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Giovani sfaticati? No, hanno solo bisogno di più speranze

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Quanto è buffo ascoltare il ricorrere, come mantra, di pareri negativi sulla natura dei giovani d’oggi che, secondo tali convinzioni, sarebbero pigri, svogliati, incapaci di accettare lavori umili, che non si saprebbero sacrificare, che mancherebbero di questo o di quello, non importa di cosa: l’importante è farne notare la totale mancanza.

In alcuni casi, questi atteggiamenti sono talmente diffusi da diventare bersaglio di barzellette. Si citano opinioni sulle nuove generazioni, giudizi che paiono assolutamente attuali, poi si svela che risalgono al 3000 a.C. o giù di lì.

Mi domando: chi sono io per sottrarmi a questo divertente gioco che consiste nel catalogare i giovani in rapporto all’avvento del web, dei social, degli acquisti online, della trasformazione digitale? Accetto la sfida, solo vagamente consapevole della mia presunzione e ignoranza –rassicurato peraltro dal non sentirmi troppo solo– e sapendo di non abitare la torre panoramica degli studi sociali, ma di vivere nello scantinato del mio lavoro quotidiano di formatore e insegnante nei corsi post diploma.

Lo faccio cercando una prospettiva che nasce dal campione che ho a disposizione, ossia dai giovani che incontro a scuola e in azienda, paragonandolo ai miei ricordi, chiedendomi: “Cos’è cambiato?”.

Il primo ricordo risale al mio ingresso nella scuola superiore. Nell’aula magna, un professore declamava le seguenti, altisonanti, parole: “In questa scuola formiamo la classe dirigente dell’Italia di domani. Volete far parte di questo futuro? Allora dovete sacrificarvi. Studiare giorno e notte. In premio riceverete il successo!”.

Sembrava il fervorino di un sergente dei Marines. Oggi i nostri giovani, se si sentissero fare un discorso così, sorriderebbero. Questa retorica probabilmente è superata, non solo perché logora, ma perché è cambiato il modo di percepire il futuro.

Il mio universo era animato da una prospettiva teleologica in cui si poteva concepire il domani come una promessa. Su quell’altare si poteva ‘sacrificare’ la ricerca del piacere, tipica dell’adolescente, a favore di un’autoaffermazione futura.

Il futuro dei giovani è incerto

Oggi, dopo le varie crisi economiche, la scomparsa delle ideologie che hanno caratterizzato il secolo scorso, il sopravvenire dei relativismi etici, il futuro può apparire ostile. I giovani che incontro ogni giorno nei miei corsi non sono ondivaghi, sono semplicemente assuefatti all’incertezza.

I tempi per un ingresso stabile nel mondo del lavoro sono lunghi, quindi la stabilità non può più essere un valore guida. Mi sembra che la capacità che stanno sviluppando sia la disponibilità al cambiamento. Sarebbe paradossale accusarli di poca fedeltà alle realtà organizzative in cui operano.

È il contesto a essere cambiato. Loro si stanno solo adattando. Un secondo ricordo richiama la mia adolescenza, trascorsa in un confronto concreto con i miei coetanei, fatta di dibattito politico, sociale, spirituale e di partecipazione attiva, in cui il mio parere era tenuto in considerazione –o così mi sembrava– e in cui avevo l’impressione di ‘contare qualcosa’.

La mia motivazione era alta perché pensavo di avere un ruolo attivo e trasformativo. Delle mie affermazioni dovevo rendere ragione e la nascita di un pensiero critico era richiesta dall’ambiente in cui ero immerso. Oggi mi sembra che gli spazi di dibattito ‘reale’ siano stati, in parte, sostituiti da spazi virtuali, in cui la convivenza e gli scambi sono regolati da logiche top down molto più forti, silenti e, paradossalmente, anonime rispetto al passato.

Gli spazi di realtà mi appaiono come il feudo degli operatori di mercato, che probabilmente sono in grado di interpretare i bisogni dei giovani meglio di me, ma con obiettivi strumentali. Quando osservo i ‘miei’ giovani, cui sono molto affezionato, che mi confrontano quotidianamente con il loro modo di essere, più che a esprimere un giudizio, mi sento interpellato rispetto al compito: come aiutarli in questa fase storica?

Forse restituendo un dono che ho ricevuto e che non può essere una mia proprietà: la speranza! Questa non consiste nel costituire la classe dirigente del futuro né nell’appartenere a una élite, ma nel diventare più se stessi, nella possibilità di avvalorare, con i loro talenti, questo nostro mondo.

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