Un anno con la riforma del Lavoro Bilanci e interrogativi sul Jobs Act

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di Alessandro Paone

Nella primavera del 2015 nasceva il Jobs Act, una delle più profonde rivisitazioni del nostro sistema di diritto del lavoro. A un anno di distanza, è tempo di analizzare gli aspetti positivi e quelli negativi legati alla riforma. Che offre costi certi e conseguenze prevedibili del licenziamento, oltre a concedere al datore di lavoro di mutare le mansioni del proprio dipendente con maggiore semplicità rispetto al passato e addirittura di demansionarlo. Ma tace sulle relazioni industriali.

In un Paese asfissiato da un costo del lavoro indiscutibilmente troppo elevato, si è proiettati verso la ricerca di strumenti innovativi in grado di consentire, sul piano sia giuridico sia gestionale, il definitivo superamento di una crisi economica che negli anni ha ridisegnato gli assetti produttivi, costringendo il mercato del lavoro a recepire in breve tempo mutamenti forse troppo a lungo attesi.
Ma ciò è avvenuto sotto la spinta di una legislazione emergenziale, a opera di un legislatore che si è visto costretto (o ha voluto giocare il ruolo di glorioso protagonista) a stressare di forza il sistema normativo riformando le precedenti riforme, più anziane di appena pochi mesi, avendo forse preso atto di un dato di contesto sintomatico dello stato di salute del ‘sistema Paese’: da un lato, del mondo dell’impresa teso a recuperare redditività e competitività mediante lo smantellamento del vecchio impianto giuslavoristico basato su regole rigide, ma al tempo stesso incerte e ‘ostaggio’ di una magistratura costretta a supplire le mancanze legislative di anni (così come delle lentezze e dei deludenti compromessi); dall’altro, il sindacato in crisi di rappresentanza e preso dal mantenimento dello status quo finalizzato a evitare ulteriori erosioni dei diritti dei lavoratori e l’impoverimento della categoria.
Per far fronte a questi e ad altri problemi, con la Legge n. 183 del 2014 veniva concessa al legislatore un’ampia delega di riforma “degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”; nasceva così il cosiddetto Jobs Act e prendeva forma una delle più profonde rivisitazioni del nostro sistema di diritto del lavoro, attraverso i decreti attuativi pubblicati a scaglioni da marzo a settembre 2015.
Oggi, mentre in Francia sindacati e rappresentanti del mondo scolastico protestano e si oppongono all’approvazione della Loi Travail, la riforma del mercato del lavoro d’Oltralpe, in Italia il Jobs Act ha da poco compiuto il suo primo anno di vita ed è tempo di bilanci.
In proposito, va anzitutto detto che il giudizio generale sul provvedimento di riforma è nel suo complesso positivo; il Jobs Act ha raggiunto, ad avviso di chi scrive, l’obiettivo di riformare ad ampio raggio il sistema di regole del lavoro vigente all’interno del nostro ordinamento.
L’effettiva portata riformistica è risultata visibile solo con l’approvazione di tutti i decreti attuativi, dalla cui lettura è possibile ricavare una visione di insieme che, viceversa, a concentrarsi su singoli istituti (e connessi dibattiti), verrebbe a mancare, con la conseguenza che il giudizio sul provvedimento risulterebbe limitato o, peggio, monco.

