materiali, tecnologiche, organizzative e dotazioni di personale a vari livelli di professionalità e conoscenza, ma poggiano anche sul senso emozionale e affettivo di partecipazione al progetto da parte delle persone coinvolte nello stesso, cioè sul desiderio di dare il meglio di sé nei ruoli ricoperti all’interno dell’organizzazione. Né più né meno di come accade per le performance di un’orchestra con l’esecuzione di una definita partitura se pensiamo al caso dell’impresa industriale, o di un gruppo jazz se pensiamo al caso di un’impresa di servizi che nell’incontro con i clienti sperimenta continuamente l’imprevisto. In ognuno di questi due casi il risultato dipende certo dalla strumentazione e dalla struttura disponibili, dal talento e dalla professionalità dei musicisti, del direttore d’orchestra o di chi conduce il gruppo, ma dipende soprattutto dalla passione che gli stessi esprimono e dal divertimento che avvertono nell’agire nel loro ruolo. Parlare di benessere sul posto di lavoro è, pertanto, importante sia per le persone che per l’impresa perché l’“amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”, e questo amore si riflette direttamente sulle prestazioni aziendali.

 

Le ragioni di un diffuso malessere nelle organizzazioni

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Pausa di lavoro

Tuttavia, le indagini sul benessere nel posto di lavoro rilevano come i margini di miglioramento rispetto alle attese siano piuttosto rilevanti, quando addirittura non sottolineino la presenza e la diffusione di un vero e proprio stato di malessere. Aspetti questi ben visibili, purtroppo, anche nell’osservazione del divenire quotidiano delle relazioni industriali. Dunque, se il benessere è così importante perché si riscontrano nelle aziende diffuse condizioni di malessere sul posto di lavoro? Se il benessere è così importante perché l’entusiasmo dei primi giorni rapidamente svanisce e le persone tendono a vivere il loro tempo di lavoro come costrizione? Le ragioni sono molteplici. In realtà, al di là di possibili condizioni rientranti nella sfera personale dell’individuo, le persone sul posto di lavoro potrebbero non stare bene per la presenza di una varietà tale di motivi che ne rende estremamente difficoltosa una classificazione chiusa. Tuttavia, non risulta impossibile raccogliere nell’esperienza e nella letteratura qualcuna delle cause più diffuse. Così, potremmo dire che le persone di certo non stanno bene sul posto di lavoro quando ricorre qualcuna delle seguenti condizioni: quando nella cultura dell’impresa il lavoro è considerato come merce (forza lavoro), “ti pago, devi lavorare”. Dimenticando che il dovere di lavorare si può comprare, ma l’amore per il lavoro no: “noi ci rechiamo al lavoro, ma è la nostra anima che ci mettiamo dentro”; quando l’impresa è popolata da un management ispirato a un egoismo negativo, che spinge nella direzione della difesa delle posizioni acquisite per paura di perderle, per cui si preferisce impartire ordini e farli eseguire, piuttosto che sviluppare e diffondere tutto il pensiero e la conoscenza disponibili nell’organizzazione tarpando le ali all’intraprenditorialità, ossia all’imprenditorialità dei singoli soggetti coinvolti nell’organizzazione; quando l’azienda è triste, non ha un’anima, non possiede un sogno, non possiede un progetto se non quello di creare valore, non dispone di una leadership capace di condurre le persone a “fare volentieri le cose che sono da fare”. Non dispone di valori capaci di diffondere un “senso del noi” e del futuro all’interno della struttura aziendale; quando l’azienda non rivela la forza di gestire le crisi e il cambiamento, non sa cogliere il momento del punto di svolta e imboccare strade innovative fuori dagli schemi, perché carente in creatività e incapace di immaginare il futuro; quando in azienda il tempo di lavoro è vissuto come una costrizione sulla base del principio che “il tempo è denaro” e quindi deve essere usato senza soluzione di continuità in una sfrenata ricerca dell’efficienza produttiva, ossia della produttività, dimentichi che il tempo per pensare rappresenta la chiave di volta per attivare tutta la creatività e l’innovazione alla portata dell’organizzazione, unica e vera possibile competenza distintiva e competitiva dell’impresa. In queste condizioni, si registra un differenziale negativo tra il risultato potenziale e quello realmente espresso che traccia la misura del “giacimento di competitività” presente e inutilizzato all’interno di gran parte delle imprese, siano esse pubbliche o private.

