Dalla teoria dei bisogni allo scambio sociale. Mutare pelle con il welfare aziendale

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di Valentina Casali

Estensione della sanità integrativa al 100% dei lavoratori e ai loro familiari, attraverso l’adesione al fondo di previdenza complementare con incremento del contributo a carico delle aziende, piani di flexible benefit e diritto soggettivo alla formazione continua per tutti: sono questi i capitoli contenuti nel Contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici siglato a fine novembre 2016 dopo quasi un anno di trattativa. Al centro, per la prima volta, il welfare aziendale.
A ciò si aggiunge il recente accordo tra Unione Industriale di Torino e sindacati per l’erogazione a tutti i lavoratori di Fiat Chrysler e Cnh Industrial – oltre 80mila – del premio aziendale in welfare, con una somma che si aggira fra i 700 e gli 800 euro pro capite.
Stupiti? A giudicare dagli incentivi che il Governo ha dato nell’ultimo anno a queste iniziative e in conseguenza dell’atteggiamento di favore mostrato dal mondo sindacale, tali episodi costituiscono un esito naturale di un percorso iniziato tanto tempo fa, allo scopo di definire un nuovo modello di welfare state che integri le risorse del pubblico con quelle provenienti dal mondo privato.
Come non stupiscono l’accordo in Fca e il nuovo Ccnl metalmeccanico, allo stesso modo non sorprende l’aumento della platea di aziende che decidono di usufruire del vantaggio fiscale per rispondere alle esigenze dei loro dipendenti, con l’obiettivo di dare una sferzata positiva alla produttività. Eppure rimangono da cogliere alcuni impatti del welfare aziendale che consentirebbero di sfruttarne appieno le potenzialità. Al di là del mero beneficio fiscale, infatti, il welfare può essere un mezzo efficace per ripensare il contratto psicologico azienda-lavoratori nonché una leva di total reward che vada a premiare il merito e a sostenere la crescita, dei singoli e delle organizzazioni. In questa logica, le iniziative sporadiche messe in atto nel passato non sono più sufficienti. Fatto tesoro di ciò che offre la legge, a essere necessarie sono oggi misure strutturali che coinvolgano l’organizzazione a partire dal ripensamento di tutte le pratiche di gestione delle persone.
Alla luce di questi aspetti, che rimangono tuttora ignoti a buona parte delle imprese, la redazione di Sviluppo&Organizzazione ha organizzato a Padova, il 30 novembre, una tavola rotonda con alcune aziende del territorio per capire come si stanno muovendo e quali criticità riscontrano.

 

Se il welfare non è una moda, allora che cos’è
A porsi la domanda e a dare una risposta è la professoressa Gianecchini dell’Università di Padova che introduce la discussione: “Con welfare aziendale si intendono l’insieme dei benefit e dei servizi, forniti dall’azienda ai propri collaboratori al fine di migliorarne vita privata e lavorativa, che vanno dal sostegno al reddito familiare allo studio, dalla genitorialità alla tutela della salute, fino a proposte per il tempo libero e agevolazioni di carattere commerciale”.
Considerata la multiformità delle opere che rientrano nel concetto di welfare, pare evidente che siano parecchi e differenti anche i fattori che portano un’impresa a sviluppare questo tipo di policy.
Stando ai dati di due recenti ricerche in materia – Creare valore con gli Employee Benefit condotta da SWG e Welfare Index Pmi di Generali Italia –, tra le finalità che le aziende perseguono maggiormente con il welfare aziendale si colloca al primo posto “l’aumento del senso di appartenenza dei dipendenti”; al secondo “il miglioramento della brand reputation in termini di attraction e retention del talento”; al terzo “il ritorno economico”, da leggersi come risparmio fiscale e contributivo.
Più in generale ancora, le aziende ‘fanno’ welfare per due ordini di motivi che incidono fortemente sulle modalità di sviluppo delle iniziative. “Un primo motivo ha a che fare con la teoria dei bisogni di Maslow: il dipendente ha un bisogno, l’azienda se ne fa carico. Se lo vediamo in questo modo il welfare privato ha un respiro piuttosto breve e non persegue lo scopo della crescita: il dipendente, assuefatto al soddisfacimento dei propri bisogni, chiederà sempre di più e tenderà a dare per scontato quel ‘premio’ considerandolo, in fin dei conti, un ‘regalo’. La seconda motivazione ha, invece, a che vedere con la teoria dello scambio sociale o, meglio, con il concetto di reciprocità: l’azienda dà, il dipendente restituisce. In questo caso, è fondamentale, per ottenere buon esito, il fattore fiducia, che costringe a ripensare il famoso contratto psicologico azienda-lavoratore, andando a incidere sull’organizzazione a livelli più profondi, richiedendo maggiori risorse di tempo ed energie – per esempio nella ridefinizione dei sistemi di total reward –, ma portando anche migliori risultati di lungo periodo”.
Quella appena accennata è la classica distinzione tra il welfare aziendale di tipo tradizionale, o paternalistico, e il welfare moderno, che si inserisce in un contesto caratterizzato da un cambiamento della forza lavoro e da nuove modalità di restituire la prestazione lavorativa, sempre più flessibili e smart. 

Per leggere l’articolo completo (totale battute: 16000 circa) – acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419)

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