Costi certi e conseguenze prevedibili del licenziamento
Proprio la visione d’insieme aiuta a dire che, a dispetto di coloro i quali hanno ridotto il Jobs Act ad una riforma sul licenziamento, esso è al contrario uno straordinario sponsor del lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Le tutele crescenti non hanno, infatti, reso per nulla ‘più facile’ licenziare, dal momento che le qualificazioni giuridiche del licenziamento sono rimaste le stesse: il rapporto di lavoro potrà risolversi solo per giusta causa, ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile e cioè per quella causa così grave da non consentire neppure temporaneamente la prosecuzione del rapporto e che la giurisprudenza ha determinato avere natura “ontologicamente disciplinare”, e per giustificato motivo ai sensi dell’articolo 3 della Legge n. 604 del 1966, nella sua doppia matrice di soggettivo, ovvero connesso a un “notevole inadempimento” della prestazione, oppure oggettivo “afferente ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Ciò che oggi le norme definiscono con chiarezza rispetto al passato sono le conseguenze economiche del licenziamento, così che al momento della risoluzione del rapporto l’imprenditore sa che:
• la reintegra verrà disposta nei casi di licenziamento nullo, discriminatorio o intimato in forma orale (articolo 2, D. lgs. 23/2015) e comporta la condanna del datore al pagamento di una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per il periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e comunque mai inferiore a cinque mensilità, oltre ai contributi assistenziali e previdenziali;
• la reintegra verrà altresì disposta nel caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo quando sia “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavo- ratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (articolo 3, D. lgs. 23/2015), con diritto del lavoratore alla percezione di una indennità a carico del datore commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per un importo fino a un massimo di dodici mensilità, dedotto il cosiddetto aliunde perceptum o percipiendum (ovvero quanto il lavoratore ha percepito in forza di altra occupazione svolta nelle more o avrebbe percepito se ne avesse trovata) e con salvezza dei contributi previdenziali e assistenziali dal licenziamento alla reintegra;
• negli altri casi in cui risulterà accertato in giudizio “che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento” e condanna il datore al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a 24 mensilità;
• infine, nell’ipotesi in cui il licenziamento dovesse risultare affetto da vizi formali e procedurali, il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannerà il datore al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 12 mensilità.
Licenziare ha quindi, nel contesto della riforma, un costo certo e conseguenze prevedibili che è possibile ‘mettere a budget’, ma non per questo risulta operazione più semplice. Anzi, si potrebbe dire il contrario.

Il rinnovo della disciplina delle mansioni
Tralasciando il licenziamento disciplinare –che è originato da un momento patologico del rapporto di lavoro caratterizzato da un inadempimento del prestatore (e anche perché sul concetto di inadempimento colpevole della prestazione in grado di sostenere la risoluzione unilaterale del contratto la giurisprudenza molto avrà da dire, dubitando fortemente che un fatto materiale di scarsa importanza possa, pur quando esistente nella sua materialità, giustificare il licenziamento)– c’è da dire che l’organizzazione aziendale è segnata anche dal rinnovo della disciplina delle mansioni e dalla riscrittura dell’articolo 2103 del codice civile.
La facoltà concessa al datore, oggi, di mutare le mansioni del proprio dipendente con maggiore semplicità rispetto al passato e addirittura di demansionarlo in casi specifici, acuisce gli obblighi di repechage cui la giurisprudenza sottopone da anni la legittimità del licenziamento per ragioni oggettive. E così prima di poter procedere in questo senso, il datore che non vorrà comunque spendere quanto la norma prevede come sanzione, dovrà verificare l’applicabilità del lavoratore in una posizione alternativa, sul piano sia orizzontale sia verticale.
Se a ciò si aggiunge la stretta –forse troppo severa– imposta al ricorso alle forme di collaborazione autonoma, vengono meno anche gli ulteriori fattori di trattativa utilizzati in precedenza per agevolare il rinvenimento di soluzioni alternative alla lite, spostando il baricentro del sistema in un processo di secco in o out, in cui chi è protetto dall’articolo 18 (Legge 300 del 1970) resterà attaccato al proprio posto di lavoro con ogni mezzo, anche giudiziario, frustrando ancor di più la mobilità del personale dipendente assunto prima del 7 marzo 2015 e che non è certamente anziano.
Dalla lettura di tutti i testi che compongono la riforma, pare intravedersi con maggiore chiarezza il disegno del legislatore, volto a mettere in atto le condizioni di base perché si sviluppi nel sistema un nuovo modo di svolge- re la prestazione, introducendo nelle norme che regolano il rapporto contrattuale i presupposti perché l’organizzazione e la produttività assumano valore non più solo orientativo e concettuale, ma giuridico nell’ambito della gestione del lavoro e delle sue fasi.
In questo senso l’articolo 2013 del codice civile è esemplificativo della rottura con il passato e l’intervento ha preso di mira la norma simbolo dell’immobilismo del sistema, per il quale, fino a giugno 2015 (momento di entrata in vigore della novella), chi veniva assunto con una determinata professionalità non poteva essere assegnato ad altro ruolo se non a esso ‘equivalente’, tanto sotto il profilo retributivo che in termini di bagaglio di conoscenze acquisite.
La norma in vigore oggi permette, invece, al datore di modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore, purché queste siano riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Non solo. Viene ‘sdoganato’ il demansionamento. Nel caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali è possibile assegnare al lavoratore una mansione inferiore non in linea con il livello contrattuale purché si resti nell’ambito della medesima ‘categoria legale’ di appartenenza e quindi a condizione che un operaio resti un operaio, impiegato un impiegato, e così via.
La norma incide su uno degli aspetti più delicati e ‘personali’ del contratto di lavoro, cioè la professionalità del lavoratore, ed è quindi facilmente intuibile come questa abbia in sé tutti i requisiti per diventare, nell’immediato futuro, il tema giuridico tra i più gettonati dinanzi ai tribunali, i quali non è affatto detto che riterranno lo ius variandi libero nella maniera in cui se l’è immaginato il legislatore, essendo innumerevoli gli interessi di cui il singolo è portatore che possono sbilanciare l’esito interpretativo verso vecchie logiche conservatrici.
Per adesso, il Tribunale di Roma e il Tribunale Ravenna, in due pronunce emesse alla fine di settembre 2015, hanno risolto in modo praticamente opposto uno dei numerosissimi problemi di diritto intertemporale che accompagnano il Jobs Act: secondo il primo, il nuovo articolo 2103 del codice civile sarebbe applicabile anche ai rapporti di lavoro che, pur instaurati prima del 25 giugno 2015, hanno registrato un cambio di mansioni solo successivamente alla modifica dell’articolo. Di diverso avviso il Tribunale di Ravenna, che, sulla scorta del principio generale di irretroattività della legge e al fatto che il legislatore non ha previsto alcuna regolamentazione del diritto transitorio, ha negato l’applicabilità del nuovo articolo 2103 del codice civile ai rapporti di lavoro instaurati prima dell’entrata in vigore del D. lgs. 81/2015.

