Eu-tròpia: come rendere un’organizzazione felice e vincente

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Intervista a Rosanna Gallo, amministratrice unica di Eu-tròpia

In questo articolo parliamo di organizzazioni, di cambiamento, di leadership: temi cari alla nostra rivista. Proprio per questo propongo alla mia interlocutrice di cercare di sorprendere i nostri lettori con un’intervista coraggiosa, analizzando questi stessi argomenti ma cambiando prospettiva. Le organizzazioni sono organismi all’interno dei quali vivono persone che provano sentimenti. Sentimenti che nella maggior parte dei contesti non possono essere espressi in maniera autentica. Con quali esiti? Negativi per la crescita delle organizzazioni, se le persone non sentono la libertà di esprimere le loro idee, se non hanno il coraggio di affrontare conversazioni coraggiose che contrastano il pensiero dei capi, se hanno paura. Se l’organizzazione è un sentimento, come dice Enzo Spaltro che incrociamo nell’ufficio di Rosanna Gallo poco prima dell’inizio della nostra chiacchierata, l’organizzazione funzionerà se le persone che ne fanno parte sentono di avere il potere, l’opportunità, di incidere sull’ambiente. Se il management riesce a creare un clima di fiducia, se i leader si sentono al servizio degli altri. E sanno creare un contesto all’interno del quale le persone osano sfidarsi.

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Come rendere un’organizzazione felice? Lo abbiamo chiesto a Rosanna Gallo, amministratrice unica di Eutròpia, società di consulenza che dal 2001 opera nell’ambito delle risorse umane, sviluppando il benessere delle persone e delle organizzazioni.

L’organizzazione ideale esiste?

Esistono organizzazioni che hanno chiaro il ‘sogno’, il modello ideale, e sono più efficaci e focalizzate nel raggiungere benessere e performance; fra colleghi le chiamiamo ‘isole felici’ e cerchiamo di creare dei ‘ponti’ con altre isole felici per dimostrare che si può stare meglio e produrre meglio con la crescita simultanea delle persone e dell’organizzazione. Il bisogno di connessione è umano e organizzativo: rimanere un’isola non consente quegli scambi con l’esterno necessari a produrre contaminazioni positive per l’innovazione e il miglioramento. Se “l’organizzazione è un sentimento”, come dice Enzo Spaltro, noi facciamo in modo che sia il sentimento del ‘noi’, il sentimento del futuro e non la paura o la rassegnazione che spesso vediamo.

In che modo?

Promuovendo benessere e leadership connettive e diffuse per la costruzione di un progetto collettivo e rispondendo ai bisogni fondamentali delle persone nelle organizzazioni: bisogni di espressione e di contribuzione, di appartenenza al gruppo, all’organizzazione, di riconoscimento umano e professionale. In sintesi, competenza e calore. Con queste premesse si facilita la creazione di una comunità in cui tutti sono cittadini, partecipanti e protagonisti di un progetto condiviso e collettivo, basato su fiducia, equità e visione comune.

Come si fa a condividere la conoscenza?

Le organizzazioni non stanno ferme, ma evolvono continuamente e si muovono all’interno di contesti di riferimento più ampi. Sono sistemi che si relazionano con altri sistemi (i mercati, la società, le altre organizzazioni), adattandovisi e influenzandoli. Per questo è necessario condividere il know-how e trasferire velocemente informazioni, esperienze e competenze. Affinché il know-how individuale diventi patrimonio organizzativo c’è bisogno di leadership connettive che creino senso e valorizzino le diversità. Solo le organizzazioni all’interno delle quali si dà ascolto a tutto ciò che è diverso producono ricchezza. Ecco perché è necessario creare rete, fuori – con i clienti –, ma anche dentro l’organizzazione. Ed ecco perché la competizione interna non è mai una buona soluzione.

Spesso però le persone faticano a mostrare il proprio dissenso, a esporre idee che si contrappongono al pensiero dei capi…

È vero. E ciò accade perché le persone hanno paura del giudizio degli altri e non osano esprimere il disaccordo. Si tende a censurarsi, a dire sempre ‘sì’ per non entrare in conflitto con gli altri. Mancano, per così dire, le ‘conversazioni coraggiose’ (un modello dell’adaptive leadership), ossia non si riesce ad andare al di là di tutto ciò che è consenso. Le persone, per salvare la relazione, perdono di vista il risultato; si accordano in termini relazionali, ma non crescono e, così facendo, non cresce nemmeno l’organizzazione. Solo dopo aver esplorato il dissenso si arriva a un consenso autentico e condiviso, ma la paura del conflitto frena ancora le evoluzioni organizzative. Molte organizzazioni tendono a mantenere le persone ‘minorenni’, a deresponsabilizzarle; quando avremmo invece bisogno di più ‘adolescenti’, che guardano al futuro, che hanno il coraggio di tentare strade diverse per affermare la propria soggettività, magari col supporto di mentor.

