Il benessere, questo sconosciuto

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BENESSERE, STRESS, AMBIENTE DI LAVORO

di Maria Cristina Koch

È proprio vero che non siamo in grado di comprendere che cosa sia il benessere? L’articolo di Maria Cristina Koch sembra offrirci una risposta poco incoraggiante: siamo incapaci di desiderare un reale status di benessere, perché non siamo in grado di formulare desideri per ottenere un appagamento vitale, denso di speranze e di voglie. Sembrerebbe essere un problema semantico, perché non riusciamo a porci le corrette domande, ma lo scenario è più complicato, in quanto non siamo neppure aggiornati rispetto alle trasformazioni della società in cui viviamo.

In una realtà sempre più frenetica e dominata dagli obblighi quotidiani, dobbiamo tornare a impadronirci di una buona autostima, che la Koch considera come il “diritto a esistere”. Da qui ci si collega alla responsabilità che non significa necessariamente doversi sentire colpevoli che rimanda a un altro tema di grande attualità: lo stress da lavoro. Per andare oltre questo nuovo male che affligge i collaboratori, l’autrice propone un nuovo Rinascimento in cui la collaborazione tra esseri inimitabili consentirà di partecipare a un progetto comune che sia appagante e che tenda verso l’ideale di benessere.

Desiderare, che fatica

p&c_65_koch_2La questione del benessere, così ripetuta e riecheggiante da bocca a bocca indirizzata verso un ascolto attento e coinvolto, mi sembra ancora un’area di pensiero piuttosto vaga un po’ per tutti noi. Se venisse la fata delle fiabe –o il genio di Aladino– a chiederci che benessere vorremmo, quali i nostri desideri, temo che la prima richiesta sarebbe del tipo ‘non avere più problemi/preoccupazioni/noie…’, essere liberati dalle piccole e grandi preoccupazioni del quotidiano, quando, addirittura, con animo ben consapevole di non dover chiedere troppo, con voce rassegnata e timorosa non chiediamo ‘solo essere appena un po’ più sereni/meno stressati/poterci rilassare’. Ma non avere più mal di denti o essere liberati dal capoufficio pedante, dalla suocera invadente, dal partner assillante o insoddisfacente, non garantisce per nulla l’accesso al benessere. Molto più banalmente, e anche in termini assai più deludenti, forse ci aiuterebbe a mettere fuori il capo da una strettoia faticosa, magari a uscire da una botola in cui stranamente eravamo finiti senza essercene accorti. Allora, sì, è questa l’invocazione: fata o genio, disfa per me questa rete in cui mi ritrovo impigliato; non era questo che volevo, sono stanco e pressato, lascia che ritrovi anch’io un po’ di serenità. Se poniamo attenzione, questa è la sequenza in cui nelle fiabe si svolgono le trattative per i canonici tre desideri da esprimere e cui assicurare soddisfacimento: così no, ma non intendevo che succedesse proprio questo, allora torniamo alla situazione iniziale, cancelliamo la magia. Ricordate “Rombo, rombetto che principe sei” invocato dal pescatore che ha pescato e rimesso in mare il pesce? “Dammi una casa al posto della mia capanna, anzi dammi una villa, meglio un palazzo; rombo, rombetto fammi re, anzi imperatore, o addirittura papa”. Ma quando la richiesta da avanzare è di “essere Dio”, il pescatore ripete, a scanso di equivoci e per non pagare il costo altissimo di una pretesa inammissibile, “fosse per me non lo vorrei, ma è tutta colpa della mi’ moglie; della mi’ moglie che ha tutte le voglie”. Ovviamente, si scatena il temporale con lampi e tuoni che sottolineano lo scandalo dell’avidità inaccettabile e il pescatore si ritroverà bagnato e affranto con la moglie nella sua capanna.

 

