Google come filosofia, o contro Facebook

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di Francesco Varanini

Possiamo considerare l’informatica ‘la prosecuzione della filosofia con altri mezzi’. Ma mentre i filosofi si limitano a indicare o a criticare, i tecnici che governano l’informatica costruiscono mondi all’interno dei quali noi vivremo. Perciò è importante occuparsi di tecnologia. La vita delle aziende, e la vita quotidiana di ognuno di noi dipendono da ciò che le tecnologie permettono di fare. Le tecnologie determinano i nostri spazi di azione e quindi la nostra libertà. Dietro ogni progetto informatico c’è una filosofia, occultata nel codice. Qui provo ad osservare due filosofie tradotte in tecnologia. Entrambe ci sono familiari. Siamo portati da certe apparenze a temere rischi impliciti nella filosofia di Google. Ma tendiamo a trascurare il ben più grave danno sociale occultato dietro l’apparente semplicità, dietro l’ingannevole facilità d’uso che caratterizza Facebook.

Google street view car: l’automobile dotata di antenne e telecamere che lentamente percorre ogni strada del mondo, passa di fronte alla porta della casa di ognuno di noi, tutto registrando, fotografando la nostra casa e al contempo memorizzando ogni segno della nostra vita digitale, cogliendo ogni traccia dei nostri viaggi nel Web. È una immagine inquietante. Una immagine sintetica che in fondo racchiude in sé il senso di un coerente agire, forse ancor più inquietante perché occulto, sotterraneo, segreto, invisibile all’occhio: il muoversi dei crawler, o spider, nei meandri del Web. Tutto ciò che ‘mettiamo in rete’ è osservato, registrato da Google con acribia, con meticolosa precisione. Nella sua sterminata server farm di Google dobbiamo pensare sia conservata, forse, copia di tutto. Ed ancora, è preoccupante l’alone di mistero che circonda l’algoritmo in base al quale Google ci restituisce risposte alle nostre domande, intermediando così i nostri quotidiani tentativi di costruire conoscenza. Ma comunque, questo non è Broadcasting. Non è Gatekeeping, che è morto, da quando ognuno di noi può essere presente nel Web allo stesso modo di come sono presenti i potenti del mondo. Google non è il Grande Inquisitore, orientato a trattare ognuno di noi come parte insignificante di un gregge bisognoso di cura, ed anzi desideroso di controllo. Google non è nemmeno un Panopticon, perché non pretende di ridefinire l’architettura del mondo.

 

Le torri sono cadute

Non più grandi cattedrali di dati, non sta lì il potere. Le vecchie forme di controllo –bloccare le vie di accesso, stabilire difese perimetrali, filtrare i passaggi di soglia– non valgono più nel pervasivo e diffuso mondo del Web, seamless, adattivo. Con il Web, la complessità sprofonda in basso. Viene meno la centralità del dato. Viene meno necessità del modello dei dati come fonte di un ordine necessario. Google asseconda questa evoluzione. Offre a noi cittadini digitali strumenti per muoverci in questo mondo. Google non ci impedisce di pubblicare sul Web. Non pone divieti. Non abbiamo bisogno di passare al vaglio di Google per essere tra coloro che hanno il diritto ad esprimersi. Google non ci impedisce di mettere in rete i nostri oggetti di conoscenza, non pone limiti alle nostre interazioni. Anzi, Google ci restituisce potenziati i risultati del nostro agire: nel passaggio da lingua a lingua proposto dal traduttore, godiamo dei risultati di ognitraduzione tentata da ognuno di noi. E ci offre gratuitamente strumenti sui quali basare il nostro essere cittadini digitali: il motore di ricerca, la posta elettronica, le mappe di ogni luogo. Google accetta gli standard della Rete, e anzi promuove la loro diffusione. Accetta un linguaggio comune, il linguaggio che c’è, il linguaggio ordinario. Non impone un proprio linguaggio. Se si trova a proporre un proprio linguaggio, ne mette a disposizione il codice. Google non cerca di imporre al mondo una propria struttura. Né sostiene l’esigenza di subordinare tutto e tutti ad un’unica struttura. Non propone uniformazione, ma all’opposto accetta ogni variante. Non persegue un ordine, ma accetta l’accumulazione caotica. Accetta le liste aperte. Non cerca una analisi fine degli insiemi: si accontenta invece di accorpamenti grossolani, sempre provvisori.