 

 

Come produrre benessere: la possibile via della meditazione-vigile

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Meditazione degli operai in GIappone

Non è semplice definire le vie tramite le quali si possa superare la citata diffusa condizione di malessere, spesso connessa all’ansia e allo stress negativo che serpeggia nell’organizzazione quando ricorrono le condizioni ricordate. Facile sarebbe dire che basterebbe eliminare tali situazioni, agendo in senso opposto a quanto le stesse rivelano. Quando anche questo fosse possibile, ciò risulterebbe dall’azione diretta di un management illuminato convinto della bontà della scelta di un nuovo percorso organizzativo fondato sul benessere, piuttosto che su scelte che conducono alla miope strada dello short termism che nella sua perversa logica dell’accumulazione a breve storpia e deforma l’essenza stessa dell’impresa. Saremmo in questo caso di fronte a un management aperto a un futuro complesso, popolato di continui e sempre più intensi cambiamenti, che possono essere dominati solo da una squadra capace di agire all’unisono perché valorizzata nelle persone che la compongono. Quando invece le negative condizioni richiamate non fossero poste in discussione da un management dalla ‘vista corta’, la ricerca del benessere sul posto di lavoro non potrebbe che scaturire da scelte delle persone che partecipano all’organizzazione, per quanto, ovviamente, possa essere loro possibile. In ogni caso, dunque, la generazione di benessere sul posto di lavoro dipende, come direbbe Lapalisse, dall’atteggiamento con il quale le persone vivono la loro partecipazione all’organizzazione. A ben vedere, infatti, le catene del malessere prima descritte sono forgiate da convincimenti culturali degli individui spesso connessi alla presenza di emozioni negative quali la paura, l’egoismo, la tristezza, l’insicurezza, l’efficientismo. L’azione nella direzione del benessere sul posto di lavoro potrebbe così, opportunamente, indirizzarsi nell’ordine della diffusione della capacità di vivere le emozioni negative che popolano il mondo dell’impresa senza da esse farsi travolgere. Invero, non è ipotizzabile costruire uno scenario idilliaco nel quale questi vettori relazionali siano del tutto azzerati. La vita, e l’impresa con essa, portano con sé inevitabilmente queste condizioni. Esiste però la strada che consente alle persone di convivere con esse valorizzandole per ciò che di affascinante e bello possano portare con sé. Una di queste vie è rappresentata dalla acquisizione della consapevolezza di ciò che sta avvenendo nel momento in cui questo avviene, ossia dalla cosiddetta mindfulness, la meditazione vigile. Consapevolezza che quindi è anzitutto la realtà in diretta, vissuta prima che gli stimoli vengano analizzati e classificati per entrare nel ricordo. È coscienza dei fatti in corso, non di quelli accaduti. Non solo di quelli esterni, ma anche di tutto ciò che accade nel mondo interiore della persona: sensazioni, emozioni, pensieri. Consapevolezza che facilita lo sviluppo di una intelligenza emozionale che conduce i soggetti a poter vivere con maggior facilità il tempo di lavoro secondo uno stato di flusso, come a dire di quella condizione psicofisica alla quale spesso si fa riferimento come a uno ‘stato di grazia’, poiché caratterizzata da un picco nella performance associata a un intenso benessere soggettivo. Oggetto di studio dal punto di vista psicologico e prestazionale, questo stato viene descritto come il risultato della

