Il circolo virtuoso della digitalizzazione. Aziende smart e nuovi posti di lavoro

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Intervista a Cetti Galante, Amministratore Delegato di Intoo
di Dario Colombo

La tecnologia, contrariamente a quanto dicono gli scettici, è in grado di creare un circolo virtuoso per l’azienda e le persone dell’organizzazione: sarebbe riduttivo fermarsi a osservare che sempre più il lavoro dell’uomo sarà sostituito dalle macchine. In quest’epoca di digital transformation, infatti, le persone restano al centro, ma per non essere escluse dalla trasformazione in atto e per cavalcare il cambiamento devono curare costantemente le loro competenze. Solo così la tecnologia può diventare un alleato anche per le aziende, destinate a essere flessibili per competere a livello globale. Ecco allora che in futuro avremo imprese snelle che si rivolgeranno a liberi professionisti per vari servizi: un modello in cui rischi e benefici non sono più ad appannaggio esclusivo delle aziende, ma sono condivisi con i singoli individui in un sistema allargato.

Era la fine del XVIII secolo e in Inghilterra un certo Ned Ludd distrusse un telaio della fabbrica in cui lavorava. Nacque così il luddismo, il movimento di protesta contro lo sviluppo industriale, la meccanicizzazione del lavoro e i nuovi metodi di produzione. All’epoca, infatti, i seguaci di Ludd –la cui identità non è mai stata realmente accertata– consideravano le macchine come la causa della disoccupazione e dell’abbassamento dei salari: per questo si sfogavano distruggendole. Non che oggi, in tempi in cui la digital transformation ha investito aziende e dipendenti, ci sia chi segue le orme di Ned Ludd, però, è innegabile che esista una resistenza al cambiamento. Da parte di imprese e persone. Eppure la tecnologia (e la macchina) non deve essere vista solo come strumento in grado di offrire un’alternativa più economica e redditizia del lavoro dell’uomo: la digitalizzazione è quel fattore che consente all’organizzazione di restare competitiva.

“Si tende a enfatizzare gli aspetti negativi della tecnologia e a non considerare quelli positivi”, afferma Cetti Galante, Amministratore Delegato di Intoo e Board Director del network globale Career Star Group. “In questa epoca di stagnazione l’introduzione di tecnologia e la digitalizzazione è un’opportunità, perché permette di ridefinire il modello di business dell’azienda contenendo i costi e reinvestendo le risorse in sviluppo e nuovi prodotti, creando dunque posti di lavoro”. Quindi qual è il problema? Convincere le aziende a non restare immobili. E soprattutto stimolare le persone a continuare a sviluppare le proprie competenze, perché nel futuro le imprese saranno sempre più snelle e alla costante ricerca di liberi professionisti in grado di offrire loro i servizi più all’avanguardia. Come diceva Steve Jobs (e prima di lui The Whole Earth Catalog, che lo stesso fondatore di Apple aveva definito “il progenitore di Google”), “Stay hungry, stay foolish”.

Come cambia il lavoro con la digitalizzazione?
Spesso l’impatto della tecnologia è considerato in modo negativo: si presume che con l’introduzione delle macchine, il lavoro dell’uomo sia destinato a scomparire. Proviamo a puntare l’attenzione sull’esatto opposto: consideriamo che la digitalizzazione crea più che distruggere, costringe a rivedere flussi interni, modi di fare le cose, apre a nuove opportunità. Conduce appunto a ripensare al business model e all’organizzazione dei reparti, alle modalità organizzative del lavoro e del posto di lavoro: tutto diventa più flessibile e più dinamico. Digitalizzazione vuol dire anche condivisione e condivisione porta coinvolgimento, impatto positivo sull’ambiente di lavoro. Si innesca dunque un circolo virtuoso.

Qual è secondo lei l’impatto della digitalizzazione a livello aziendale?
La prima domanda che deve porsi chi guida un’azienda è: “Come posso cambiare i processi dell’organizzazione?”. E poi: “Come immagino possa diventare la mia azienda tra cinque anni?”. La tecnologia è in grado di rendere competitiva l’impresa, ma serve un progetto che guardi al futuro. Ecco perché è necessario rileggere il business model e dare un nuovo volto all’azienda. Chi si trova nella posizione di gestire un’organizzazione, infatti, deve sempre pensare a come cambierà lo scenario e a ciò che può succedere. L’immobilità, sia chiaro, frena la competitività.

Quali sono gli ostacoli alla digitalizzazione?
Da una parte c’è una forte paura del cambiamento che prevede la difesa dell’individuo della sua comfort zone: dunque serve prima di tutto un cambio di mindset da parte del singolo; dall’altra parte esiste anche una lettura riduttiva che si focalizza solo su ciò che sparisce e non sulle potenzialità che emergono. Inpratica si pensa solo alle professionalità che cambiano o che vengono a mancare, smarrendo il focus sulle vere potenzialità della digitalizzazione che può creare molti più posti di lavoro di quelli che distrugge. La sfida ovviamente è sapersi reinventare, interpretare il cambiamento, essere sempre proattivi nel colmare i propri gap e intercettarli precocemente.