Ci mancano le parole

p&c_65_koch_1Perché fare riferimento alle fiabe? Perché ci dicono chiaramente che non sappiamo formulare davvero dei desideri: li confondiamo con il soddisfacimento di un bisogno, con l’allontanamento di una sofferenza, con il quietarsi di un disagio. Non conosciamo le parole per il desiderio, la grammatica, la sintassi, la semantica dello stato di pienezza, di appagamento vitale e denso di speranza e di voglie che potremmo chiamare ‘benessere’. E se non conosciamo le parole per dirlo, come pensarlo? Come esprimerlo? Come realizzarlo? Come verificare che l’abbiamo ottenuto e che ci fa stare bene? Sono tante le parole che ci mancano: come definire un uomo che attende un figlio? E il compagno della mamma che non è il mio papà? Terrificanti i termini come ‘matrigna’, ‘figliastro’ o ancora il più spaventevole ‘fratellastro’ che offende e imbriglia i rapporti tra bambini fratelli. Se non abbiamo le parole, non abbiamo ancora la possibilità di pensarli come pensieri nostri, adeguati a noi. Eredi di una società antiquata, al massimo più novecentesca, ancora non abbiamo posto attenzione a dare voce e spazio a costumi, abitudini, realtà forse un tempo innovative, oggi semplicemente attuali. Basti pensare, ad esempio, agli psicoterapeuti che si definiscono ‘familiari’: ma di quale idea e prassi di famiglia? Dov’è mai, oggi, la famiglia composta da papà e mamma (sempre gli stessi nel tempo!) con il figlio maschio (più grande) e la figlia femmina? L’etica immaginata nei libri per queste strutture, oggi sempre meno frequenti, la prassi più salutare indicata per la crescita dei figli, risulta composta di parole, suggerimenti e idee del tutto inattuali. Oggi le domande da porsi in quell’ambito sono piuttosto di questo tenore: è bene che i due nuclei ricostituiti trascorrano insieme le vacanze? È necessario informare il proprio ex partner del nuovo matrimonio? Invitarlo? Con i bambini con cui vive anche se non sono i suoi figli? Far frequentare ai nostri figli i figli dell’ex partner? E fare l’amore con l’ex partner è un autentico tradimento nei confronti del partner attuale?

 

Il potere dell’erba voglio

Non aver preso atto delle trasformazioni della nostra società, non esserci aggiornati scegliendo nuove parole per vestire le nostre nuove abitudini, ci rende inabili a immaginare con naturalezza pensieri freschi per situazioni non ancora attuate: come dire, ci rende inabili e impacciati nell’abitare l’intero universo dell’immaginario e del non ancora attuato, ma desiderabile. Accade, così, che sentendoci goffi e incapaci, ci ritroviamo a usare le parole, le situazioni, i pensieri e le regole già note, abituali e, soprattutto, garantite capaci di essere condivise e condivisibili. E, per maggiore nostra sicurezza, quanto più forte è il salto logico ed esperienziale che ci viene proposto, tanto più indietro andiamo nel tempo fino ad attingere ai pensieri, alle massime e ai costumi dei nostri genitori o nonni. Quell’insieme che sinteticamente è espresso dai proverbi o dai modi di dire. Senza soffermarci a leggerne il contesto completo in cui la moderazione era sobrietà, saggezza che pensava ad assicurare il domani non dieta ipocalorica per non ingrassare, in cui l’austerità non era mortificazione in sé, ma base per il futuro, capace di garantire forza e resistenza per ottenere il proprio risultato, il sacrificio esercizio e allenamento per la propria capacità di vivere. E con una frettolosità che sconfina nell’arbitrio, ci rifacciamo al modo di vivere sano e giusto che, signora mia, oggi non c’è più, ma allora bastava una stretta di mano per siglare un patto, mica c’era bisogno di tutte queste carte. La bontà e la validità di quel mondo d’altro tempo era l’esatto opposto di quello che c’è oggi. E in quel mondo di allora, che i più giovani possono oggi soltanto immaginare –proprio come nelle fiabe in cui tutto può accadere– antichi motti diventano cristalli di saggezza indiscutibile. Chi di noi non si è sentito ammonire, davanti a un capriccio, che ‘l’erba voglio non cresce neppure nel giardino del re’? E se quello è il pensiero giusto e sano, come posso azzardarmi a volere di più e tutto ciò che mi dà piacere? E da quando il piacere è legittimo, da quando si può dichiararne apertamente il desiderio e la voglia senza doverlo camuffare sotto vestaglie abbondanti di dovere e magari di sacrificio che ne celino le forme appetitose? Le frasi che le donne siciliane ricamavano sulle lenzuola della dote ‘non lo fo per piacer mio, ma per dare un figlio a Dio’ ci fanno sorridere per l’incredibile e tenera e forse irritante ingenuità, ma quanti di noi oggi si danno il diritto di progettare dichiaratamente la ricerca del proprio piacere? Perfino quando si programmano vacanze esotiche o molto dispendiose si adducono motivazioni come stanchezza, stress, necessità/bisogno di staccare un po’ per tornare a lavorare meglio. Non che questo non sia vero, ma se è così legittimo e socialmente saggio fare vacanze, perché dobbiamo offrire spiegazioni che sanno così tanto di giustificazione?