 

Spazio etico

Varanini_76_1Street view car: non è l’occhio di Dio del Panopticon, che ci guarda dall’alto. L’auto si muove sulle nostre stesse strade. Nemmeno l’occhio del satellite cartografo è l’occhio di Dio: si tratta sempre del nostro occhio, sia pur spostato in un altrove. Google, semmai, è il mostro che vive con noi, è l’esemplare attore di un mondo camaleontico, contaminato, dove il male convive con il bene in un continuum sfumato; un mondo dove deboli e forti, cooperatori e profittatori sono condannati a convivere. Google ci ricorda che il male è in noi stessi, il male germina nelle nostre intenzioni. La scelta cooperativa e la scelta utilitarista sono separate da una soglia sfumata. La scelta tra il dono e il furto resta aperta per ognuno di noi. Google, ente mostruosamente surdimensionato, ipertrofico, resta comunque uno di noi, uno degli abitatori della Rete. Dobbiamo essere consapevoli dei rischi che corriamo, e dell’impossibilità di evitarli. Dobbiamo forse anche imparare a vivere una nuova forma di libertà: siamo chiamati a vivere in case di vetro; siamo chiamati a muoverci con cautela, scoprendo il cammino strada facendo, passo dopo passo, biforcazione dopo biforcazione, emergenza dopo emergenza. Google ha finito per contraddire nella pratica una parte non trascurabile dei propri presupposti etici. Questo è accaduto quando ha accettato il profitto ed il valore del titolo in Borsa come misura del proprio successo, del proprio complessivo ‘stare al mondo’. Ma anche in questo abbiamo motivo di considerare Google vicina a noi. Come Google, anche noi, a causa di una competizione drogata da valori distruttivi e disumani, siamo spinti ad esaltare i nostri lati peggiori. La presenza straniera di street view car sulle nostre strade –così come il permanente strisciare del crawler nei meandri, così come i lati oscuri dell’algoritmo del Page Rank– danno corpo al nostro timore di complotti. Ma in questo c’è una virtù: siamo spinti a ricordare che la soluzione dei dubbi, la possibilità di trasformare credenze e le dicerie in conoscenza è un processo sociale che non può che passare attraverso l’interazione. La possibile ‘verità’ è attinta per approssimazioni successive, per tentativi ed errori, ne è esempio il lavoro collaborativo appoggiato sul wiki: il ‘veloce’ succedersi di prove ripetute in una arena aperta a tutti. La presenza di Google, anche in questo senso, può esserci alla fin fine utile: ci abitua a muoverci nel mondo come è.

 

Spinoza e Böhme

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Jakob Böhme (1575-1624)

