Il lavoro definisce la propria umanità

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Per giudicare la bontà di una misura di politica economica è necessario, oltre che valutarne il suo impatto nel corso del tempo, anche misurarsi con il suo costo-opportunità: e cioè a cosa rinunciamo con l’impiego di quelle risorse economiche nel Reddito di inclusione (Rei)? I fondi destinati al Rei potevano essere impiegati diversamente? Se sì, in che cosa?

La misura del Rei nasce come politica di contrasto alla povertà in Italia e come reazione alla crescente disoccupazione. I dati parlano chiaro: l’ultimo rapporto della Caritas Italiana su povertà e esclusione rileva che l’incidenza della povertà assoluta è del 10,9% per i giovani fino a 17 anni e del 9,9% nella fascia dai 18 ai 34 anni, contro il 4,1% degli Over 60. È la prima volta che in Italia si assiste a una congiuntura di questo tipo. I giovani sono più a rischio di cadere in povertà degli anziani.

Uno studio di Luca Ricolfi (su Il Sole 24Ore) divide l’Italia in tre ‘società’. La prima è rappresentata dal mondo dei lavoratori con un contratto a tempo determinato, garantiti, tipicamente dipendenti pubblici o di grandi aziende, con diritti acquisiti e normalmente sopra i 50 anni. Per questa categoria i diritti acquisiti a partire dagli Anni 60 sono rimasti quasi intatti. La seconda è data dai lavoratori più a rischio: gli imprenditori, i lavoratori delle Piccole e medie imprese, i lavoratori autonomi, pienamente esposti alle turbolenze dei mercati. Anche questa categoria ha avuto e ha modo di essere rappresentata (associazioni imprenditoriali, schieramenti politici sensibili al mondo imprenditoriale). La terza è il mondo degli esclusi: i giovani precari o disoccupati, tutte le persone che non trovano rappresentanza e non sono garantiti da nessuno. Questa fascia della popolazione si sta ampliando. Dal 2006 il numero di esclusi è aumentato di circa 1,9 milioni di persone: oggi ogni 100 lavoratori ‘forti’ e rappresentati delle prime due categorie, ci sono 28 soggetti deboli. È un peso che sta diventando insostenibile. Le cause di questo fenomeno sono molte e complesse, alcune sono strutturali, altre dipendono dalla congiuntura economica e dalla crisi che il Paese sta attraversando.

Il lavoro è espressione della dignità dell’uomo

Il Rei viene appunto chiamato reddito di inclusione: è una misura di sostegno a favore degli esclusi dal lavoro. La domanda da porsi è: quale messaggio porta con sé un assegno mensile, anche solo temporaneo? Che il lavoro è semplicemente un mezzo per vivere e per poter consumare, sostenendo la domanda? Ma il lavoro è una dimensione così importante dell’essere umano, che non può esprimersi attraverso il lavoro delle proprie mani ci fa sentire non appartenenti alla società in cui viviamo. Il lavoro, infatti, è sì un mezzo per poter vivere, ma è insieme anche tanto altro.

Attraverso il lavoro diciamo al mondo chi siamo, cosa sappiamo fare: non conosciamo veramente una persona fino a quando non la vediamo lavorare. Il lavoro è espressione della nostra dignità, ma è anche impegno, fatica, capacità di collaborare con altri, perché esso è sempre ‘con’ o ‘per’ qualcuno. E dunque non è mai un atto solitario. Il lavoro è cooperazione; è il luogo dove si diventa veramente adulti; è il nostro contributo a rendere più bello il mondo: ecco perché impedire a un giovane di lavorare è un atto violento, è la violenza di impedirgli di partecipare a questo grande progetto. Il lavoro è anche dolore: ci stanca di più ciò che non riusciamo a far bene, rispetto a quello che sappiamo fare bene. Il dolore nel lavoro nasce anche dall’incontro con il limite, per esempio quello posto da regole e procedure, che a volte reprimono la nostra creatività.

I lavori forzati nei lager
I lavori forzati nei lager

Quanto il lavoro, specie quello ben fatto, sia importante per la nostra vita, quanto possa essere un’ancora di salvezza anche nei momenti più bui e difficili, ce lo ricorda Primo Levi, raccontando un episodio della sua vita nel lager: “Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza, ma per dignità professionale”.

Quando ho citato questa espressione di Levi durante una lezione in una bella sala di un museo, il custode (un liutaio) ha commentato: “Quel muro era lui; i nazisti pensavano di averlo ridotto a un numero e lui, con il suo lavoro ben fatto in quelle condizioni estreme, voleva dire di essere ben più di ciò che gli altri vedevano”.