 

Prima il dovere e poi il piacere

p&c_65_koch_3E che fare del detto: ‘prima il dovere e poi il piacere?’ Il presupposto, che ingoiamo in un sorso inconsapevole come fosse un uovo all’ostrica, è che dovere e piacere sono, anzi devono essere mondi lontanissimi e incompatibili. Contrapposti e sempre da tenere distinti. Dunque, che farne dell’idea di cercarsi un lavoro che piaccia? Non sarà una delle solite pretese della gioventù d’oggi, notoriamente senza valori, cresciuta con il televisore a colori e il mouse incorporato assieme al cellulare? Che, se noi avessimo dato retta alla voglia di un lavoro che ci piacesse, non saremmo qui e loro altro che cercarsi un lavoro che piaccia: il lavoro è lavoro, serve ad assicurare il sostentamento, mica a farci divertire. Il piacere è roba da bambini. Bisogna essere responsabili e fare i sacrifici, perché senza sacrifici non si ottiene nulla; perfino ‘chi bella vuole apparire, un poco deve soffrire’ oggi trova conferma nelle sfiancanti sedute in palestra cui deve dedicarsi chiunque ‘si voglia un po’ di bene’ per correggere con una stupenda tartaruga le lunghe ore in ufficio, la fatica dei tanti viaggi, i pasti in piedi, gli spuntini raffazzonati, la pizza o il piatto a fianco del blocco degli appunti, mentre si mangia tutti insieme attorno al tavolo con amministratori delegati e dirigenti analizzando una situazione importante di lavoro e si prendono decisioni di sottile strategia.

 

Il diritto di essere adulti

So bene che molti si sentono inseguiti e obbligati dalle necessità quotidiane, dalla scarsezza del tempo; so bene che scrollerebbero infastiditi le spalle escludendosi da chi abita questo mondo antiquato, grigio oggi –per fortuna– ormai del tutto superato. Mi limito a notare che questo mondo d’antan non è stato ancora sostituito da un corpus di pensieri e di parole che sappia rendere giustizia alle esigenze di oggi e di domani innervandole di speranza, vitalità, capacità di gioia, voglia di vivere appieno, fiducia in se stessi e nella propria capacità di trovare e usare le risorse per sognare, se è vero che un progetto è un sogno cui sono state allocate delle risorse. E prima di ogni altra componente, mi sembra essenziale un diritto a una buona autostima, diritto che a me appare sostanzialmente e diffusamente troppo negato, sì che talvolta penso non si abbia neanche la nozione di questo diritto. Nessuno, infatti, può attribuire o riconoscere il piacere di una buona stima ad altri se non possiede un’alta autostima. E probabilmente si può vivere o sopravvivere anche facendo a meno di ciò che è chiamato amore, ma senza stima è come non avessimo radicalmente diritto a esistere. Sono vicini, spesso fortemente intrecciati, ma la stima è un’altra cosa rispetto all’amore. Ora, mi sembra che la stima sia un attributo dedicato a persone adulte e la tragica –e un poco patetica–rincorsa verso la giovinezza da conservare a ogni costo opponga un ostacolo serio allo scollinamento nell’età adulta da cui si rifugge, forse anche perché si teme di non poter più tornare indietro se si lascia la presa sulla giovinezza. E l’età adulta è davvero pericolosamente vicina allo scivolare verso la vecchiaia, definitivamente considerata inaccettabile: è triste che in questa stagione in cui, grazie a tante ricerche e investimenti significativi, la persona nel mondo ricco ha un’attesa di vita così prolungata, si finisca per rivolgersi alla persona anziana per convincerla che può ancora fare come se fosse più giovane, o all’opposto, per assisterne il disagio fisico e psichico verso l’attesa della morte. Ma non sappiamo pensare, immaginare, o concepire un vero progetto per la vecchiaia dopo averne saputo prolungare il tempo. E, di rimbalzo, questa mancanza priva di valore anche l’età adulta, allungandosi a sfiorare e minacciare perfino la tarda giovinezza, i famosissimi ‘anta’, oggi definiti così spesso, leggermente, ragazzi. A quarant’anni: sempre ragazzi, come i cosiddetti tossicomani, carcerati in un perenne fermo dell’azione che sfoca piano piano.

