Il coraggio della verità

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di Piero Trupia

Quanto si può essere certi, di ciò in cui si crede? Poco o nulla. La domanda del resto è un circolo vizioso, essendo la seconda proposizione semanticamente identica alla prima. Ciò in cui si crede è la certezza personale di ciò in cui si crede. Succede talvolta in un esame universitario che l’esaminando risponda, esordendo con un “Secondo me”. L’esaminatore di solito lascia correre e presta attenzione a ciò che segue. Sarebbe invece utile una puntualizzazione. Non ‘secondo te’ e neanche ‘secondo me’. Secondo la dottrina.

Se questa sia fondata o meno, se ne può discutere in sede critica, non però qui, nel corso di un esame. Secondo Tizio, secondo Caio si può dire con ragione, se Tizio e Caio sono persone degne di fiducia, se il loro sapere è dottrina. Questa è tale, se la credenza di chi l’ha inizialmente formulata ha superato un processo di convalida e non è stata respinta. Fu il pensiero greco antico a stabilire il primo criterio per saggiare una credenza personale, al momento nient’altro che un’opinione (doxa), e decidere se questa potesse diventare sapere.

La presenza di agguerrite scuole filosofiche, quella degli scettici e quella dei sofisti in primo luogo, ha sviluppato la dialettica, istituzionalizzando le procedure di convalida o ripudio. I dialoghi platonici ne sono il mirabile monumento. Il cuore della dialettica è l’episteme, nata da un’osservazione obiettiva della natura e dalla constatazione del suo ordine assoluto che fu detto ‘cosmo’, per l’appunto ordine.

L’episteme si esercita verificando se il discorso rispecchia le leggi d’inerenza necessaria tra le cose del mondo. Quell’inerenza è il logos: ragione, intelletto, discorso ben formato o logico.

La logica fonda la grammatica che regola l’inerenza necessaria tra il soggetto e i suoi attributi, in particolare i predicati e le loro modalità (potere, volere, dovere ecc.), e tra le parti del discorso. Il soggetto grammaticale rispecchia, nel discorso, il soggetto reale degli eventi, agente ed efficiente nel mondo.

L’episteme garantisce la corrispondenza del discorso all’essere delle cose. La credenza invece è una rappresentazione soggettiva della realtà che può essere validata o no con la verifica epistemica. Questa è un atto della persona che si esprime con liberi e creativi giudizi; non è un’operazione automatica come la correzione ortografica del computer. L’accettazione di una verifica epistemica, propria o altrui, richiede un atto di volontà e di coraggio del soggetto che professa una credenza. La verifica può essere destabilizzante della struttura identitaria della persona: ero convinto di aver fatto una scoperta e invece è acqua calda. Chi accetta con serietà la verifica, deve sgombrare il campo da interessi contingenti e pulsioni più o meno profonde che spingono a rifiutarla, la contestano o la disattivano ai primi risultati non graditi. Quando la verità ci tocca direttamente, guardarla in faccia può essere disturbante, sconvolgente. Si corre ai ripari, interrompendo il processo o cercando giustificazioni, mascherando i risultati, blindando la credenza.

I più affezionati al proprio sé, attivano la convinzione persecutoria e si rinserrano nella credenza tal quale. Il passo successivo è trasformare quella credenza in verità sonante e accusare il mondo malevolo di non volerla riconoscere. Sartre ha studiato il fenomeno e l’ha chiamato fede della malafede.

“La malafede è menzogna a se stessi: […] mascherare una verità spiacevole o rappresentarsi come verità un errore piacevole […] È a se stessi che si maschera la verità; ma senza la dualità ingannatore – ingannato. La malafede vuole l’unità della coscienza. […] La decisione di essere di malafede non osa dire il suo nome. Essa si crede e non si crede di malafede, si crede e non si crede di buona fede. […] Si decide, fin dall’inizio, qual è la natura della verità. […] Il mondo di malafede di cui il soggetto si circonda ha la caratteristica ontologica di essere ciò che non è e di non essere ciò che è. […] Appare un tipo di evidenza non persuasiva che persuade. […] Non s’ignora che la credenza è frutto di una decisione […] si decide ciò che è e ciò che non è. […] Il progetto primario di malafede è già una decisione di malafede sulla natura della propria credenza. Non una decisione riflessiva e volontaria, ma una determinazione spontanea del proprio essere. Ci si mette in una condizione di malafede come nell’addormentarsi, come in un sogno. […] Resta il fatto che la malafede è credenza convinta che ha inviluppato nel suo progetto primario la sua propria negazione: si è deciso di essere mal convinti per convincersi di essere quel che non si è.” (Jean Paul Sartre, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943, pp. 87, 108, 109). Una verità bisogna volerla e accettarla qual è. Non è ammissibile alcuna negoziazione e se si è smentiti da circostanze contrarie, da pareri autorevoli negativi, da evidenze fattuali inoppugnabili occorre raccogliere e accogliere queste smentite, occorre volere abbandonare la smentita pseudo-verità.

Se invece ci si è creato intorno un mondo consensuale, se si respingono le evidenze contrarie, se in quel mondo ci si nasconde per paura di una verità che ci fa paura, allora salta ogni possibilità di verifica, nasce la paranoia e si perde il contatto con la realtà. La verità convalidata è la faccia onesta della realtà. Accettare la verità qual essa è, è una determinazione etica.

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