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Nel giardino zen la cura meticolosa di ogni dettaglio rappresenta una forma di meditazione applicata

concomitante presenza di fattori diversi, fra i quali sono stati identificati, sulla base delle testimonianze fornite da soggetti che ne hanno fatto esperienza diretta in campi diversi, i seguenti: un totale assorbimento nel qui-e-ora, con piena aderenza della mente e della percezione cosciente agli eventi in atto, senza ‘fughe in avanti’ o pensieri retroattivi; un intenso benessere psicofisico, un ‘sentirsi bene’ assolutamente peculiare, che risulta difficile paragonare ad altre esperienze diverse da questa; un senso di armonia con se stessi, un ‘esserci’ e un ‘sentirsi’ che deriva dalla sperimentazione di una piena aderenza dell’io ad ogni azione che si sta svolgendo, quasi fosse annullata la distanza fra ‘chi’ e ‘cosa’, fra l’atto agito e il protagonista che lo agisce; la sensazione che l’energia fluisca spontaneamente (da cui la definizione di ‘stato di flusso’), senza sforzo e quasi senza intenzione: una sensazione descritta talvolta come un sentirsi ‘spettatori di se stessi’, anche se pienamente e intensamente coinvolti nello svolgimento di un compito; una rigorosa focalizzazione della coscienza sulla prestazione in corso, un’attenzione mirata capace di includere i dettagli minimi ma anche, nello stesso tempo, di escludere radicalmente tutto ciò che è estraneo alla prestazione stessa; un pieno controllo dei propri mezzi e delle proprie risorse, che vengono percepite come totalmente disponibili e al massimo della loro espressione. Esiste, dunque, una relazione che lega la consapevolezza vigile con lo stato di flusso attraverso l’intelligenza emozionale. Questa relazione conduce a un accresci-mento dei livelli di benessere nell’organizzazione, e con esso a un aumento delle performance. Emerge da questo punto di vista come la consapevolezza vigile possa rappresentare un elemento chiave per la ricerca del benessere sulla base della forza che diffonde negli individui di vivere ‘qui e ora’ la realtà del presente in una proiezione verso il futuro desiderato. Numerosi sono stati –nelle varie culture e in diverse epoche storiche– i sistemi elaborati per facilitare l’acquisizione di questo tipo di consapevolezza, quasi sempre inseriti all’interno di un contesto religioso o filosofico il cui fine ultimo è rappresentato dal perfezionamento dell’essere umano attraverso il progressivo affinamento della sua coscienza. Fra tali sistemi, quelli più noti e che hanno raggiunto un maggiore grado di diffusione nell’occidente contemporaneo sono il Dhyana –parte del vasto corpo dello Yoga vedico–, la Vipassana –più vicina alla tradizione buddista del sudest asiatico– e lo Zen giapponese. Si tratta, in ogni caso, di approcci che assegnano un ruolo centrale alla pratica della meditazione vigile, una forma di osservazione contemplativa associata a un elevato livello di attenzione e presenza mentale. È basandosi proprio sui contenuti più tecnici di queste Vie, che, sul finire degli anni ’70, un biologo americano, Jon Kabat-Zinn, ha messo a punto il Mindfulness Meditation Stress Reduction System, oggi conosciuto semplicemente come ‘mindfulness’ e ampiamente diffuso in tutto il mondo occidentale soprattutto grazie a numerosi studi che ne hanno evidenziato gli effetti positivi non solo sulla salute e sul benessere psicofisico, ma anche relativamente all’area relazionale e a quella prestazionale. La pratica che, da parte nostra, abbiamo utilizzato risente maggiormente della tradizione Zen, e questo soprattutto per tre ragioni. La prima è la radicale laicità di questo approccio, che lo rende pienamente compatibile con ogni weltanshauung e con ogni sistema di credenze. Lo Zen –potremmo dire– non si occupa di definire se vi sia o meno una realtà ulteriore –oltre-umana o divina– focalizzandosi piuttosto sull’ottenimento di una ‘chiara visione’ che semplicemente metta in grado l’essere umano di cogliere da sé, in modo diretto e non mediato, l’evidenza della realtà. La seconda ragione è l’enfasi posta sulla pratica, in radicale antitesi con ogni forma di speculazione teorica o filosofica, ciò che porta lo Zen a essere totalmente svincolato da ogni prerequisito culturale, e perciò praticabile da chiunque, senza alcuna limitazione. L’ultima delle ragioni di questa scelta è la profonda, essenziale fusione fra essere e fare che caratterizza la tradizione Zen e la rende particolarmente affine al mondo del lavoro e delle imprese. Una fusione, peraltro, che spiega e giustifica l’influsso che lo Zen ha esercitato, fin dalle sue origini, non solo sulle arti pure ma anche su quelle applicate: da quelle marziali all’artigianato, fino ai più attuali sistemi di management e di gestione aziendale (Total Quality, Kaizen, Lean Production, Toyota Production System), nei quali è facile evidenziarne l’influenza sia rispetto alle premesse teoriche che nelle stesse modalità operative.