Il timore che proviamo nei confronti di Google, perciò, è il timore dei nostri lati oscuri. Si preferiscono i nemici evidenti, si preferisce un male lontano da noi. Si preferisce un mondo ‘razionale’, con gerarchie evidenti e ruoli definiti; un mondo dove è chiaro chi sta sopra e chi sta sotto; un mondo dove l’evidenza ci aiuta a scegliere. Ma nel Web non vale l’aut aut. Al paradigma dell’‘aut aut’: bianco/nero, buono/cattivo, alto/basso, si sostituisce il paradigma ‘e e’. Siamo tutti connessi in piccole e grandi reti, siamo tutti meticci, siamo tutti docenti e tutti discenti. L’illusione di una organizzazione gerarchica e meritocratica, certa, giusta ed autorevole, creata da terzi, data una volta per tutte, è negata dal mondo che la Rete pone sotto i nostri occhi. L’organizzazione è un mondo possibile che noi stessi, insieme agli altri, contribuiamo a creare istante dopo istante. Se per capire l’informatica strutturata bastano Kant e Hegel, per capire il Web, e per intendere il senso del potere segreto di Google dobbiamo appoggiarci alla filosofia del Ventesimo Secolo. Freud, Nietzsche, Wittgenstein, Husserl, Heidegger, Derrida, Deleuze. Ma forse, ancor più pertinente ed istruttiva sarà per noi una rilettura di Spinoza e di Böhme. Con il Web, viene meno l’idea del potere trascendente. Il potere si manifesta nell’immanenza. In luogo dell’essere sopra/sotto, in luogo della gerarchia, il Web ci propone l’‘essere dentro’, l’essere tutti coinvolti e tutti partecipi, tutti appartenenti ad un insieme senza forma, ognuno di noi così come qualsiasi ente a cui residue abitudini ci spingono a considerare responsabili di ogni cosa. “Lo studente disse: ‘Questo luogo è vicino o lontano?’. Il maestro rispose: ‘È dentro di te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio’.” (Jakob Böhme, Sulla vita soprasensibile, Sesto Trattato). Così, siamo chiamati ad abbandonare fallaci speranze di controllo, e a muoverci invece con gelassenheit: serenità, abbandono, calma, placidità, tranquillità. Ci muoviamo in un Ungrund, ‘senza fondo’. Non sarà la ragione a guidarci nel Web, ma l’attitudine a perdonare e abbracciare –questo è in origine il ‘legame debole’, la connessione–; l’attitudine ad accettare i momenti oscuri del cammino. Il Web ci propone di partecipare a scelte collettive, ad un potere ‘costituente’ che dissolve istante dopo istante le forme spettrali dei poteri già costituiti. Siamo tutti cocreatori del mondo, siamo tutti responsabili e tutti ‘come Dio’. Con il Web, viene meno l’illusione o la speranza di un rassicurante ordine, e siamo chiamati tutti chiamati a cercare di dare ordine, in un processo incessante, ai dati affastellati nell’Ungrund. Ognuno di noi è co-autore del Web; ognuno di noi è coautore insieme a Google.

 

Libertà primordiale

Non possiamo dimenticare che –così come vuole l’epistemologia che si afferma nel Ventesimo Secolo, e così come ci propone l’esperienza empirica della nostra ‘vita nella Rete– l’osservatore fa parte dell’oggetto di indagine, ed influisce sempre sull’oggetto di indagine. Ma anche dove si voglia intravedere una immagine di Google come ente ‘diverso-da-noi’, osserviamo un potere ben diverso dal potere del Gatekeeper. Il potere, ora, sta nella capacità di muoversi in basso, terra terra come street view car, o ‘sottoterra’, in un Ungrund, in un luogo senza fondo dove strisciano i crawler, in un magma di dati. Un nuovo potere con il quale dobbiamo convivere e dal quale dobbiamo imparare a difenderci. Un potere che ci impone di essere cittadini adulti. E siccome non si nasce adulti, serve immaginare una nuova educazione, una alfabetizzazione. Non una educazione alla mera pratica, all’uso del mezzo. Una educazione, invece, riguardante la filosofia, la ricerca e la sperimentazione, la scoperta e la messa in atto di una personale epistemologia. Quel sotterraneo mondo visitato dai crawler nasconde segreti. L’Ungrund, lo sfondamento in basso propostoci dal Web, ci obbliga a confrontarci in fondo con quest’idea di libertà primordiale. Libertà è assoluta, ab soluta, ‘sciolta da’, in origine libera da ogni vincolo. Un contesto nel quale stabilire regole, a partire dal nostro proporre ad ogni altro attore relazioni, ovvero accoppiamenti strutturali. Etica ed estetica sono chiavi di lettura del come e del con chi e del perché mi connetto. Del resto, ben sappiamo che il computing è nato da un intreccio inscindibile, inestricabile, di interessi diversi, militari e civili, intenti di intelligence e di liberazione umanistica. La presenza di Google nel nostro mondo non fa che riproporci questa complessità. E se l’informatica tradizionale ci riproponeva il concetto di codice, il Web ci impone di tornare allo ius, in origine incitamento, augurio di buona fortuna, da cui anche l’idea di giusto e giustizia.