Qual è il principale ostacolo all’espressione delle emozioni?

Le emozioni sono l’energia umana e organizzativa. Se le addormentiamo non godiamo più di niente, perché non possiamo selezionare di provare solo certe emozioni; quindi quando le controlliamo o le censuriamo le perdiamo tutte, positive e negative. Inoltre, se usiamo le nostre energie per controllare le emozioni non ne avremo abbastanza per il pensiero produttivo. Eppure le emozioni sono un patrimonio di cui disponiamo dalla nascita e un motore motivazionale eccezionale! Credo sia un problema culturale. Nelle organizzazioni, come nelle società occidentali, il predominio della razionalità sulle emozioni è tale che, anche se i manager decidono con l’istinto si preoccupano di vendere i ‘razionali’ della decisione. Non sapendo gestire le emozioni si preferisce eliminarle. Eppure si motiva e si fa crescere, si fa coaching e team building con le emozioni. Senza l’autoconsapevolezza emotiva e l’empatia, che è la consapevolezza dell’emozione dell’altro, non possiamo entrare in sintonia. Per noi psicologi le emozioni sono la principale fonte di informazioni, le otteniamo in tempo reale e non sono facilmente manipolabili.

Bisogna quindi lavorare sulle emozioni e sui conflitti…

Negli ultimi due anni la crisi ha fatto aumentare il disagio relazionale e sempre più organizzazioni hanno chiesto interventi sulla gestione del conflitto e dello stress; è una tipica richiesta di formazione emotiva. Nel conflitto c’è ancora oggi il timore di perdere la propria identità davanti agli altri, in una logica superata di mors tua vita mea. Se lo si elude, il conflitto resta latente e continua a falsificare le relazioni, non consentendone l’evoluzione e la risoluzione. Dovremmo invece ragionare in prospettiva win-win, esplicitando desideri e timori di perdita per cercare il vantaggio comune. Fra gli interventi più significativi sulle emozioni passiamo dal ‘cambiamento felice’, cioè previsto e agito o compartecipato, alle ‘conversazioni coraggiose’, che esplorano i timori di perdita alla ricerca del vantaggio comune; dal ‘team building’, che si concentra sulla dimensione emotiva del team per creare fiducia, alla ‘cultura del feedback’, per diffondere comunicazioni autentiche orientate allo sviluppo. Spesso attiviamo laboratori esperienziali sull’intelligenza emotiva che accelerano l’apprendimento. E perché ciò avvenga dobbiamo pensare a un management libero dalla paura.

Approfondiamo il tema della paura…

La paura è il più grande freno allo sviluppo umano e organizzativo e riguarda soprattutto quelle organizzazioni che, giunte a un buon livello di successo – economico e di visibilità sociale –, temono di perderlo soprattutto in questo particolare momento storico. Tali organizzazioni smettono di essere ‘imprenditive’ e si lasciano paralizzare dalla paura. Così facendo sono destinate a morire. Trovare il coraggio è necessario alla sopravvivenza, ma è anche un’esperienza di crescita impagabile. Ci sono manager che esercitano il proprio potere intenzionalmente con modalità coercitive e intimidatorie, ma producono un danno enorme all’organizzazione che, nel medio periodo, si ritrova con persone che passano dalla paura alla rabbia, anche distruttiva, o alla depressione e rassegnazione, riducendo al minimo la propria partecipazione.

Prendere il coraggio di far accadere le cose. È questo il significato del ‘potere’?

Il potere ha nell’immaginario collettivo un’accezione negativa. Nella mia esperienza personale per anni ho rifuggito l’idea di leadership, poiché ne avevo una visione deformata da esperienze negative, di leadership autoritarie e paternalistiche con un uso strumentale e manipolatorio del potere. Poi ho scoperto che esiste un potere buono, positivo: è il potere come possibilità, il potere che abilita gli altri a sviluppare le proprie potenzialità.

Quindi leadership non significa comando e controllo, ma capacità di saper sviluppare il talento altrui e di intravedere le potenzialità dei propri collaboratori…

Sì, comando e controllo non sono più efficaci e nemmeno sufficienti per le organizzazioni di oggi; ci accorgiamo di questa distinzione soprattutto nel momento in cui seguiamo i passaggi manageriali. Spesso, i leader carismatici e paternalistici faticano ad abbandonare il loro ruolo in quanto sono ben consapevoli del fatto che si lascerebbero alle spalle una prima linea non preparata ad assumersi responsabilità e carichi di lavoro. Questo perché durante la loro permanenza in azienda non sono stati in grado di delegare e di sviluppare i talenti dei collaboratori. Non hanno, insomma, dato agli altri il potere di crescere e di imparare a gestire, a loro volta, l’organizzazione. In questo modo, venendo a mancare il leader, l’organizzazione crolla. E allora bisogna iniziare un percorso di apprendimento organizzativo per ridare responsabilità e libertà di azione alle persone.