Il lavoro è tutto questo ed è anche tanto altro. Il punto è allora chiedersi se il sussidio proveniente dal Rei verrà percepito come un sostegno all’impegno di cercare un lavoro, oppure come l’attestazione di appartenere alla categoria dei cittadini di serie B, quelli che non sono abbastanza bravi. Gli effetti di questa misura si dispiegheranno anche a partire da come essa verrà percepita.

L’economista Federico Caffè, diversi anni or sono, così si esprimeva sulla disoccupazione: “La degradazione di non trovare lavoro, avendone le attitudini e la volontà, mortifica e inasprisce, anche chi abbia materiali possibilità di sostentamento”. Secondo il noto economista, l’obiettivo della riduzione della disoccupazione è primario rispetto ad altre misure, proprio perché se anche la disoccupazione non fosse associata a problemi di sostentamento, essa sarebbe dannosa per tutta la società: “La disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è perciò uno spreco di forze produttive, oltre che essere un disastramento morale e spirituale”.

Innovazione tecnologica e ridistribuzione dei redditi

Il movimento legato al reddito di inclusione, o di cittadinanza, prende le mosse anche dalla costatazione che la rivoluzione tecnologica a cui stiamo assistendo, la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, necessariamente avrà bisogno di meno forza-lavoro, perché le macchine ci sostituiranno in compiti di routine, ma anche in quelli più impegnativi. Si stima che tra 10 anni basterà un terzo della forza-lavoro attuale per produrre i beni e i servizi di cui abbiamo bisogno.

Ecco che bisogna inventarsi qualcosa per gli esclusi, che saranno sempre di più (sebbene in Italia oggi i dati sulla disoccupazione siano già preoccupanti).

Lo scenario che si prospetta, dunque, è quello di ridistribuire i maggiori redditi generati dalla tecnologia in modo che gli esclusi dal lavoro non siano totalmente esclusi dal consumo; uno scenario, però, che non può lasciar tranquillo un Paese che nell’articolo 1 della propria Costituzione ha voluto scrivere il sogno di una Repubblica fondata sul lavoro, perché il lavorare è qualcosa di molto più grande di un semplice mezzo per poter consumare.

Torniamo allora alla domanda iniziale: esisterebbero modi alternativi di impiegare le risorse destinate al Rei? Esiste un secondo scenario che si sta profilando all’orizzonte. Per presentarlo iniziamo da un ragionamento meramente economico. Immaginiamo che in una data produzione ci siano 100 persone occupate e sia il loro stipendio giornaliero di 1 (misura generica). Questa produzione genera una domanda di 100, da impiegare in consumi, risparmi e investimenti. A un tratto le innovazioni tecnologiche fanno in modo che per la stessa produzione bastino 75 persone. Rimangono fuori 25 persone, che diventano disoccupate. I disoccupati consumeranno necessariamente meno e quindi la domanda non sarà più di 100, ma inferiore, anche se ai disoccupati andasse un sussidio di emergenza o un reddito di sostentamento. Se la domanda sarà inferiore, di contro diminuirà la produzione, che magari nel frattempo avrà visto altre innovazioni e ulteriore riduzione del numero di persone richieste.

È quello che stiamo vivendo. E che vede il Rei come strumento di contrasto.

Ma proviamo a vedere la situazione e le prospettive in maniera diversa. Immaginiamo, per esempio, che di fronte alle innovazioni, che si prevedono strutturali, riusciamo a mantenere tutte le persone impiegate in una produzione, facendole lavorare sei ore in un giorno, invece che otto, pagando, però, in una giornata lo stesso stipendio di prima (qualcosa che grazie alle tecnologie è abbastanza realistico). Così facendo si potrebbe ridurre la disoccupazione: non si abbasserebbe il livello della domanda, si libererebbero ore che potrebbero essere impiegate diversamente. Nella storia, le norme sociali circa la durata e il valore di una giornata lavorativa sono cambiate. Alcune trasformazioni sono avvenute spontaneamente nel tempo, altre hanno richiesto momenti di rottura, lotte e organizzazione collettiva, come quella dei sindacati. E oggi i sindacati dovrebbero prendere una maggiore coscienza che i lavoratori da difendere sono anche quelli che vorrebbero lavorare e non possono, persone che invece non hanno alcuna tutela.