 

Lo scandalo di Facebook

Per tutto questo trovo che, piuttosto che l’ambiguità di Google, dovremmo considerare fonte di scandalo –ostacolo, inciampo, insidia– il rozzo gioco di Facebook. La proposta di Facebook è, appunto, rozza: non è che il ritorno, solo in apparenza dentro la Rete– del Panopticon, del Broadcasting, del Gatekeeping. Panopticon: in Facebook, siamo osservati da qualcuno che non accetta di essere anche oggetto di indagine, osservati da qualcuno che si colloca all’esterno. Broadcasting: la scelta di ‘mettere in onda’ dipende da un terzo, altro da noi. Gatekeeping: tutto è scritto in un codice proprietario, col che siamo espropriati delle nostre conoscenze. Ma –e qui sta il pericolo e la fonte di scandalo– il rozzo gioco di Facebook in fondo ci ‘lascia tranquilli’. Siamo tanto abituati al Grande Fratello, tanto abituati a subire l’unica conoscenza contenuta nelle proposte del Broadcaster di turno, da sentirci liberi in Facebook. Eppure lì, in Facebook, le nostre conoscenze sono svilite, trasformate in ‘contenti’, perché forzosamente racchiuse in forme date a priori. Abituati a contentarci di un ruolo passivo, finiamo per sentirci a proprio agio in Facebook. Lì nessun pericolo ci minaccia. Ma ciò accade perché il potere è già indiscutibilmente affermato. Siamo gentilmente ospitati in una casa che non è la nostra. La pagina di Facebook è una pagina in Facebook. In cambio, la home del mio sito esposto sul Web è la home del mio sito. La street view car potrà anche spiare dentro, ma posso forse chiudere qualche finestra. E comunque la mia casa resta la mia casa.

 

Against Facebook

Anch’io sono su Facebook, e mi dirà qualcuno che legge se per coerenza dovrei togliermi di lì. Ma i motivi per criticare questa piattaforma sono tali e tanti che non si può star zitti. Fa impressione la miope accondiscendenza con la quale accettiamo la sostituzione del World Wide Web con questo simulacro. Fa impressione la piaggeria con la quale ci accodiamo gli uni agli altri, aprendo pagine personali e aziendali in questo luogo chiuso, negatore già in origine della libertà digitale. Fa impressione la passività con la quale, pur di essere presenti lì, accettiamo vincoli umilianti – fino a cedere i diritti di ciò che è nostro a chi governa quel sottomondo. Fa impressione notare come non si colga la differenza tra la galassia Google e questa ridicola gabbia. È giusto vedere in Google una minaccia, per come Google è in grado di sapere di noi, e tracciare i nostri comportamenti. Ma almeno, tutto ciò che Google propone, ogni luogo ed ogni strumento, si fonda sui protocolli Internet, e sulle raccomandazioni che governano il World Wide Web. Ogni dato può essere connesso ad ogni altro dato, dentro e fuori dal perimetro di ciò che Google ci offre. Google, al di là di tutto, sta nel World Wide Web, che è un luogo pubblico e in fondo democratico, fondato su regole in buona misura trasparenti e condivise. Google accetta l’idea dei Commons, anzi la sostiene. Ognuno può contribuire alla creazione di risorse condivise, le mie conoscenze sono anche le tue, la mia rete è anche la tua. Puristi criticano giustamente Google per l’imperfezione con la quale rispetta i fondamenti del Web Semantico, “a common framework that allows data to be shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”. Ma se Google rispetta le regole della condivisione in modo parziale, Facebook se ne frega del tutto. Facebook pretende di sostituirsi al World Wide Web. Ci impone un suo codice, e impone le regole in base alle quali ognuno deve sottostare. Impone ad ognuno il proprio framework, consapevolmente impedisce che i dati siano “shared and reused across application, enterprise, and community boundaries”. Dispiace osservare la piaggeria, la disponibilità alla sudditanza, l’atteggiamento remissivo di operatori di imprese, attori di vario tipo, società di consulenza, anche di origine universitaria, che spingono ad utilizzare Facebook, proponendolo anche in ambiti aziendali. Guarda caso sono gli stessi che spingono con tutte le loro forze sul pedale dell’iPad. Chiaro il disegno. Con l’iPad si pretende di sostituire il World Wide Web in un mondo chiuso tramite le limitazioni del browser, e quindi tramite la trasformazione di liberi accessi via Web in applicazione controllate. Con Facebook, parallelamente, secondo braccio della stessa strategia a tenaglia, si pretende di sostituire il World Wide Web con una sua versione stupida e povera. Dove il ‘cittadino digitale’ è di nuovo ridotto ad utente. Per applicazioni importanti e difficili, così, ognuno dovrà ricorre ai soliti esperti che ci dicono cosa fare, come fare, e ci fanno pagare per darci, a fronte di un nostro bisogno, un qualche aggeggio costruito in modo tale da assoggettarci al controllo. Per chi si occupa da professionista di informatica, il solito dispetto nei confronti degli strumenti che fanno venir meno la loro necessaria mediazione; il solito tentativo di rendere banale ciò che le persone possono fare da sole; il solito tentativo di ripristinare il loro controllo ed il loro necessario intervento.

