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L’esperienza di lavoro all’estero, come Itaca per Ulisse

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Portsmouth è un porto nella nebbia, al di là della Manica che separa la grande isola dal resto d’Europa. L’ho conosciuta nell’esperienza in Alenia Marconi Systems nei mesi invernali, quando un vento gelido turbina tra le case di mattoni rossi e le taverne del suo piccolo cuore antico. Per il resto, capannoni, cemento e ampi prati anonimi di periferia industriale. In primavera è diverso, l’opacità del cielo, del mare e delle stesse aree industriali cede al colore e tutto si lucida di luminosità. Oltre il porto puoi scoprire l’Isola di Wight, sederti sul bordo del molo e sognare l’età che non ritorna, quella di quando anche tu eri un figlio dei fiori.

A Portsmouth ho cambiato abitudini, punti di vista, lingua, schemi mentali nella mia vita professionale e personale. È lì che ho tradito i 20 anni precedenti di lavoro fatto di gestione di un contratto collettivo, relazioni sindacali, organigrammi e amministrazione. E lì ho tradito anche la mia natura mediterranea di uomo relazionale, sensibile al gusto del buon cibo (a mensa e fuori) e delle chiacchiere davanti alle macchinette del caffè.

Ho tradito la mia lingua madre, fatta di sfumature, metafore e giri di parole per adottare invece un inglese essenziale, limitato nella ricchezza lessicale, breve e rapido nell’interlocuzione. Ho tradito perfino la mia famiglia, piantando i miei piccoli alla domenica pomeriggio per riabbracciarli al venerdì sera, resi ogni mese più diffidenti per una lontananza che illusoriamente compensavo con gadget e oggetti acquistati frettolosamente all’aeroporto.

Serve il giusto tempismo

Qualunque esperienza internazionale allarga gli orizzonti del lavoro e del nostro stesso modo di essere, ma a condizione che quell’esperienza ti incontri nel tempo giusto, come un seme gettato nel terreno nel periodo della semina. Così è stato per me, quando l’appuntamento con il lavoro all’estero mi ha colto nella maturità di un ultraquarantenne, privo di facili entusiasmi, ma capace di valutare e apprendere con il necessario discernimento.

Della grande azienda anglosassone non ho condiviso quel tipico mindset gestionale che privilegia in modo assoluto e spesso acritico, in ogni scelta e nella conduzione di ogni cosa, la chiave finanziaria, con il conseguente strapotere del CFO: come dire che una sterlina o un dollaro, sono la misura del valore. L’idea, la relazione, la visione, ne sono pure ancelle. Né ho condiviso lo schematismo mentale che portava a soluzioni preconfezionate e sempre doverosamente in linea con gli standard prestabiliti.

Certo, aspetti gestionali molto distanti dai nostri, sempre caratterizzati invece da evidenti tendenze individualistiche e anarcoidi. In quegli anni mi sono occupato soprattutto del progetto d’integrazione tra la parte italiana (ex Finmeccanica) dell’azienda e quella inglese. L’impegno più grande è stato proprio quello di riuscire a superare i classici stereotipi e i luoghi comuni che separavano, come un invisibile muro di pregiudizi, italiani e inglesi: i primi convinti della schematicità e del formalismo degli altri; i secondi della nostra indomabile conflittualità e anomia. L’integrazione è avvenuta poi per una forza interna, lavorando insieme, corpo a corpo nei team e nelle riunioni.

La distanza da casa arricchisce

È sul pezzo che ci siamo conosciuti davvero e abbiamo messo da parte ogni pregiudizio. Ho appreso il potere straordinario del Project management e del lavoro per obiettivi, capace di cementare le persone e scardinare gli schemi mentali. È nei team che nasce un nuovo modo di vedere, un modo comune che valorizza la diversità e genera risultato. In quel modello non c’era nulla dell’impostazione gerarchico-funzionale da cui proveniva la mia cultura organizzativa.

Tutto girava in modo orizzontale attraverso team integrati autodiretti: le persone venivano assegnate in prestito a self-empowered team, che sotto la guida di un team leader esprimevano una compiuta autonomia nel raggiungimento degli obiettivi.

Alle funzioni restava la responsabilità di gestione delle risorse e di presidio degli standard. Appresi che era possibile rinunciare al controllo e attivare la fiducia come un vero carburante organizzativo; rinunciare al classico organigramma, rappresentazione formale del potere, e adottare invece un ‘personigramma’ contenente i nomi di tutti i componenti dei team, applicando un modo di comunicare il senso del servizio e il valore della persona prima della posizione.

Dopo due decenni di lavoro in Italia, fu a Portsmouth che appresi che la parola “risultato” andava declinata con il termine “competenza”: la funzione HR ha la missione di creare le condizioni perché le persone, tutte, siano orientate a investire su se stesse per mantenersi allo stato dell’arte. Condizione questa per abilitare il miglioramento continuo dei processi e del prodotto. La formazione, dunque, non come optional, ma come decisiva leva di business.

La distanza da casa era lunga, ma mi aveva reso ricco. Portsmouth mi ha dato il bel viaggio, come Itaca per Ulisse.


Francesco Donato Perillo

Francesco Donato Perillo è formatore manageriale e docente gestione risorse umane, Università Suor Orsola Benincasa.

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