Se una leadership troppo paternalistica non funziona… allora quale leadership?

Le leadership dovrebbero essere ‘di servizio’ all’organizzazione, per cui i leader dovrebbero operare come facilitatori di visione, di condivisione della conoscenza, coach e valorizzatori delle persone portatrici di competenze diverse. Se pensiamo alla logica del servizio, ne servono tante; credo che la leadership al femminile vada valorizzata perché più partecipativa. Le donne non hanno paura della collaborazione degli altri perché non vivono il chiedere aiuto come un atto di debolezza o di incapacità. Interrogarsi sull’opinione altrui significa riconoscere di essere una parte dell’organizzazione; una parte che ha bisogno del confronto costante con gli altri ‘cittadini organizzativi’, rappresentati da tutte le età, i generi e le culture.

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Spesso quando si parla di leadership al femminile si fa il paragone con la genitorialità. È d’accordo?

Esistono organizzazioni che a mio avviso sono troppo ‘materne’, e rischiano di creare dei ‘mammoni’; altre, troppo paterne, che rischiano di crescere ‘soldatini’. Per noi è importante lavorare con tutti i codici affettivi: valorizzare, sicuramente, i talenti e avere cura delle persone – del loro benessere (codice materno), come precondizione affinché possano esprimersi –, ma anche misurarsi con l’esterno mediante costanti test di realtà e monitoraggio dei risultati (codice paterno). Non fossilizzarsi dunque troppo all’interno delle organizzazioni perché si rischia di diventare a-storici e di disconnettersi dal mondo. Per sfuggire al rischio genitorialità, quello che ci vuole è un giusto mix che favorisca una cultura fraterna – dei pari –, dove si fanno circolare tante soggettività e vi sono spazi di protagonismo per tutti.

In un clima così si abbassa anche la paura…

Sì e si ritrova la gioia di rischiare e di sfidarsi, ovviamente su obiettivi che non siano né banali né impossibili. È solo nella sfida che le persone crescono. E crescono se si permette loro anche di sbagliare, apprendendo dall’errore. Abbiamo creato, a questo proposito, l’espressione ‘cambiamento felice’ poiché siamo convinti che il cambiamento possa essere agito e cavalcato, e non subito passivamente, in una logica evolutiva. Normalmente il cambiamento premia. Ossia solo tentando, sperimentando, si hanno davvero possibilità di successo.

Ed è importante anche la volontà di non arrendersi, di trovare una motivazione personale.

Questo è proprio ciò che contraddistingue le persone di Eu-tròpia. Noi vogliamo essere i migliori e per farlo studiamo tantissimo e con passione, ci confrontiamo e sperimentiamo continuamente, pur nell’ambito di modelli scientifici di riferimento. Ognuno è motivato dalla consapevolezza di essere utile ai colleghi e ai clienti che supportiamo nel cambiamento felice. Importante è anche essere generosi nel trasferire agli altri le competenze ed esperienze, condividere valori, progetti e sogni, personali e professionali.

Sappiamo che all’interno della organizzazione, oltre ai fattori del benessere, esistono anche i cosiddetti fattori del malessere. Da dove si può partire per evitare che il malessere abbia la meglio?

A noi piace ‘lavorare positivo’, per questo preferiamo intervenire sui 5 fattori del benessere (Espressione, Relazione, Potere, Energia, Futuro), anche in funzione preventiva. Il malessere e lo stress possono raggiungere livelli così alti da rendere le persone meno lucide ed equilibrate, tanto da incidere sulla loro produttività e salute. Possiamo partire dall’ascolto e da un’analisi dettagliata dell’azienda con interviste e focus group per ricercare indicatori comportamentali di malessere e benessere (Eu-tròpia ha raccolto numerosi cluster), tipici di quel contesto organizzativo. Poi si ricercano le strategie di coping (fronteggiamento del malessere) e di promozione del benessere, infine si condividono i dati raccolti per creare task force con le persone per progettare e implementare azioni di miglioramento. Si ottiene così un benessere a costo zero poiché la maggior parte delle iniziative non richiede un investimento economico bensì relazionale.

