Il dilemma della discontinuità

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Armi & Bagaglio – di Livio Macchioro –

Perché (ancora una volta) ho accettato un nuovo tipo di lavoro – Lettera aperta al mio network

“V’è dentro di noi un’energia che aumenta o decresce in conseguenza dell’uno o dell’altro dei nostri atti; tanto bene lo sentiamo che ci si stima o ci si disprezza a loro norma; stima e disprezzo che suppongono un giudizio il quale implica a sua volta un’ulteriore evidenza, che cioè i nostri atti erano liberi: liberi dunque essi furono.” (Paul Bourget – Da I nostri atti ci seguono)

“Felice colui che ha trovato il suo lavoro. Non chieda altra felicità” (Thomas Carlyle)

Premessa
Racconto cosa mi è successo negli ultimi sei mesi. Nel gennaio scorso, da circa un anno e mezzo ero consulente di sicurezza del lavoro, presso un amico imprenditore nel settore. Ero a partita Iva e la prospettiva era ancora debole, per vari motivi. Ho ricevuto la proposta di tornare in uno dei settori frequentati in precedenza, a svolgere uno dei mestieri che più mi era piaciuto. Ciliegina: assunzione a tempo indeterminato, che non guasta. Correttamente, ho informato con ampio anticipo l’amico. All’ultimo momento la vicenda non è andata in porto. Mi sono trovato, in pratica, a perdere due lavori in un colpo solo. Si era ad aprile. Momento di sbandamento, poi ho ripreso a ‘tessere il network’. Ho scelto di fare nuovamente rotta sulla sicurezza del lavoro. Nel momento in cui mi ero speso con questa identità anche con nuovi interessanti contatti, mi è stato proposto un nuovo tipo di lavoro, mai svolto finora. Contratto a progetto presso media azienda. Inizio immediato. L’ho preso. Adesso, devo tentare di gestire al meglio le conseguenze di tutto questo –in termini di immagine professionale e personale– nei confronti di amici e contatti avviati e adesso sospesi. Anche perché tra 6 mesi non so cosa succederà: probabilmente dovrò rimettermi in pista. Si tratta, in pratica, di salvare il salvabile. Questo pezzo nasce dalla pressante domanda che faccio a me stesso: come giustificare il percorso fatto negli ultimi mesi innanzi all’inflessibile tribunale del network e del mercato del lavoro?

Le ragioni della scelta
Mi rendo conto, e do atto, che la mia condotta –vista dall’esterno– sembra denotare inequivocabilmente disorientamento, assenza di progetto personale, sprovvedutezza e cinismo nella gestione delle relazioni. In guerra le navi procedono a zigzag per evitare i siluri. Il mio percorso sembra avere –talvolta– l’obiettivo di ‘centrarli’ tutti. In altri termini: totale assenza di professionalità e di affidabilità. Questa posizione personale è inequivocabilmente negativa, oppure può essere in qualche modo ‘comprensibile’, soprattutto in considerazione dei tempi che corrono? Cerco di illustrare i principali fattori che –mi sembra– entrano in gioco in questo tipo di contesto. Non li metto né in sequenza logica né in ordine di importanza: possono assumere peso relativo differente; non esiste una situazione concreta uguale all’altra.

Primo fattore: la scelta originaria della discontinuità
C’è un momento chiave, nella storia lavorativa: quando si lascia, per la prima volta, il ‘posto dipendente fisso’. Non ci interessa, qui, la causa: può accadere per progetto volontario personale, può essere una scelta obbligata. In questo momento, si è costretti a fare due scelte strategiche fondamentali: a) puntare sul ruolo ‘storico’ oppure aprirsi a professioni diverse; b) mantenere lo ‘status’ acquisito oppure aprirsi a livelli inferiori. Sono due assi di una matrice che, per ragioni di spazio non è possibile visualizzare. A seconda di come ci si colloca, emergono posizioni più coerenti e posizioni più ‘spurie’, e appare evidente se si punta di più sul ‘rischio continuità’ oppure sul rischio ‘discontinuità’. Si aprono quattro strade: due ‘coerenti/pulite’ e due ‘spurie’. Chiave di volta di questa ‘architettura decisionale’ è la seguente discriminante: possedere un progetto forte e preciso: un’‘idea fissa’; oppure non averlo. Questa medesima situazione si riproporrà, probabilmente, anche in seguito. Teoricamente, la scelta è sempre nuova. Credo, però, che l’impostazione adottata la prima volta tenda a determinare fortemente –per diversi motivi– tutto il percorso successivo.