 

Responsabili non vuol dire colpevoli

p&c_65_koch_4Gira insistente e si diffonde da tempo il refrain che, in analogia con la definizione dell’età infantile o adolescenziale come ‘spensierata’, l’avere dei pensieri significhi avere preoccupazioni e rischiare di restarne sconfitti, sostanzialmente per la nostra incapacità a farvi fronte. Se piove, non sono tenuta ad avere pensieri di preoccupazioni a meno che debba guidare (e potrei mettermi in pericolo) oppure sia uscita imprudentemente senza copertura o, che so, magari perché ricordo di non aver ben chiuso le finestre o perché rischio di far tardi a un appuntamento importante. Voglio dire che si innesca rapidamente il circuito infernale in cui avere delle responsabilità: si richiede una capacità di fronteggiare circostanze non tutte pienamente preventivabili o controllabili, e la nostra bassa autostima ci induce a pensare che non sapremo farvi fronte e questo provocherà dei danni e non potremo che esserne chiamati responsabili- colpevoli. ‘Era tua la responsabilità e hai fallito” e il tuo credito si scarica tutto d’un colpo. Disastro senza riparo alcuno che si abbatte tanto più facilmente perché aiutato dalla forte componente moralistica che permea il nostro modo di ragionare: basti ricordare che riusciamo a parlare di intestino pigro! Spesso additato come il responsabile del nostro malessere. Ma se la dimensione religiosa non deve tollerare di essere ridotta banalmente al moralismo, così anche quella psicologia dovrebbe tornare a essere considerata come disciplina della persona umana nel suo intero, articolato e unico, e non come studio piatto del disagio. Un malsano uso della prima psicosomatica e certe ovvie connessioni che riguardano il nostro essere ciascuno un tutt’uno che collega il corpo, la mente, la psiche, le emozioni, l’ambiente e la nostra storia, sono finite spesso per stravolgersi in colpe. Quante persone malate di cancro hanno dovuto affrontare perfino l’accusa più o meno larvata di esserselo un po’ voluto? Con lo stile di vita, con il modo di mangiare, con l’incapacità di gestire le proprie emozioni; sono infiniti i modi in cui si articolano le attribuzioni di colpe, forse semplicemente perché l’unica cosa cui la persona umana non può rinunciare, dopo il suo essere sociale, è la ricerca delle cause, il tentativo inesausto di darsene una ragione, di organizzare in un insieme riconoscibile e complesso il mucchio complicato di eventi e di dati. Ma attenzione a non renderlo un’arma letale che faccia della responsabilità, massima caratteristica della persona libera e adulta che ne garantisce l’autentico status di protagonista della propria esistenza, la maggiore causa del malessere di oggi, quello cui ci riferiamo con il termine di stress.

 

Il lavoro stressante

p&c_65_koch_5E se c’è lo stress, il primo indiziato cui guardiamo è certamente il lavoro. Il lavoro in sé, l’ambiente di lavoro, il tempo che richiede, anzi pretende, la competizione con il fantomatico ‘tempo libero’ –percepito assai più come libero dal lavoro che libero di fare dell’altro– e il rapporto defatigante con il proprio capo, con i colleghi, quelli più anziani e quelli appena arrivati. Ogni particolare, ogni dettaglio può trasformarsi in una spina urticante in modo insopportabile sì da finire per lacerare la pelle psichica della persona e spesso per lacerare anche il suo sistema immunitario. Ansia, attacchi di panico, fibrillazioni, insonnia, fobie di ogni tipo, perdita di rapporti affettivi, amorosi o amicali, ma anche di capelli, viso affaticato e invecchiato: possono essere moltissimi i segni che denunciano uno stato che chiamiamo stress. Penso, però, che nell’indiscutibile e diffusa realtà di questo malessere spesso ci accaniamo sull’ultimo anello della catena. Farne una malattia, come si dice, del proprio modo di stare sul e nel lavoro, e permettere al lavoro –inteso genericamente– di farci ammalare, di bucare le nostre difese non può ridursi solamente all’ultima strigliata del capo, al cliente che non abbiamo saputo convincere della bontà della nostra offerta, al collega che ha avuto una promozione, o a subire la competizione con altri dentro e fuori dall’ambiente fisico di lavoro. Trovo pericoloso diagnosticare, ordinandoli appunto in una sequenza riconoscibile, i cosiddetti sintomi che delineano la sindrome. Nuovamente, non perché non risulti vero questo modo di ordinare, piuttosto perché mi appare difficilmente in grado di suggerire interventi. Il fatto che una cosa sia vera non la rende di per sé importante. Certamente riconoscere dei segnali è, più che utile, indispensabile, ma ciò che mi sembra fondamentale è la scelta del punto di vista da cui considerarli, ordinarli e leggerli cercandovi un senso compiuto. E il senso compiuto non può risultare da un accorpamento che accomuni tutti quelli che manifestano questi segnali. Credo fortemente che ogni persona debba poter essere considerata come assolutamente unica, il che evidentemente non esclude per nulla la comunanza e la condivisione di segnali e sintomi con altri. Ugualmente unici. Altrettanto ingenuo e francamente sciocco sarebbe negare la capacità di ambienti fisici e relazionali, di stili e attuazioni di organizzazioni, in grado di danneggiare la persona umana, limitandone la libertà, mortificando il valore del suo pensiero, inducendola, appunto, ad avere di sé una minima autostima. Si sarebbe detto, e a ragione, in altri tempi che l’individualità della persona era pericolosa per il successo dell’impresa, che occorrevano yesman che non obiettassero, ma esecutori rapidi ed efficienti. Un tema che conserva ancora molto credito e, soprattutto, conserva la grande capacità di consolarci rimettendo, appunto, tutto in ordine. Mi sembra superfluo confermare che sappiamo tutti benissimo che esistono interessi diversi quando non contrapposti, che esiste la violenza nei rapporti umani (e perché stupirsi che accada nel lavoro?), che la globalizzazione non l’abbiamo ancora digerita (ma se pensiamo che i medici dicono che il nostro mal di schiena dipende dal fatto che non abbiamo ancora ben capito fino in fondo che non siamo più quadrumani!) e siamo tutti confusi e straniti, alla ricerca di un modo nostro di stare in questo mondo. Voglio solamente dire che questo nostro sconcerto può trasformarsi in una grandissima risorsa: l’energia per modificare il nostro abituale punto di vista, per aggiungerne altri e altri ancora, per aumentare le nostre scelte possibili.