Questa forse è allora la parte più difficile…

No, è la parte che riattiva la motivazione e l’energia delle persone quando si sentono ascoltate. Sono processi culturali che richiedono un po’ di mesi, ma i risultati sono poi di lungo periodo e visibili a tutti. Ovviamente l’organizzazione deve avere il coraggio di interrogarsi e di mettersi in discussione, oltre a impegnarsi sui piani di miglioramento. Noi lavoriamo sul ‘pensiero positivo’ e prepariamo le persone a essere resilienti, mostrando loro che il cambiamento, se autodeterminato, è felice. Anziché soffermarsi su ciò che non va, insegniamo loro a considerare ciò che funziona e ciò che si può far funzionare. La parola magica in questo processo è ‘fiducia’.

Fiducia, dunque cultura del feedback?

Non dare feedback è un messaggio molto negativo. Meglio dare un feedback negativo piuttosto che evitarlo. Le persone soffrono l’indifferenza dei responsabili, non sentirsi considerati o interpellati è una frustrazione. Il feedback genera un percorso virtuoso di positività: un cambio, o un leggero aggiustamento alla rotta, incideranno positivamente sul lavoro e sull’organizzazione migliorandola.

Qual è la competenza indispensabile per far fronte ai cambiamenti?

La flessibilità, o meglio, ‘l’adattamento intelligente’, come lo intendeva Piaget. Non si tratta di un adattamento passivo dell’uomo all’ambiente, ma avviene dopo che la persona ha compreso il contesto in cui si trova, ha imparato a relazionarvisi con i giusti strumenti e lo va a modificare. Dunque ‘diagnostico, apprendo e intervengo’.

Quali sono gli ostacoli più grandi al cambiamento felice?

L’aspetto più difficile da gestire è guardare al futuro e non più al passato che ci incatena a rivendicazioni sterili o ci fornisce alibi per non agire. Il passato non torna, ci serve averne consapevolezza, ma soffermarsi troppo ci rallenta dal punto di vista evolutivo. Una volta elaborate le esperienze passate siamo pronti ad affrontarne di nuove. La paura del futuro ci frena, ma la speranza di un futuro migliore ci spinge in avanti. Vince chi ha coraggio.

Le organizzazioni si lasciano aiutare?

Ci sono organizzazioni con leader più sensibili ai temi della gestione del potere e delle emozioni e altre in cui le persone oppongono resistenza al cambiamento felice. Nella maggioranza dei casi si tratta di multinazionali che ricevono dalla propria casa madre gli input a prendere in considerazione il benessere delle persone. Poi ci sono i cosiddetti ‘leader disperati’, quelli che le hanno provate tutte e, giunti all’ultima spiaggia, benché non si fidino del metodo, della psicologia e non credano nell’importanza di prestare attenzione all’emotività che circola nelle organizzazioni, decidono di affidarsi a noi.

Può farci un esempio?

Mi ricordo due casi molto simili degli ultimi due anni. Il General Manager, leader carismatico, visionario, molto capace e amato dai dipendenti, un punto di riferimento nonché artefice di un grande successo per l’organizzazione. Nel momento in cui ha avuto l’esigenza di uscire dall’azienda, si è accorto che non poteva andarsene e che da artefice del successo aziendale rischiava di diventare un fattore di disfatta. Essendo una persona molto concreta e scettica, la più grossa difficoltà è stata quella di costruire con lui un rapporto di fiducia. Come? Dandogli prove tangibili del successo del nostro metodo. Altra difficoltà era costituita da una prima linea che, senza di lui, si sentiva incapace ma, con lui, non riusciva a crescere.

In cosa si è concretizzato l’intervento di Eu-tròpia?

Il lavoro che noi di Eu-tròpia abbiamo svolto ha interessato più livelli: il leader in uscita, il nuovo leader e il team. Siamo intervenuti con il leader uscente, supportandolo nel progetto di riduzione delle responsabilità e assunzione del ruolo di mentor per il nuovo leader, oltre alla progettazione di nuove attività, relative al futuro, fuori dall’azienda. Abbiamo facilitato l’inserimento del nuovo leader con un coaching per la sua legittimazione nel ruolo e per la gestione del team. Contemporaneamente abbiamo lavorato col team, in un percorso di rafforzamento perché acquistasse fiducia in se stesso e superasse la modalità di lavoro competitiva esercitata fino a quel momento; si è trattato di un team building emotivo per ritrovare la fiducia e l’energia di base.

Per concludere, quale consiglio darebbe a un leader affinché si comporti da ‘buon’ leader?

Gli/le direi di equilibrare il tempo del lavoro con il tempo della vita fuori l’organizzazione; di curare gli affetti, le passioni, gli spazi di socialità e per l’apprendimento personale; di ascoltare e di farsi portavoce di colleghi e clienti; di favorire il pensiero divergente e la crescita di persone equilibrate e… senza paura.

 

www.eu-tropia.it

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