 

Le ricerche

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L’enso, simbolo centrale dello zen, rappresenta la realtà infinita e perfetta in se stessa, così come è percepita da una mente illuminata

Due le ricerche che abbiamo svolto al fine di valutare i collegamenti fra l’esercizio della meditazione vigile e il benessere individuale e organizzativo. La prima, in collaborazione con l’Associazione Managerzen, presso un’azienda di Parma –la Davines SpA– da maggio a luglio 2009 su un gruppo di 29 persone: 18 che hanno partecipato al training e 11 con funzione di campione di controllo. Il training ha avuto la durata di otto settimane, con otto sessioni guidate di 90 minuti, a cadenza settimanale, e una pratica giornaliera di 45 minuti per i restanti giorni della settimana lavorativa, da svolgersi in gruppo senza la guida del trainer, all’interno dell’azienda. La seconda ricerca (maggio 2011), ha coinvolto 26 studenti del corso di Economia e gestione delle imprese dell’Università di Verona, suddivisi per estrazione in un campione sperimentale e uno di controllo. Per questa abbiamo utilizzato un training decisamente più breve: una sessione guidata di un’ora per cinque giorni alla settimana per un periodo di due settimane.

 

L’aspetto soggettivo

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Bodhidharma, padre della meditazione zen e fondatore del tempio di Shaolin, in una
rappresentazione del pittore Yoshitoshi

In entrambe le ricerche è stato utilizzato un questionario volto a indagare il vissuto dell’esperienza e gli eventuali effetti rilevati soggettivamente. Il primo dato che ne emerge è senz’altro quello di un netto gradimento dell’esperienza, giudicata ‘neutra’ soltanto da un soggetto in ognuna delle due ricerche, mentre gli altri si sono espressi con un giudizio globale ‘positivo’ o ‘molto positivo’. Un dato, questo, che assume un particolare rilievo soprattutto per l’esperimento svolto in azienda, dove il training si è svolto in orario extra-lavorativo. Questa considerazione, unita al gradimento complessivo dell’esperienza, lascia intendere, da parte del personale, la disponibilità a partecipare –con il proprio tempo e con le proprie energie– all’investimento in benessere fatto dall’azienda. A sostegno di questo, la constatazione che in nessun caso, nei feedback rilasciati, sono state espresse lamentele sulla scelta degli orari. Anche per quanto riguarda gli specifici ambiti indagati dal questionario –benessere psicofisico, emozionale e relazionale, resistenza allo stress, concentrazione, capacità di gestire situazioni di lavoro complesse– i dati mostrano una netta prevalenza delle risposte in senso positivo, con un’area di incertezza (“Non saprei dire”) che si attesta su una media del 15%. Un risultato, questo, convalidato nei commenti liberi, dove viene ulteriormente ampliata la gamma degli effetti rilevati, anche oltre a quelli specifici indagati dal questionario e senza distinguere fra l’ambito personale e quello professionale. Circostanza, quest’ultima, che conferma il valore trasversale dell’esperienza nella percezione dei partecipanti, che l’hanno vissuta come un’occasione di miglioramento personale ma anche, nello stesso tempo, come un fattore in grado di incrementare l’efficienza sul lavoro, e avvalorandone così il ruolo strategico nel ridurre la distanza fra individuo e organizzazione, fra interesse privato e obiettivi aziendali.

