L’affrancamento dal lavoro-fatica. Basta una boutade?

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di Gaetano Veneto

Nuovi modelli produttivi impongono un diverso utilizzo delle energie psico-fisiche. Il lavoro-fatica perderà progressivamente spazio, sostituito da un nuovo ‘lavoro-creatività’. A seguito del recente dibattito sull’ora-lavoro, che ha visto scatenarsi i soggetti sindacali, si impone un ripensamento delle logiche che stanno alla base del lavoro, nonché una riflessione sulla contrattazione che tenga conto delle esigenze di flessibilità di persone e organizzazioni. Serve, infine, un nuovo dialogo tra aziende, persone e società tutta.        

In principio erat… Nel diritto romano, quello classico dell’età repubblicana e all’inizio dell’età imperiale, i grandi Maestri, Gaio per tutti, operavano una summa divisio, rimasta per millenni solido riferimento (e insieme spartiacque) nella distinzione tra autonomia e subordinazione nell’utilizzo delle energie psico-fisiche dell’uomo: la locatio operis, canone di riferimento per la classificazione giuridica di un’autonoma libera attività volta alla produzione (ed eventuale commercializzazione) di un prodotto, l’opus perfectum e, dall’altra parte, la locatio operarum, istituto che regolava la messa a disposizione per un certo tempo (elemento determinante) da parte di qualcuno delle proprie energie affinché altri ne usufruissero secondo proprie esigenze. Questa distinzione, magari ignorata per limiti personali o per opzioni politiche operate avventatamente, è stata travolta da una sintetica quanto immotivata battuta sull’orario di lavoro ritenuto ormai un ‘ferrovecchio’ nella disciplina e ponderazione delle prestazioni lavorative, utilizzato finora –per soli due secoli– dalla contrattazione collettiva, a partire dalle prime esperienze inglesi, diffuse poi in tutti i Paesi del nascente capitalismo in Europa e Oltreoceano. Torneremo in seguito sul tema.
Dopo oltre 1.500 anni dalla prima lettura latina della disciplina delle prestazioni di lavoro, visti gli abusi che nei secoli si erano perpetrati nello sfruttamento della forza lavoro subordinata, nel 1602 Tommaso Campanella, ne La città del sole, ipotizzava per la società produttiva del tempo un futuro nel quale gli uomini potessero raggiungere, con interno equilibrio dei singoli e felicità per tutti, una giornata lavorativa non superiore a quattro ore, quale che fosse il lavoro di ognuno, autonomo o alle dipendenze, o comunque a disposizione, di altri.
Poco meno di un secolo prima Thomas Moore nella sua grande opera Utopia (1516), insieme filosofica e visionaria, prefigurante un utopico sistema sociale e istituzionale, aveva proposto una giornata lavorativa un po’ più lunga e faticosa, ponendo il limite massimo di sei ore di lavoro per la partecipazione attiva a una società che poteva realizzare un giusto equilibrio e, insieme, un’adeguata soddisfazione per tutti.
Molto più lievemente e deliziosamente, per bambini e (perché no?) per grandi, Collodi nel suo universale Pinocchio (pubblicato in circa 220 traduzioni in tutto il mondo), nella prima edizione del 1883 metteva in bocca al protagonista una proposta molto più ludica e vicina a quel Paradiso terrestre al quale l’uomo, come leggeremo in seguito, cerca di tornare attraverso il totale affrancamento dalla fatica delegandola a robot e trasformando a semplici impegni creativi della mente l’attuale lavoro, in tutte le sue forme. La proposta di Pinocchio, che era insieme un auspicio, si concretizzava in una settimana lavorativa composta da sei giovedì (al tempo in cui scriveva Collodi, giorno festivo); giorni che andavano ad aggiungersi alla domenica, da molti secoli ormai settimo giorno della settimana, per tradizione festivo nei Paesi a religione cattolica.
Con questi riferimenti presi come scenario –utopistico, da un lato, ironico, dall’altro– possono proporsi alcuni contributi e ipotesi prospettiche, cercando di riportare il dibattito su orario di lavoro, subordinazione e ruolo delle parti sociali su binari un po’ meno stretti e dissestati rispetto a quelli inforcati da chi, con avventuroso coraggio ma senza alcun adeguato supporto, anche culturale, ha lanciato un tema, invero di per sé importante, concernente l’utilizzo della forza lavoro.
È universalmente noto che l’evoluzione del lavoro umano in una società (per quanto concerne l’Occidente almeno) classificata come post-capitalistica ha visto un intreccio, non sempre felice, tra scienza, tecnologie, modelli organizzativi sempre più condizionati da una incontrollata e vorace finanziarizzazione globale, fonte di profonde contraddizioni sociali: tutte innovazioni che nei secoli, con le prime tecniche o, più di recente, con le sofisticate tecnologie e i rinnovati modelli di organizzazione e gestione della forza lavoro, hanno reso possibile la riduzione dell’orario di spendita delle energie psico-fisiche dell’uomo. Si è prodotto, così, un andamento a forbice che ha visto come più immediato risultato il grande incremento della produttività individuale e collettiva, malgrado la riduzione dell’orario di lavoro e della fatica, con un enorme aumento dei prodotti materiali e immateriali, frutto sempre più sofisticato del sistema aggregato capitale-forza lavoroimpianti e know how. Dall’altro lato la forbice, restringendosi, ha generato sacche sempre più ampie di una disoccupazione che appare, proprio nelle società capitalistiche occidentali –e ora anche in quelle orientali, come la Cina, minacciosa e condizionante ormai per tutti– vieppiù dilagante e strutturale. Questo fenomeno a forbice che vede la contrapposizione tra incremento di prodotti e produttività, da un lato, e parallelo quanto conseguente incremento della disoccupazione in quasi ineluttabile costante crescita, dall’altro, si verifica solo nei poli industriali e post-industriali delle grandi società a capitale diffuso, in tutto il Pianeta. 

Per leggere l’articolo completo (totale battute: 25000 circa – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419)

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