Il valore del buon esempio per la nostra storia professionale

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Faber est suae quisque fortunae”. La locuzione sallustiana continua a mantenere inalterata la sua attualità anche in epoche, come la nostra, nelle quali vengono regolarmente messi in crisi paradigmi che per decenni hanno ispirato la vita di ognuno di noi. La nostra storia professionale non la si costruisce a caso, anche se variabili indipendenti dalla volontà –compreso quello che viene simpaticamente definito ‘il fattore C’– possono orientare le nostre scelte verso il raggiungimento del successo o la navigazione in un anonimo tran tran.

Ci sarà pure il patrimonio genetico che abbiamo avuto in dono dalla nascita a facilitarci o meno, ma non basta. L’insieme delle esperienze è soprattutto la somma di fattori tra i quali, a mio parere, uno fra tutti incide più di ogni altro, orientandoci come una bussola nel buio: l’esempio. Chi ha avuto la fortuna di avere alle spalle una famiglia attenta a trasmettere valori profondi e semplici, compresa la capacità di saper dire di no nei modi e nelle forme giuste, difficilmente sceglierà di dissipare nel corso della propria vita un patrimonio così prezioso.

Stessa considerazione vale per la scuola con i suoi insegnanti e qui il discorso inizia a farsi più selettivo nonostante nel nostro Paese venga ancora data rilevanza a una certa visione umanistica d’insieme. Sul luogo di lavoro il gioco si fa duro: mettiamo per un momento da parte la solita retorica e andiamo a vedere da vicino quello che succede.

Crisi e mancanza di punti di riferimento

La crisi di questi anni ha fatto riemergere, in quella che credevamo una società opulenta, un aspetto che si pensava fosse ormai un ricordo del passato: la lotta per la sopravvivenza.

La conservazione a tutti i costi del posto porta ad accettare –nel caso migliore– compromessi al ribasso tali da costringere a preferire una vita da yesman a danno di qualsivoglia dialettica costruttiva, per non parlare poi di esempi calati dall’alto fatti di prevaricazioni e prepotenze ispirate al ‘mors tua vita mea’.

Lotte di potere, egocentrismo, scontro di personalità sono una peste che inquina indebitamente l’ambiente di lavoro in barba ai tanti bei discorsi ascoltati in centinaia di corsi di formazione manageriale su etica e responsabilità di chi dovrebbe, nel proprio ruolo, rappresentare un modello virtuoso di riferimento.

Per non parlare di assunzione di responsabilità! Recentissimi casi di disastri finanziari in alcune banche hanno messo in luce personaggi di prim’ordine che hanno dichiarato con candore infantile di “non ricordarsi” di decisioni che, grazie alla loro firma, avevano messo sul lastrico migliaia di ignari risparmiatori, scaricando senza alcun pudore la paternità di tante decisioni scellerate sulle spalle dei loro sottoposti. Eppure quelle stesse firme erano state apposte per decenni in calce ai verbali dei relativi Consigli di amministrazione e Comitati esecutivi, gratificate –tanto per non sbagliarsi– da retribuzioni anche 100 volte superiori a quelle di un semplice impiegato. A che modello si saranno mai potuti ispirare quei dipendenti, specie i più giovani, di fronte a simili esempi?

Il futuro dell’organizzazione del lavoro

Per fortuna non sempre le cose vanno così: ho avuto personalmente la fortuna e il privilegio di lavorare perlopiù con dirigenti di ben altra levatura. Ne ricordo con affetto uno, tra i più grandi banchieri degli ultimi decenni, che sospese un Consiglio di amministrazione cui partecipava il gotha dell’imprenditoria italiana per sincerarsi delle condizioni di salute di un fattorino che in quel momento aveva accusato un grave malore, scomodando di persona, con decine di telefonate, i migliori luminari della medicina per attivare tempestivamente le cure del caso.

Con simili esempi calati dall’alto, ogni dipendente –anche il più modesto– non poteva che dare il massimo di sé in tutta spontaneità affrontando quasi con piacere orari di lavoro durissimi in un contesto di estremo rigore morale e professionale, ma corroborato da un genuino orgoglio aziendale di appartenenza e con risultati economici e di immagine di assoluta eccellenza.

Ma questo è il passato. Tecnologia, progresso ed economie di scala, già portano –e sempre più porteranno– il lavoro a frantumarsi e a identificarsi in una relazione estremamente soggettivistica dell’individuo con il suo computer e il suo smartphone.

La nuova organizzazione sempre più flessibile, per non dire liquida, ci porterà in dono una folla di capi senza un volto e, forse, senza un’anima, efficacissimi tuttavia nell’esercitare un ruolo virtuale di compresenza con i loro collaboratori ispirato a criteri di orwelliana memoria. È il progresso, bellezza, ed è anche giusto che chi lavora sia disposto a sacrificare una quotidiana dimensione sociale a favore, forse, di una parziale riappropriazione del proprio tempo e della propria libertà di movimento. Ma a quale esempio ci si potrà ancora ispirare?

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