Dirigere o seguire una direzione?

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Editoriale – di Francesco Varanini –

Gennaio FebbraioUn amico mi dice: ‘Noi manager ci stiamo muovendo come piloti d’aereo che, in condizioni di difficoltà, decidono immediatamente di cercare un atterraggio di emergenza. La picchiata sembra inevitabile, e il massimo possibile sembra limitare i danni. Nessuno prova nemmeno a cabrare. Nessuno pensa che potremmo cercare un colpo d’ala”.
Non so se è giusto dire ‘nessuno’, ma certo è che prevalgono pessimismo e conformismo. Si preferisce considerare inevitabile il trend. Si preferisce adeguarsi alla situazione. Si disinveste, si taglia, si esternalizza, si riduce, licenzia. Si può far questo con onestà: appunto, limitando i danni.
Ma siamo sicuri di non poter fare di più? Si teme, in cuor nostro, di non riuscirci. Ma siamo sicuri che non sia possibile? Certo, il contesto è difficile e rischioso, ma non per nulla apparteniamo alla classe dirigente. Siamo chiamati a dirigere, non a seguire una direzione. Certo, esistono indirizzi e vincoli. Esiste una gerarchia ed esiste in ogni caso un quadro più vasto, nel quale siamo inseriti, e del quale dobbiamo tener conto. Esisterà sempre una strategia da altri definita, che limita il nostro campo d’azione, e che ci propone, o impone, indirizzi. Esisterà sempre qualcuno che detta l’agenda.
Ma anche in un quadro organizzativo dato, il dirigente l’agenda può e deve dettarsela da solo.
Esistono in ogni caso margini di autonomia, spazi che possiamo occupare. Li stiamo occupando? Questo è vero in ogni caso. Ed è particolarmente vero nell’attuale situazione di diffusa difficoltà, confusione. In queste condizioni gli spazi d’azione si ampliano. Siamo in ogni caso responsabili di quello che succede. Il nostro senso di responsabilità dovrebbe spingerci, può spingerci, a credere che potremmo proprio noi avere il colpo d’ala, potremmo, almeno per quello che ci è possibile, tentare la cabrata. Certo. La motivazione fa difetto. Se avessimo qualcuno che ci motiva, se intorno a noi vedessimo segni che ci rendono meno faticoso progettare e sperare e rischiare… Ma questo manca. Eppure, dobbiamo dire che sì, la motivazione può nascere dal contesto, o da adeguate politiche aziendali, dalla guida attenta e partecipe dei vertici aziendali. Ma può nascere anche dalla nostra personale storia di vita, dalla nostra capacità di trovare stimoli. Anche in questa situazione posso ancora pensare che proprio io, mosso dalla mia etica, mosso dal mio senso personale di dignità, dal mio interesse per il presente e il futuro dell’impresa, mosso dall’interesse per gli altri –le persone che lavorano insieme a me, alle mie dipendenze o in altri luoghi dell’azienda–, mosso dal rispetto per i clienti, per i fornitori proprio io posso compiere qualche atto che è un punto di svolta, che è la sottile differenza che intercorre tra la cabrata e la picchiata. Il modo più evidente di ‘seguire l’onda’, sta oggi nel considerare inevitabile prendere in ogni caso per buone le aspettative che il mercato finanziario vanta nei confronti delle aziende. Remunerare chi investe nell’impresa è un dovere e una necessità. Ma anche qui al posto di un atterraggio di fortuna dove pure si siano limitati i danni, un colpo d’ala, una cabrata, forse è possibile. Ogni manager sa che una azienda non è sana perché genera profitto. Una azienda è sana quando remunera tutti i portatori di interessi, ivi compresa la proprietà e gli investitori. Accettare che proprietà e investitori impongano all’impresa una estrazione del valore data a priori, indipendentemente dall’andamento degli affari e del mercato, significa danneggiare l’azienda, compromettendone il futuro, fino a distruggerla. Tipico modo di muoversi del manager orientato a ‘limitare i danni’ è accettare il prelievo deciso a prescindere dall’andamento degli affari. Certo, a valle del prelievo, il manager si impegna magari a fare del proprio meglio. Ma un buon manager fa qualcosa di più. Un buon manager insiste nel mostrare i vantaggi dell’innovazione e dell’investire delle persone. Un buon manager propone alternative agli appetiti di chi, senza conoscerla e senza rispettarla, guarda l’azienda dall’esterno. Un buon manager scrive da sé la propria agenda, e si impegna nell’imporla ad ogni altro attore, nell’interesse di tutti. Un buon manager non sta lì per fare quello che desidera di chi lo paga. Non sta lì per limitare i danni. Sta lì per fare l’interesse dell’azienda nel suo complesso. Sta lì per cercare e trovare un punto di incontro tra i punti di vista dei diversi portatori di interessi, ivi compresi dipendenti, clienti, fornitori, comunità locale. Sta lì non per contribuire all’estrazione di valore, ma per creare valore. 

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