
Non c’è bisogno di un decreto per (ri)dare dignità al lavoro
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Il decreto Dignità del Governo Movimento 5 Stelle-Lega è legge. Il 31 ottobre 2018 è la data di entrata in vigore della nuova normativa sul lavoro, che sostituisce il Jobs Act e –anche dopo la sua approvazione in Parlamento– continua a sollevare numerose polemiche.
A far discutere sono alcuni provvedimenti che, secondo i critici, avrebbero il demerito di irrigidire il mercato del lavoro e non creerebbero realmente occupazione stabile, contrariamente agli obiettivi dell’esecutivo, che puntava a combattere la precarietà con questo decreto.
Tali modifiche riguardano in particolare la reintroduzione delle causali per i rinnovi contrattuali e la quasi totale equiparazione della somministrazione ai contratti a termine, un tema che coinvolge direttamente le Agenzie per il lavoro (APL).
Dalla discussione, che in questo periodo si è concentrata sugli aspetti tecnici della nuova legge, sorge un’altra domanda più generale: c’era bisogno di un decreto per dare dignità al lavoro?
Per chi considera insufficiente o sbagliata l’azione del Governo, rendere dignitoso il lavoro è infatti qualcosa che va ben oltre un decreto che introduce limiti e sanzioni, seppur con la nobile intenzione di aumentare l’occupazione stabile nel nostro Paese.
Il mondo del lavoro sta cambiando velocemente e, parallelamente, cambiano le competenze necessarie ad affrontare le nuove sfide: non è più il posto fisso a fare la differenza, ma altri fattori come le tutele, la formazione dei lavoratori e anche il welfare, oltre al rispetto delle regole da parte degli imprenditori.
Pietro Ichino, Giurista, ex Senatore e socio dello Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati, ha sottolineato un aumento del tasso di complessità e rigidità della nuova normativa rispetto a quella precedente. In particolare, la reintroduzione della causale nei rinnovi dei contratti a termine “crea incertezza circa l’esito dell’eventuale giudizio, producendo così un aumento del contenzioso”.
L’obbligo della causale (che deve avere esigenze estranee all’attività ordinaria e non programmabili) si applica anche alle assunzioni a termine da parte delle agenzie, quando il lavoro presso l’azienda utilizzatrice supera i 12 mesi. Per Ichino, l’equiparazione tra somministrazione e contratti a termine “ignora da un lato che l’agenzia coniuga l’esigenza di flessibilità dell’utilizzatore con quella di continuità del lavoratore, dall’altro che il lavoro somministrato costa più di quello dipendente”.
Per far luce su questi temi, abbiamo cercato di capire il punto di vista di Assolavoro (l’Associazione delle agenzie per il lavoro), di alcune APL e di altri addetti ai lavori.
Per proseguire nella lettura dell’articolo, leggi il numero di ottobre di Persone&Conoscenze.
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