 

Ribellarsi allo spazio chiuso

Varanini_76_3E così tutti noi, eccoci a giochicchiare con Facebook, sprecando così il tempo che potremmo dedicare a navigare nel vasto mare del Web; rinunciando anche a quel po’ di costruttiva fatica necessaria per mettere in piedi un proprio blog. Eccoci qui a subire l’aspettativa di coloro a cui fa comodo che ce ne stiamo buoni buoni dentro Facebook. Fa comodo che si stia lì a cazzeggiare, a mettere lì la fotina accompagnata da qualche tag, a dire cosa mi passa per la mente ora, a dire due parole sull’ultimo libro letto o il film visto. Non ci fa onore, sopratutto, limitarci a dire mi piace o non mi piace. Non siamo nati per essere follower. La Rete ci libera dall’essere gregari. Ma Facebook ci ricaccia in uno spazio chiuso, predeterminato, uniformato, livellato in basso. Il mettere le nostre piccolo cose lì dove e come Facebook ci concede di metterle, è costruire conoscenza? In parte sì. Non disprezziamo nulla. Prendiamo quello che c’è di buono anche in Facebook, d’accordo. Facebook, si dice, ha contribuito alle recenti rivoluzioni democratiche in Nord Africa. Meglio Facebook che nulla. Eppure Facebook resta la caricatura di ciò che un ‘social network’ potrebbe essere. La responsabilità, come sempre, è nostra. Di noi che anche di fronte a strumenti che ci permettono di ‘stare al centro’, preferiamo per pigrizia il ruolo di seguaci. Confrontate Facebook con Ushahidi1. Da un lato un mondo-giocattolo, dove tutti siamo ridotti alla misera apparente libertà che può avere il povero Truman Burbank chiuso nel suo universo di cartapesta, ognuno di noi ridotto a vivere in un Truman Show. Dall’altro il vero mondo abitato da uomini liberi, che si autoorganizzano per offrirsi reciprocamente, tramite reti sociali, i servizi che gli Stati e le organizzazioni pubbliche e private non sanno, o non voglio offrire. Non a caso, a guidare i due progetti, da un lato ragazzi viziati, arroganti, cresciuti nei falsi miti dell’Occidente, tesi a nient’altro che a guadagnare senza limite vile denaro. Dall’altro kenioti e ugandesi, uomini e donne che hanno studiato a costo di enormi sacrifici, che hanno toccato con mano la povertà ed i veri bisogni.

 

NOTE

  1. http://ushahidi.com/

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