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La felicità aziendale invisibile agli occhi

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“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”.

Così scrive Primo Levi ne La chiave a stella: Libertino Faussone è un operaio specializzato che non lavora per guadagnarsi da vivere, ma unicamente perché gli piace. Per questo, inseguendo il piacere di nuove esperienze, di nuovi incontri, di nuovi mondi, lascia la fabbrica per girare il mondo impiegandosi come operaio specializzato nelle costruzioni di strutture metalliche.

Tutto gli cambia intorno, ma la chiave a stella è il suo perno: “Quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta”, dice. Forse che la felicità nel lavoro la si trova impugnando lo strumento del proprio lavoro con lo spirito del cavaliere che affronta l’impresa? La chiave, il cacciavite, la penna, lo smartphone? Oppure usandolo come un passepartout per esplorare il mondo?

Sembrerebbe che Levi ci suggerisca che il segreto sia amare il proprio lavoro non come fine, ma come mezzo per conoscere il Pianeta e se stessi. E che per inseguire quest’aspirazione sia necessario dare le dimissioni, uscire dall’azienda come un uccello che scappa via da una gabbia e lascia il nido. Parrebbe, insomma, che il nostro operaio Faussone, con la chiave a stella, ci consegni il talismano della felicità con un messaggio inequivocabile: non cercatela nelle strutture produttive, ma nella vostra professionalità.

Quella professionalità che vi rende indipendenti dalle organizzazioni, svincolati dal bisogno e dunque liberi di scoprire il mondo e chi siete davvero. Sono tra quelli che per esperienza, frustrazioni e pregiudizi, ritiene che l’azienda non sia un posto in cui possa abitare la felicità. E non per la protervia dell’imprenditore, né per il gelido cinismo dei meccanismi che ne regolano il funzionamento.

Forse neppure esiste un posto dove possa essere piantato il seme della felicità e farlo germogliare come le piante del campo dei miracoli di Pinocchio. Sono perciò dell’idea di Libertino Faussone, il cui nome, Libertino appunto, detta il messaggio: la felicità ha il suo terreno nella libertà. La domanda da porsi perciò dovrebbe essere: “Cosa può fare l’azienda per la libertà di chi vi lavora?”.

Al di là di investire sulle condizioni ambientali, sul welfare, sul work-life balance, sulla concessione dello Smart working, sull’organizzazione agile. La felicità è altro. Non è benessere, né stabilità del posto di lavoro, né opportunità di carriera, né reward policy. Siamo seri. Quanti inutili dibattiti sulla felicità in azienda, quanta vuota retorica nell’idea di istituire un happiness manager o di identificarlo nella nuova missione del Direttore del Personale!

Il punto non è che il fine dell’azienda sia profitto e business, ben distante da quello di realizzare la felicità in terra, ma che proprio per conseguire le sue finalità –benché allargate a una generosa missione sociale– l’azienda usa inevitabilmente la presunta felicità del personale come un mezzo per migliorare la produttività: i lavoratori felici rendono meglio e di più.

Adriano Olivetti la vedeva diversamente: “L’azienda è un progetto e il progetto è per l’uomo”. L’impresa esiste in quanto comunità che genera valore condiviso per migliorare le condizioni umane. Ben altro che produttività e costo del lavoro. Il giornalista Furio Colombo, nel raccontare la sua esperienza a Ivrea nell’Olivetti di Adriano, dice: “Il lavoro comincia dove un operaio tocca una macchina e la fabbrica, che prima era ferma, si mette in moto.

Ma non finisce con la fine della giornata […]. Il lavoro disegna un’identità e una vita, è una linea di connessione che raggiunge e attraversa la casa, la famiglia, il gruppo, si lega alla cittadinanza, diventa la persona e diventa il tempo e il modo in cui vive la società…”. Ci chiediamo, dunque, quanto di questa visione sia rintracciabile nel Dna delle aziende di oggi.

Perché solo l’impronta umanistica può cambiare le relazioni di lavoro e rendere compatibile la natura gerarchica dell’azienda con la percezione di libertà dentro un terreno organizzativo in cui contano la bellezza delle cose e l’intelligenza, piuttosto che la fedeltà e la consapevolezza della finalità del proprio contributo al prodotto.

È forse qui il campo dei miracoli. Non produce né monete d’oro, né gemme di felicità. Produce però chiavi a stella. Tocca poi a ciascuno, nella sfera della propria inviolabile libertà, usarle come puri utensili del proprio lavoro oppure come spade per cavalieri di una volta.

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