 

La valutazione del benessere

Per una valutazione più oggettiva degli effetti sul benessere psicofisico ci siamo affidati, per la ricerca in azienda, al test MHQ (Minnesota Hospital Questionnaire), in grado di quantificare i seguenti tratti: ansia libera, ansia fobica, ossessività, somatizzazione, depressione, isteria. La somma dei valori (‘indice di nevroticità’) è usata per valutare il rischio di stress e burn-out. Tale indice –misurato prima e dopo il training– si è ridotto mediamente del 23,35% per il campione sperimentale, contro il 15,7% del campione di controllo. Particolarmente significativo il miglioramento di alcuni specifici indici (fra parentesi i risultati rilevati nel gruppo di controllo g.d.c.): somatizzazione (trasferimento a livello somatico di disturbi psichici): -31,03% (g.d.c. -5,00%), probabilmente da attribuire allo sviluppo di una maggiore consapevolezza psicofisica indotta dalla pratica meditativa; depressione (tristezza, calo di interesse, rallentamento dei processi mentali): -31,25% (g.d.c. -11,54%): un risultato, questo, che conferma precedenti ricerche nelle quali è stato evidenziato il ruolo della mindfulness nell’attivare le cosiddette “aree cerebrali della felicità”, collegate alle emozioni positive e agli stati di benessere; isteria (influenzabilità eccessiva, eccessi emozionali): -27,59% (g.d.c. -7,94%), indubbiamente da attribuirsi a una migliore gestione delle emozioni e delle interferenze emotive. Per la seconda ricerca è stato utilizzato il questionario PGWBI, che indaga le dimensioni: ansia, depressione, positività e benessere, autocontrollo, salute in generale, vitalità. Anche in questo caso la somma dei valori (Indice Globale del Benessere Percepito), rilevata prima e dopo il training, va a netto favore del gruppo di studio, con un incremento medio del 16,85% contro il 5,69 del gruppo di controllo. Particolarmente significativi i risultati per alcuni indici: ansia: riduzione del 29,3% (g.d.c. 15,7%); positività e benessere: aumento medio del 21,13% (g.d.c. 8,05%); autocontrollo: 21,67% di miglioramento, contro un peggioramento del 2,44% nel g.d.c.; vitalità: 12,99% a fronte, anche in questo caso, di un peggioramento del 2,78% nel g.d.c. Per una migliore valutazione dei dati, va ricordato che la ricerca si è svolta in periodo di esami, e dunque in un momento di massimo impegno e intenso stress emotivo e mentale.

 

Indicatori di performance

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Pausa di lavoro

Per quanto riguarda gli effetti nell’ambito prestazionale abbiamo valutato, mediante test computerizzati, alcuni tipi di attenzione, considerando che questa rappresenta, oggi, una risorsa trasversale a ogni attività lavorativa e professionale. In particolare, per la ricerca in azienda, abbiamo misurato, prima e dopo il periodo di training, la capacità di prestare attenzione ad alcuni segnali e di trascurarne altri (attenzione selettiva) e quella di prestare attenzione contemporaneamente a segnali di tipo diverso (attenzione divisa). I risultati hanno evidenziato un incremento medio delle risposte esatte del 14,51% (contro il 2,94% del g.d.c.) per l’attenzione selettiva, e dell’8,53% (a fronte di uno 0,83% nel g.d.c.) per l’attenzione divisa. Anche i risultati ottenuti sul campione di studenti mostrano la stessa tendenza, seppure con minore evidenza in una delle due prove. Due, anche in questo caso, le abilità valutate: resistenza alla distrazione e attenzione multipla. Questi i risultati, misurati come incremento medio percentuale delle risposte esatte prima e dopo il training: resistenza alla distrazione: + 0,61% (g.d.c. -0,07%); attenzione multipla: + 8,43% (g.d.c. -1,30%). Da notare come il gruppo di controllo abbia mostrato in entrambe le prove un peggioramento, probabilmente a causa dello stress collegato agli imminenti esami da sostenere. Diverse le dinamiche che possono essere addotte per spiegare gli effetti delle pratiche di mindfulness sull’attenzione e sulla concentrazione. La prima, di tipo neurofisiologico, che recenti studi hanno identificato con un’attivazione di specifiche aree cerebrali. La seconda, collegata a una più efficace gestione dell’ansia –e in particolare dell’ansia da prestazione– che ha consentito ai soggetti di svolgere la seconda prova con maggiore tranquillità. A queste si aggiunge quella tipica riduzione delle ‘interferenze mentali’ che rappresenta uno degli effetti più noti della meditazione.

