Il futuro del lavoro umano

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Il lavoro come lo conosciamo oggi nacque con la rivoluzione industriale, in una società che grazie alle innovazioni tecnologiche stava sviluppando la capacità organizzativa per incrementare grandemente l’efficienza produttiva e il valore prodotto dalle imprese, cioè la ricchezza dei singoli e delle nazioni.

La parte iniziale del libro La ricchezza delle nazioni di Adam Smith del 1776, laddove introduce il concetto di divisione del lavoro parlando della produzione degli spilli, è il manifesto di questo processo. Come sostiene Michel Foucault in Le parole e le cose del 1966, Smith fondò l’economia moderna introducendo – in un campo di riflessione in cui era ancora ignoto – il concetto di lavoro, avendo riferito per la prima volta direttamente il concetto di ricchezza a quello di lavoro.

Ma a questo punto il lavoro non è più fatto dallo schiavo, dal suddito, da un mercante o da un artigiano: diventa il compito di un operaio salariato che opera all’interno di una fabbrica, che, con i suoi strumenti, è tanto bene rappresentata dall’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert.

La timeline dell’evoluzione dei processi di produzione industriale

La rivoluzione industriale generò capitalisti e operai, figure che prima non esistevano e assunsero caratteri definiti e interdipendenti, nello scambio economico e nella lotta per distribuirsi il valore prodotto. Questi soggetti sociali hanno influenzato la storia e lo sviluppo della società negli ultimi tre secoli circa e fino a tempi relativamente recenti hanno determinato un’economia e una società basata appunto sul lavoro: il diseredato non chiede soldi, ma un lavoro decente.

Tuttavia oggi una nuova trasformazione pare in atto, generata dall’impiego diffuso di strumenti digitali nella produzione industriale e in pratica in tutti i processi aziendali e il lavoro degli operai sembra stia progressivamente perdendo di rilevanza economica e sociale. Il fenomeno è sia quantitativo sia qualitativo: finora soprattutto nei Paesi sviluppati, il numero degli operai si sta riducendo e il tipo di lavoro che compiono sta cambiando.

Divisione internazionale del lavoro, incremento di produttività dovuto alle nuove tecnologie e conseguente modifica delle competenze richieste per operare in modo efficiente ed efficace: sono queste in sintesi le cause generali di questo cambiamento.

Ciò replica strutturalmente uno schema già accaduto in un non così lontano passato a proposito del lavoro agricolo, che attraverso le tecnologie, le conoscenze gestionali e la globalizzazione dei mercati nell’arco di un secolo e mezzo ha incrementato la sua produttività in modo rilevante, riducendo in conseguenza la forza lavoro agricola e nello stesso tempo modificando buona parte delle competenze necessarie. Per esempio, negli Stati Uniti i contadini sul totale degli occupati sono passati dall’80% nel 1870 a circa il 2% nel 2008, e in Italia le cifre sono analoghe. Parimenti è diminuito il valore della terra, che oggi non è più del 6% del valore complessivo dei beni disponibili.

Sta accadendo con gli operai e il lavoro in fabbrica quello che è accaduto con i contadini e il lavoro nei campi? Non sembra implausibile, con una differenza di non poco conto: mentre in un secolo e mezzo c’è stato il tempo di riorganizzare il lavoro e la società a seguito della trasformazione del lavoro agricolo, in un’epoca di trasformazioni rapide come la nostra anche la sparizione dei lavoratori nel settore industriale appare molto più repentina e complessa da gestire dal punto di vista sociale di quanto siamo preparati a fare. Come la sparizione delle lucciole nella metafora di Pier Paolo Pasolini del 1975, la progressiva sparizione della figura dell’operaio è il segno dei cambiamenti in atto nei processi produttivi e più generale in quelli sociali.

Questi cambiamenti sono facilmente osservabili dall’opinione pubblica, che li percepisce come pericolosi e, inevitabilmente, né è spaventata, con la paura delle persone di diventare professionalmente obsoleti, di perdere il lavoro, di non garantire sviluppo alle generazioni future.

Chi vuole offrire una visione rassicurante sostiene che molti posti di lavoro spariranno, ma altri – altrettanti – saranno creati. Ma questa posizione – pur condivisibile – oltre a non rassicurare, non individua il problema nella sua natura più profonda: come affrontare i cambiamenti produttivi e sociali mettendo in grado le persone, nell’arco della loro vita, di acquisire le competenze e le attitudini necessarie per vivere dignitosamente nella società.

 

L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di Aprile di Persone&Conoscenze.
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