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L’importanza di creare spazi di interazione tra persone

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Nel liceo, la scuola fondata da Aristotele, gli allievi si raccoglievano nel Peripato, l’area del giardino accanto al tempio di Apollo Licio, seguivano le lezioni, studiavano e discutevano tra loro. Qualcuno –non ricordo bene chi o quando– sostenne che alcuni insegnanti “facevano formazione” passeggiando, andando avanti e indietro. Nel IV secolo a.C. ancora non c’ero, ma all’università avevo un professore che insegnava camminando avanti e indietro. In due ore riusciva a fare i chilometri, ansimando e sbuffando come un trenino a vapore.

Noi studenti, in centinaia, nelle nostre aule ad anfiteatro e immobili come armenti al pascolo, lo osservavamo transitare sulle rotaie della scienza, sperando di afferrare al volo qualcosa di cotanto sapere. Passeggiate e colonnati erano di moda nell’antica Grecia e un’altra scuola nacque sotto un portico, la stoà, in cui s’intrattenevano i filosofi stoici, seguaci di Zenone.

Era un luogo pubblico in cui il modo di accostarsi al sapere non era ‘formalizzato’ come oggi. Possiamo immaginare gruppetti di giovani che si ritrovavano attorno a un maestro, desiderosi di apprendere un modo di conoscere e muoversi nel mondo.

La caratteristica di quegli ambienti era l’apertura, la libertà d’accesso, la possibilità di usufruire degli spazi, per costruire il proprio percorso di crescita, ma erano soprattutto luoghi in cui era favorita l’interazione tra gli allievi, non solo per socializzare, ma per fare scienza, per rafforzare l’appartenenza a una comunità d’apprendimento (una ‘community’, la si chiamerebbe oggi).

Ci sono ancora luoghi così? Ci sono strutture in cui l’apprendimento non è esclusivamente frontale, secondo un modello di relazione uno a molti con il docente? Ritengo di sì. Ci sono segni di ritorno e, allo stesso tempo, d’innovazione. Poche settimane fa ho visitato un laboratorio di una famosa università italiana e ho vissuto un’esperienza davvero interessante.

Il senso di appartenenza ai luoghi del sapere

Entrando nel laboratorio, forse per affinità o per contrasto, non so bene, mi è venuto in mente quel passo de Il nome della rosa in cui Adso da Melk descrive lo scriptorium del monastero benedettino come un “gioioso opificio di sapienza”.

Contrariamente alla rappresentazione dell’ambiente monastico, che ho immaginato silenzioso e quasi immerso in reverente preghiera, il laboratorio brulicava di giovani vocianti, tutti indaffarati presso una miriade di computer. Allo stesso tempo però ho vissuto quel posto come un luogo di sapere –non so se ‘gioioso’– ma sicuramente un ecosistema in cui si forma sapere.

Non racconterò nei dettagli quello che gli studenti stavano sperimentando –accenno solo che si trattava di un laboratorio di informatica– tuttavia riferisco un aneddoto che mi ha raccontato il loro professore: “Ieri notte mi ha chiamato il guardiano, per avvisarmi che alcuni miei studenti erano in laboratorio, dichiarando di essere intenti a sviluppare un progetto e che avrebbero avuto bisogno delle attrezzature fino alla mattina successiva. Mi chiedeva di convincerli a tornarsene a casa. Io ho risposto: se è capace di mandarli via lei, lo faccia pure! Io non lo sono certamente”. Quegli studenti erano talmente appassionati a quanto stavano facendo da trascorrere addirittura la notte in università.

Questo ci dice che si creano ancora comunità di studenti che sperimentano, che costruiscono sapere insieme. Allo stesso tempo, ci rassicura sul fatto che esistono strutture formative con luoghi, fisici e digitali, cui gli studenti sentono di appartenere, al punto di potervi accedere quando vogliono.

Tuttavia ciò che più mi ha colpito è legato agli aspetti relazionali, sociali, di cura educativa che caratterizzano questi ambienti: la capacità del formatore di proteggere il luogo dell’apprendere dalle incursioni delle convenzioni e delle stanche abitudini, la predisposizione ad ascoltare e a supportare emotivamente i propri allievi, l’abilità nel saper creare spazi in cui si generino collaborazione e interazione tra persone che stanno imparando –non si può pensare che i giovani sperimentino il lavoro di gruppo solo dopo l’ingresso in azienda–, l’attenzione ai fabbisogni, alle attitudini individuali, alla consapevolezza e al pensiero critico.

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