Il grande assente: le relazioni industriali
Un accenno conclusivo non può che essere rivolto alle relazioni industriali, dal momento che l’intero impianto implementato con il Jobs Act è pervaso da continui riferimenti alla contrattazione collettiva e anzi si regge in parte anche sulla legittimazione, mediante delega espressa, delle parti contrattuali a derogare e/o modificare le disposizioni normative in esso contenute attraverso la sottoscrizione di accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali.
A discapito dei detrattori della prima ora, il legislatore pare in verità aver riposto una rinnovata fiducia nelle relazioni industriali, conferendo a esse ampio mandato e potere di confezionare soluzioni ‘su misura’, con lo scopo di aumentare la capacità produttiva, la competitività delle imprese e il benessere della forza lavoro.
L’impianto rappresenta una straordinaria opportunità di recupero di un dialogo sociale da troppo tempo sopito e incancrenito su vecchie logiche di posizione, tanto più che non è stata abrogata la norma di cui all’articolo 8 della Legge n. 138 del 2011 in tema di accordi di prossimità, il che rende possibile in concreto, in presenza di certe tassative condizioni, derogare alle stesse norme contenute nei decreti attuativi che compongono il Jobs Act, ben oltre le deleghe da queste previste.
Resta da vedere se tali opportunità sapranno essere colte dagli attori principali oppure, ancora una volta, le parti sociali preferiranno arroccarsi su posizioni inconciliabili interpretando il dialogo sindacale come conflitto, subendo così nuovamente gli interventi manipolativi di una magistratura costretta a giocare il ruolo di supplente e non di interprete, e di un legislatore chiamato a rimediare i danni ex post.
Ci auguriamo che ciò non accada, non solo perché c’è la convinzione (o, forse, il desiderio) che il futuro del diritto del lavoro risieda in un sistema di regole sempre più di natura negoziale, ma anche perché riteniamo che quando tali regole provengono da un processo di condivisione diffusa, che è proprio delle relazioni industriali, esse sono in grado di incidere sul rapporto di lavoro generando entusiasmo, partecipazione e il più facile raggiungimento di obiettivi. Il miglior terreno per ottenere risultati pratici significativi nel contesto del Jobs Act pare quindi proprio essere l’accordo sindacale, ma per adesso di sforzi in tal senso non se ne registrano. 

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