Secondo fattore: le circostanze personali contingenti
Concorrono sempre ragioni contingenti, di tutti i generi. Credo sia inutile esemplificare, e superfluo elencare tutti i possibili casi della vita. Aspetti psicologici personali e vincoli spesso oggettivi generano ‘spettri’ sempre diversi da persona a persona; e sempre diversi anche nel tempo, nella stessa persona. Nel mio caso, ad esempio, accettare un contratto a progetto a fine giugno significa poter lavorare luglio-agosto, evitando l’interminabile vacanza forzata estiva che spesso colpisce i precari e per come sono fatto, costituisce un’atroce sofferenza.

Terzo fattore: il momento storico ed economico
È molto diverso fare scelte conservative o imprenditoriali a seconda che ci si trovi in periodi di espansione oppure di recessione. Di questi tempi è inevitabile tendere a sopravvivere: tra necessità immediate e prospettive assolutamente incerte. Meglio un uovo oggi, carpe diem ecc. Nel mio caso in premessa, accettare sei mesi di contratto a termine significa essere sicuro di salvare il 2012 a fini anzianità pensionistica: vi sembra pazzia?

Quarto fattore: mentalità corrente e legislazione del mercato del lavoro
Dipende tutto dalla persona? Non è forse irrazionale, maldestro, inaffidabile, anche l’attuale mercato del lavoro, nelle sue leggi, nelle sue iniziative, nei suoi strumenti incerti e frammentati? Il pesantissimo squilibrio di potere contrattuale tra domanda e offerta di lavoro genera strategie e rapporti di lavoro di brevissimo periodo e di legame debolissimo: questo impedisce stabilità e continuità, distruggendo opportunità e valore aggiunto sia per il ‘lavoratore’ sia per l’imprenditore. Paradossalmente, il costo di tutto questo, sia in termini economici sia di immagine personale, ricade interamente sul lavoratore ‘discontinuo’, in quanto ultimo anello della catena. Occorre evidenziare, qui, una grave contraddizione del ‘sistema’: come si concilia questo tipo di sguardo negativo –sottile ma sostanziale, magari inconsapevole ma decisivo– con la conclamata necessità di essere flessibili e pronti a cambiare lavoro (non ‘azienda’ bensì ‘tipo di lavoro’) mediamente ogni 2 anni?

La dignità della discontinuità
Tutti, per natura, tendiamo alla stabilità, intesa come condizione che consente di sviluppare un progetto personale costruttivo per sé e per gli altri. Credo che nessuno punti consapevolmente alla discontinuità come ideale della vita lavorativa; anche perché la discontinuità costa molto più della continuità. Essa comporta sempre un prezzo elevato, non solo in termini di identità professionale e di relazioni sociali compromesse, ma anche in termini economici. Io, ad esempio, in aggiunta al dazio pagato al network, nel periodo in cui mi sono messo nuovamente alla ricerca, non ho guadagnato. Ho continuato a gestire qualche cliente per il mio amico-imprenditore-sicurezza ma ho deciso di non fatturare, un po’ per debito di gratitudine pregresso, un po’ per senso di colpa: in sintesi per l’ambiguità totale causa assenza di formalizzazione del rapporto professionale. Oltre a non guadagnare ho investito: corsi di formazione, acquisto di un Pc essendo rimasto senza ‘base logistica’, spese di relazione ecc. Lo Stato, peraltro, ha continuato a esigere imperterrito le pesanti gabelle imposte alle Partite Iva, che lavorino oppure no. Tutti oneri indotti e spesso ‘impropri’, dovuti al semplice fatto che, comunque, bisogna ‘muoversi’. Credo che, soprattutto di questi tempi, la discontinuità (che potremmo definire forse come il meccanismo di scelte che porta alla precarietà) debba essere considerata semplicemente una delle varie modalità di iniziativa, ‘insistenza’ e permanenza sul mercato del lavoro. Una modalità povera ma del tutto pari, per dignità e motivazione, ai modelli classici: la lotta per la carriera manageriale, l’imprenditorialità, la consulenza, l’artigianato…

D’altra parte, spesso non vi è scelta e, piuttosto che non lavorare, è sempre meglio fare qualunque lavoro. Un ultimo corollario personale: accettare sei mesi di contratto a progetto mi dà la sicurezza (se il Signore mi dà la salute) di salvare il 2012 ai fini dell’anzianità contributiva: credo ne valga la pena.
Permangono fortissime, sempre, la domanda e la ricerca personale delineate dalle due citazioni iniziali.

Occorre cambiare radicalmente il punto di vista culturale, perché si rischia di perdere molte opportunità e di buttare via molti bambini con l’acqua sporca.

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