Conciliare lavoro part-time e attività di cura

La filosofa canadese Jennifer Nedelsky
La filosofa canadese Jennifer Nedelsky

La proposta di cambiamento, però, non è semplicemente quella di “lavorare meno, lavorare tutti”. Il futuro che è ormai alle porte, oltre a vedere rivoluzioni tecnologiche e automazione del lavoro, è anche accompagnato da un aumento dell’età media, un calo delle nascite (almeno in Italia), con il conseguente aumento dei bisogni di cura e di assistenza. Allora le ore liberate, e pagate come se fossero di più, almeno secondo la norma oggi vigente, potrebbero essere restituite alla società in modo diverso: per la cura dei bambini, degli anziani, dei più deboli, in famiglia e nei quartieri di riferimento, e per la coltivazione delle nostre relazioni e della nostra umanità. Questa proposta, che potremmo definire di lavoro part-time per tutti e attività di cura per tutti, è stata ideata dalla filosofa canadese Jennifer Nedelsky, che in un’intervista ha scritto: “Tutti devono donare cura, e nessuno deve stare a casa disoccupato, e tutti devono avere un lavoro pagato, anche se lavoro part-time deve significare ‘buon’ lavoro. Per questo l’espressione ‘part-time’ va rivista, non deve essere intesa come la si intende oggi, ma come un nuovo modo di vivere il lavoro, un nuovo ‘lavoro full time’ per tutti, insieme con la cura”.

In questo scenario, le risorse impiegabili per il Rei dovrebbero andare a sostegno della diminuzione di ore lavorate al giorno da ogni persona, sapendo anche che, se ognuno si dedicasse anche per due ore al giorno alla cura, diminuirebbero pure i costi di cura a carico dello Stato. Chiaramente qui non si tratta di cura professionale, ma di ore di assistenza.

Anche le imprese potrebbero essere coinvolte in questo processo. Oggi la defiscalizzazione degli strumenti di welfare aziendale sta portando molte imprese, che vogliono riconoscere il valore del lavoro, ad adottare questi strumenti. Anche la defiscalizzazione del welfare aziendale è un costo per lo Stato: sono risorse economiche che potrebbero essere impiegate diversamente. Per esempio le imprese potrebbero, anziché impiegare risorse economiche in strumenti di welfare aziendale, semplicemente permettere ai dipendenti di lavorare due ore in meno, in modo da pensare loro stessi ai bisogni di cura. E questo sarebbe più facile se diminuisse il carico fiscale per ogni ora da retribuire.

Il ruolo centrale della donna nell’evoluzione della società

Lavoro e cura di sé e degli altri sono due dimensioni coessenziali della vita e ci rendono più umani. Non conosco veramente il carattere di una persona finché non la osservo mentre lavora; nello stesso tempo non conosco veramente il suo cuore e il suo grado di umanità, finché non la vedo prendersi cura di un’altra persona. Un cambiamento così importante nel modo di intendere il lavoro e la cura è uno di quei processi che richiedono proteste e conquiste collettive. È un dono all’intera società che oggi può venire principalmente, e forse esclusivamente, da voci di donna. Sì, perché tradizionalmente il ruolo della cura è stato attribuito alle donne, che oggi, se vogliono lavorare, devono dividersi, a volte in maniera estenuante e non sostenibile tra lavoro e attività di cura. Ma se la cura è una dimensione essenziale dell’essere umano, e non si è pienamente umani se non ci si prende cura degli altri (anche pulire una stanza è prendersi cura di chi dovrà abitarla), allora tutti dovremmo diventarne più consapevoli. Ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro, se troveremo un nuovo rapporto con la cura, uomini e donne insieme.

Torniamo dunque al tema della storia di copertina: quali effetti avrà il Rei? Come verrà percepito? Le risorse economiche potevano essere impiegate in modo più efficace e più rispettoso della dignità umana?

La proposta, per ora solo immaginaria, che ho evidenziato in questo articolo, non è certo ottenibile in un breve periodo, ma sarebbe un’evoluzione necessaria e auspicabile verso una società più matura, dove tutti possono esprimersi come persone, nel lavoro e nella cura, di sé e degli altri. Affinché possa essere un’eutopia (buon luogo) e non un’utopia (non luogo), richiederebbe un impegno collettivo e una visione ampia, un orizzonte di lungo periodo. Iniziare a confrontarsi su di essa è un primo necessario passo, che potrebbe rappresentare l’avvio di un processo.


Alessandra Smerilli

Alessandra Smerilli, nata a Vasto in provincia di Chieti, fa parte dell’Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice Salesiane di Don Bosco - Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium, dove è docente straordinario. Socio Fondatore della SEC (Scuola di Economia Civile) è docente presso il Master di Economia civile e non-profit, promosso dall’Università di Milano Bicocca, dal 2005.

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