Serve allora comunicare nel modo corretto questo passaggio?
Oggi l’impresa è inserita in un’arena di competizione globale ed è necessario comprendere che il successo aziendale si riflette sull’individuo. Sono finiti i tempi dove azienda e lavoratore erano su due fronti contrapposti. Infatti se un’organizzazione diventa più competitiva ne possono beneficiare tutti i lavoratori. Se, al contrario, non si adegua e non coglie le sfide, rischia di fallire: il destino delle persone è sempre più legato al successo dell’azienda. Si considerino le aziende che possiedono un vecchio modello di gestione familiare, così diffuso in Italia: sono destinate a sparire nel medio termine se non iniziano a esportare, a commercializzare anche via web e se non allargano il loro orizzonte.

Quindi qual è la soluzione?
Bisogna investire inevitabilmente anche in nuove tecnologie e rivedere costantemente il business model dell’azienda. Certo, si tratta di un cambiamento che impatta non solo sui processi, ma soprattutto sulle persone che compongono l’organizzazione.

Ecco, parliamo di persone.
In tempi di smart factory e Industry 4.0, la digitalizzazione porta con sé alcuni fenomeni collaterali che rendono il mercato più liquido e diretto verso i servizi. Questo comporta anche il superamento dei vecchi concetti di lavoro ‘a vita’: il modello che emerge è molto fluido, in un sistema dove accanto ai lavoratori dipendenti c’è una rete allargata di liberi professionisti che offrono servizi leggeri e flessibili alle aziende. E le aziende dal canto loro hanno una vita media più breve, dunque le persone sempre di più dovranno abituarsi a cambiare lavoro. Ma per farlo devono mantenersi competitive, aggiornate, devono curare la propria employability e devono essere curiose.

Quindi l’azienda si trasforma?
L’azienda diventa un sistema attrattivo di competenze esterne di tutte quelle attività che non ha più convenienza a sviluppare in autonomia al suo interno: da qui ne deriva la scelta dell’outsourcing anche per interi rami d’azienda, il ricorso a consulenti, a start up che offrono servizi innovativi, piattaforme web sempre aggiornate. È un nuovo modello dove la crescita è condivisa ed è responsabilità di tutti, senza confine tra azienda e lavoratore. È anche un modello di benefici diffusi. In pratica è un processo più democratico, perché l’impresa è in grado di produrre benessere per chi fa parte della sua galassia, dove non ci sono solo i suoi dipendenti.

Il tema della ‘distruzione’ di certo è più semplice da leggere…
Certo. Focalizzarsi solo su ciò che muore è più facile perché oggi sotto i nostri occhi, mentre leggere quello che sta nascendo e nascerà è più difficile perché richiede anche capacità prospettica. Molti temono la scomparsa del loro ruolo, ed è innegabile che accada, ma ci sono numerose professioni che non sono coinvolte e che rimarranno; altre semplicemente evolveranno. È un processo assolutamente normale: tante professioni scompaiono, ma sono moltissime quelle che nascono.

Come supportare le persone ad affrontare questo cambiamento?
Le persone, come le aziende, devono capire che c’è un cambiamento in atto: l’ambiente intorno a noi sta accelerando in modo fortissimo ed è normale che il singolo individuo non regga questa velocità, ma non ci si deve arroccare in chiusura. La chiave è rimanere aperti, sapere che si deve evolvere costantemente. Come? Prevenendo. Facendo continuamente una autodiagnosi di se stessi, del proprio atteggiamento verso le piccole e grandi novità di ogni giorno, della disponibilità al cambiamento. Le aziende devono supportare le persone in questo processo, mappando le competenze hard e soft chiave, focalizzando l’attenzione sulla nascita dei gap e offrendo strumenti di sostegno per chiuderli, specialmente sui ruoli strategici. Prevenire significa non far decadere la curva delle competenze, che oggi decade molto più velocemente, ed è questa poi la causa di tanta perdita del posto di lavoro.

Digitalizzazione significa anche maturare nuove competenze.
È impensabile che le persone restino ferme in attesa che sia l’azienda ‘mamma’ a curare la loro formazione: oggi tutti devono prendersi cura della propria employability con empowerment, proattività e responsabilità. Bisogna porsi domande rispetto all’ambiente circostante e capire come il mondo sta evolvendo; serve essere curiosi per adattarsi. Nessuno è escluso dal cambiamento che è trasversale. La cura dell’employability oggi è un tema chiave: tenersi spendibili sul mercato deve essere la priorità delle persone, mantenere aggiornate le proprie risorse e intervenire precocemente sui gap finché sono piccoli deve essere una priorità per le aziende.

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