 

Rilevazioni oggettive

Anche se nell’ambito del benessere individuale –così come inteso e definito in questo lavoro– l’aspetto soggettivo è quello più rilevante, per un quadro più completo degli effetti abbiamo ugualmente ritenuto utile, nel secondo studio, misurare alcuni parametri fisiologici collegati con gli stati di stress, ansia e tensione psicoemotiva. Elettromiografia di superficie. Mediante tre sensori sulla fronte è stata misurata l’attività elettrica muscolare dei soggetti a riposo, che è tanto più bassa quanto più il soggetto è rilassato. La rilevazione prima e dopo il periodo del training ha mostrato nei praticanti una riduzione della tensione pari al 34,56%, contro un incremento dell’11,76% nel gruppo di controllo. Resistenza cutanea (GSR o Galvanic Skin Resistence). La risposta elettrica della pelle risente, tramite il sistema nervoso simpatico, del livello di attivazione generale (arousal) dell’organismo. Nel misurarla vengono considerati due indici: il valore tonico, che aumenta proporzionalmente al rilassamento di un soggetto, e quello fasico che, al contrario, aumenta negli stati di ansia soprattutto causati dall’attività mentale. Il primo dato –GSR tonico– ha confermato sostanzialmente quanto rilevato attraverso l’elettromiografia, e cioè un deciso aumento (+ 31,17%) della capacità di trovare il rilassamento e di contrastare lo stress per il gruppo sperimentale, a fronte di un peggioramento (– 9,68%) del gruppo di controllo. Per quanto riguarda invece il GSR fasico, entrambi i campioni hanno mostrato un peggioramento, che sembra ragionevole attribuire alla preoccupazione per gli esami imminenti. Anche in questo caso, però, il gruppo sperimentale ha mostrato una reazione nettamente più contenuta (26,79%) rispetto al gruppo di controllo (85,19%), probabilmente da attribuirsi a una migliore gestione dell’ansia.

 

Implicazioni manageriali

Pur nella necessità di ulteriori indispensabili verifiche, i risultati raggiunti in queste due prime ricerche sembrano confermare l’esistenza di un collegamento diretto fra l’esercizio della consapevolezza, il benessere individuale e organizzativo e, attraverso essi, le performance dell’organizzazione. Si avvalora in questo modo il ruolo della meditazione vigile come strumento concreto per realizzare –nelle parole di un manager che lo ha sperimentato– una “conciliazione virtuosa delle prestazioni dell’azienda con il benessere di chi ne fa parte”, laddove “questi due aspetti non siano strumentali l’uno all’altro […], quanto piuttosto elementi inscindibili del senso di quel vivere in comune che è un’azienda e che non si può esaurire in uno scambio materiale di do/prendo. Piuttosto lo scambio è basato sul contribuire alla longevità dell’impresa, la ragione per cui un’impresa deve fare profitto rendendo soddisfatti i suoi azionisti, e gli altri stakeholder, con il godere di una opportunità che possa contribuire a vedere realizzato il proprio progetto di vita”.

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