Benessere, Welfare

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Dietro le parole – di Francesco Varanini –

Nell’Editoriale mi pongo una domanda: compete o no al manager preoccuparsi del benessere dei lavoratori?
E poi, questo numero, come avrete visto, contiene una parte speciale dedicata al benessere – osservato da un altro punto di vista. Nello stile di questa rubrica, guardiamo alle parole che definiscono il concetto.
Il bello sembra avere spazio nel mondo dell’impresa solo se riferito al design dei prodotti, o in rari casi all’architettura dei luoghi. Lo star bene, alla luce del taylorismo e del fordismo, è ridotto a ergonomia, studio delle posizioni del corpo più consone alla produttività. L’idea di bene comune è subordinata al primato del profitto. La complessiva idea del bene appare solo nel concetto di benessere, welfare. Possiamo pensare a buon prodotto o buon processo.
Ma l’utilitarismo, l’orientamento alla soddisfazione dei bisogni, ci appaiono in contrasto con la bontà. Eppure non si può pensare all’agire e al produrre, al lavorare senza tener conto del bello, del bene e del buono. Che –come ci mostra il latino– risalgono a una stessa, basilare idea. Bello: ‘carino’, diminutivo di buono. Bene: ‘in modo buono’. Buono: secondo l’etimo: ‘fornito di doni o virtù’.
Guardiamo ora all’inglese. Dalla stessa radice wel- wol-, il latino volgare volere, e in inglese will ‘to wish, desire, want’, e well, ‘in a satisfactory manner’. Di qui l’antico inglese wel faran. Faran: ‘progredire’, ‘andare avanti’, ‘viaggiare’. Ne resta traccia in wayfarer, ‘viandante’, seafarer, ‘marinaio’. E in fare: il verbo per ‘viaggiare’, e ‘vitto del viaggiatore’, ‘payment for passage’.Un’idea di spedizione, compagni di viaggio, bagaglio, provvista di cibo. Wel faran, welfare è dunque in origine il ‘buon viaggio’. All’inizio del Ventesimo Secolo, in Gran Bretagna, nel clima di quel peculiare approccio al socialismo cooperativista che fu la Fabian Society, si inizia a parlare di welfare nel senso di social concern, preoccupazione, assistenza, attenzione rivolta al benessere dei lavoratori: “welfare of workers children”. Welfare manager, ‘a preson engaged in looking after the welfare of people working in factories’.
Poi la crisi degli anni ’30, con la disoccupazione, porta il welfare fuori dai luoghi di produzione. All’inizio del 1939, Anthony Eden, uomo politico tra i primi a comprendere le conseguenze della guerra, afferma in Parlamento la necessità di “revolutionary changes in the economic and social life of the country”. Si afferma così l’idea di Welfare State. A coniare il termine è stato forse Alfred Zimmern, storico e political scientist. A scriverne per primo fu però William Temple, predicatore e insegnante, vescovo. “We have seen that in place of the conception of the Power State we are led to that of the Welfare-State” (Citizen and Churchman, 1941).
Il Welfare appare così come l’insieme dei servizi che la società, attraverso lo Stato, è tenuta a fornire ad anziani, poveri, malati, disabili, inabili al lavoro, disoccupati. Previdenza, sanità, istruzione, edilizia popolare, programmi di lavori pubblici. C’è certamente un legame tra questo e le politiche economiche sostenute da John Maynard Keynes – piena occupazione, aumento della spesa pubblica, sostegno della domanda. Ma il Welfare britannico deve molto di più alle proposte di William Henry Beveridge, il cui rapporto Social Insurance and Allied Services del 1942 rappresenta un punto di svolta, e l’origine del laburismo. In quello stesso dopoguerra, Welfare State si afferma come termine più adatto a definire, a ritroso, le politiche adottate in paesi diversi per far fronte alla crisi degli anni ’30. Caso esemplare, il New Deal di Roosevelt.

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