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Un nuovo Rinascimento alla nostra portata

p&c_65_koch_6Rinascimento? Perché il Rinascimento, che abbiamo studiato nei libri come un mondo permeabile, era abitato da persone tutte uniche, capaci di collaborare per progetti artistici e culturali senza per nulla attenuare le differenze, anzi accentuandole; persone interessate e appassionate di sapere, in grado di condividere le conoscenze e costruirne una nuova da utilizzare nei modi più diversi, investendo nello studio; persone fiere di brandire alta la propria insopprimibile curiosità. E questo è accaduto quando il mondo era chiuso in catene strette di ingiustizia e di violenza, quando l’attesa di vita era estremamente bassa, quando la tecnologia, i viaggi, le comunicazioni non erano in alcun modo paragonabili o simili a ciò che oggi chiamiamo tecnologia, viaggi, comunicazioni. Perché mai dobbiamo rinunciare oggi, avendo così tante risorse a disposizione, a immaginare, pensare e volere per noi un Rinascimento rinnovato? Perché dovremmo avvertire più inestricabili i vincoli dell’oggi, riguardare alla storia sempre per constatare la nostra pervicacia nel ripetere gli stessi, esasperanti errori di guerra, violenza, sopraffazione e corruzione? E se ci prendessimo l’ardire di considerare le macerie in cui viviamo come la testimonianza che un ciclo si è concluso, con il nostro permesso o senza, che abbiamo il privilegio di esserci oggi per inventare qualcosa per domani? Penso proprio che il tema più rilevante che ci coinvolge tutti, a vari livelli e in più modi, sia come fare a collaborare restando ciascuno sempre di più unico e inimitabile, irriducibile a qualsiasi tipo di etichette e stereotipi. E questa non è l’essenza del lavoro? Non è questa l’impresa? Tante persone che condividono un progetto comune e si danno da fare per realizzarlo. Ognuno rileggendo il progetto comune a suo modo sì che risulti per ognuno a suo modo pienamente appagante, di dare gioia, tale per cui valga la pena di investire, di palpitare, di essere in tensione estenuata verso il risultato: la sua idea di benessere. Perché è il futuro a dotare di senso e significato il quotidiano. La verifica ecologica che pretende rigore e che non tollera superficialità o pressapochismo: un’organizzazione che abbia tanto bisogno di vivere e di funzionare che sia costretta a difendere la vita e la funzionalità di ogni elemento. Un progetto che, come abbiamo imparato vivendo in uno Stato di diritto, mi appartiene, ma che posso raggiungere solamente se gli altri lo sceglieranno come loro progetto personale, affiancando alla mia passione la loro energia. È nelle dittature che non si ha bisogno della libertà degli altri, di ciascuno degli altri, per custodire la propria. Certo, è difficile, ma come mai abbiamo potuto pensare che non lo fosse?

 

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